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Agli inizi degli anni '70 (del secolo scorso, ma dirlo fa impressione ...) i fratelli Altomare ritornano a Luzzi, loro paese natio, da dove erano partiti solo qualche anno prima. Come tanti altri negli anni '60 erano emigrati in Svizzera, ed avevano raggranellato qualche franco. Si erano ritrovati con un piccolo tesoro, quando convertirono in lire il loro gruzzoletto e con una gran voglia di costruirsi il proprio futuro. Il lavoro in fabbrica non gli aveva dato una formazione che potesse essere utilizzata per inventarsi un'attività. La loro attenzione si rivolse naturalmente all'esperienza familiare. Loro padre era un artigiano stimato, 'u scarparu, onesto e stimato per la precisione e la serietà del proprio lavoro. Luzzi è un paese pre-silano, rinomato per l'Abbazia della Sambucina, una certosa millenaria dove ha soggiornato anche Gioacchino da Fiore. Non ha alcuna tradizione industriale, né i calzolai si sono mai distinti da quelli dei paesi vicini.

Con il proprio capitale ed un finanziamento agevolato dell'Isveimer, riuscirono a mettere su un capannone industriale e comprare dei macchinari alquanto moderni all'epoca. Nasce così il Calzaturificio Fratelli Altomare, una società in nome collettivo successivamente trasformatosi in Gidora srl. Prima ancora di entrare in produzione si cominciano a sentire le prime avvisaglie di crisi, dovuta soprattutto alla mancanza di liquidità, che costituirà un leit-motiv di tutta la storia successiva. Quello che sembrava un cospicuo capitale si era rapidamente esaurito soprattutto perché da subito l'investimento era stato sovradimensionato: invece di partire da un moderno laboratorio artigiano si era puntato direttamente a realizzare una grande industria calzaturiera. La dimensione degli impianti richiedeva un numero elevato di personale che gravava come un macigno sui costi aziendali. Fin dall'inizio della produzione si occuparono dai venti ai venticinque addetti, con una produzione che oscillava tra le 10.000 e le 20.000 paia di scarpe maschili all'anno.

Come in tanti altri casi analoghi ci si inviluppa in una spirale perversa: il volume del fatturato è troppo basso per coprire i costi di produzione, poiché non si riesce neanche ad avvicinarsi al break-even point, il punto in cui i ricavi eguagliano i costi e superato il quale inizia il punto di convenienza a produrre. Per poter raggiungere una condizione di equilibrio bisognerebbe spingere la produzione a circa 30-40 mila paia di scarpe.

Il paradosso è che l'altro problema della società è proprio di natura commerciale poiché l'azienda non riesce a vendere neanche le scarpe che produce: sono di qualità medio-bassa e per trovarsi un mercato è necessario varcare i confini della Calabria e rivolgersi alle regioni  limitrofe, con un salasso in termini di prezzo. Se si vuole vendere bisogna diminuire i prezzi, con margini così risicati da coprire a stento gli stretti costi di produzione. La vera scelta era tra ridimensionare il tutto alle condizioni di mercato o pianificare una grande operazione di penetrazione sul mercato mettendosi in concorrenza con le grandi aziendali. Si scelse di non scegliere ed aspettare che intervenisse qualche Santo, in fondo si poteva ricorrere a Sant'Umile di Bisignano, o al Beato Angelo di Acri.

Come tutti i newcomers, gli ultimi arrivati sul mercato, i fratelli Altomare sono convinti che trattasi di una crisi di crescenza, che sarà rapidamente superata. In attesa di quel giorno radioso, si continuano ad macinare perdite ed accumulare debiti. Anche le rate del mutuo Isveimer cominciano a non essere pagate, con continue pressioni da parte dell'Istituto bancario di regolarizzare la posizione ed  evitare il rischio della perdita della agevolazioni sugli interessi. Bisogna ricordare che proprio il decennio 1973-1983 è stato caratterizzato da un livello di tassi di interesse elevatissimi, per cui la perdita dell'agevolazione equivaleva ad una vera e propria dichiarazione di insolvenza: se l'azienda non era in grado di pagare un mutuo agevolato, non sarebbe stata mai in grado di regolarizzare una morosità che provocava la duplicazione del capitale ogni tre o quattro anni.

In questo periodo si alternano nuovi ingressi nella compagine sociale, vari commercialisti, tra cui Giuseppe Di Donna, in seguito Enrico Russo, della Russo Pavimenti. Vi è un certo interesse per una realtà che sembra comunque promettente e costituisce un unicum nel panorama industriale della provincia. Manca un elemento insignificante: la liquidità. Tutti portano belle parole e programmi fumosi, ma pochi spiccioli, rispetto alle esigenze della società. L'acqua è poca e la papera non galleggia!

L'Isveimer mette in mora la società e, dopo qualche tempo, rescinde il contratto dando avvio alle azioni legali per l'esecuzione immobiliare del capannone, sul quale grava ovviamente un'ipoteca a favore dell'Istituto. Anche i macchinari sono gravati da privilegio legale. Così nel 1982 l'attività si blocca e l'avventura sembra arrivata al capolinea: i libri vengono portati in tribunale ed inizia la procedura di scioglimento della società. Tutti gli operai vengono messi in Cassa Integrazione.

Dopo qualche anno di triste penare interviene la politica. Il senatore DC Francesco Smurra interessa il suo amico Francesco De Cesaris, Presidente della GEPI per dare soluzione alla crisi e garantire un futuro agli operai che sono in procinto di restare senza alcuna rete di protezione, finito il periodo della Cassa Integrazione.

Nel 1986 viene così costituita una nuova società e nasce il "Calzaturificio di Luzzi spa" con capitale GEPI. A dirigerla viene chiamato Salvatore Repice, in qualità di tecnico-politico. Si costruisce una operazione industriale di grande respiro prendendo in fitto dall'Amministratore giudiziale tutto ciò che resta dell'attività con i gravami a favore dell'Isveimer  ancora esistenti. Viene elaborato un programma articolato che prevede i seguenti momenti:

L'operazione di marketing ha un successo che si può definire strepitoso. Il marchio Cesare Firrao viene imposto in tutte le grandi fiere nazionali ed internazionali con un investimento per tutta l'operazione pubblicitaria superiore a sei miliardi: è un esperimento più unico che raro nella storia delle agevolazioni nel Mezzogiorno quello di concentrare lo sforzo maggiore in un investimento immateriale. Si crea dal nulla un marchio di qualità, sicuri che l'eccellenza della produzione seguirà. Ed è un esperimento interessante, perfettamente riuscito. Forse un precedente che si può tentare di replicare in altri settori.

Con il senno di poi si può tentare di analizzare quali sono stati gli errori che hanno portato al fallimento anche questa nuova iniziativa. L'operazione chiarezza non può purtroppo servire a far ritornare in vita l'azienda, ma potrebbe essere un'esperienza preziosa per chi voglia ripercorre una strada simile.

Il primo elemento di debolezza è stato il gigantismo. Si fa nascere un neonato con un corpo da adulto, ma incapace di reggersi sulle proprie gambe. La struttura giuridica è eccessiva, con tanto di organi sociali di amministrazione  e di controllo, una struttura organizzativa che genera spontaneamente una serie di costi normali e sopportabili per una azienda medio-grande, ma eccessivi per una piccola realtà in avvio. Un aspetto che al momento appare secondario ma si rivelerà esiziale nel seguito è la collegialità degli organi preposti alla gestione, un'esperienza nuova nel panorama di esasperato individualismo calabrese. Si creano contrasti paralizzanti e si delineano strategie contrapposte, che nascono nel presupposto che vi sia dietro Pantalone che rimborsa a pie' di lista qualsiasi perdita. In nome della socialità non si bada a spese!

Inoltre i principali responsabili sono lontani dalla quotidianietà della gestione, appaiono più come delle figure politiche interessati al destino dell'umanità che dei veri e propri manager preoccupati unicamente delle sorti della società. Insomma, l'impronta politica porta una ventata di modernismo, ma pone anche un freno all'efficienza della gestione ed apre consistenti falle nel conto economico della società.

La seconda debolezza è il personale, subito attestato intorno alle 35 unità. La famiglia Altomare fa la parte del leone, venendo a rappresentare, tra parenti vari, più della metà di esso. Sono assunzioni "risarcitorie" dovute in virtù della paternità dell'iniziativa, o meglio dell'embrione originario. Quello che sta succedendo, infatti, ha poco a che fare con il vecchio Calzaturificio dei Fratelli Altomare, che ha soltanto lasciato uno strascico di problemi ed un cumulo di macerie. 

Il peccato originale riemerge da subito. Ci si ritrova in brevissimo tempo nella stesso circolo vizioso di una struttura organizzativa e produttiva sovradimensionata, che avrebbe bisogno da subito di duplicare o triplicare la produzione e una penetrazione commerciale che non consente di collocare il prodotto sul mercato. Vi è un aggravante rispetto al momento iniziale. La nuova strategia punta su prodotti di grande qualità ma con prezzi molto elevati. Il Mezzogiorno è troppo stretto per tale tipo di prodotto, occorre affrontare il grande mercato internazionale. La struttura commerciale non è insufficiente, è semplicemente inesistente. 

Ancora una volta non si è voluto creare un moderno laboratorio artigiano, che avrebbe trovato immediatamente le condizioni di equilibrio, poiché la qualità del prodotto è eccellente, le vendite si incrementano nonostante i prezzi molto elevati. Ma la capacità di assorbimento di un mercato locale è molto limitata. Il programma GEPI è un esperimento che resta in bilico tra una microrealtà artigianale cresciuta in maniera mostruosa e una dimensione industriale per la quale rimane un progetto largamente incompiuto.

Per avere un'idea delle condizioni in cui versa la società in questa prima fase basta vedere il grafico num. 1 nel quale sono riportati i principali dati tratti dal bilancio 1992, che possono riassumersi in poche note: un fatturato di un milione e mezzo di euro, costi di produzione di 2,2 milioni di euro, una perdita di circa un milione, ed un indebitamento di tre milioni di euro. 

Una situazione già disastrosa, che non presenta alcun sintomo di miglioramento negli anni successivi. Tutti gli esercizi chiudono con perdite rilevanti comprese tra i cinquecentomila ed il milione di euro (da uno a tre miliardi delle vecchie lirette, per intenderci), che mamma GEPI non ha difficoltà a coprire e tutto sembra poter continuare all'infinito. Il Calzaturificio di Luzzi finge di giocare alla grande azienda, macinando  alla grande solo perdite, ma il problema industriale rimane irrisolto. L'aver un marchio ormai prestigioso sembra soddisfare la vanità di tutti.

Nel 1994 la GEPI viene posta a sua volta in liquidazione e deve dismettere tutte le sue attività o procedere alla loro liquidazione. La scelta è amletica: to be or not to be. Arriva il momento della verità, poichè si dà avvio ad una operazione di "management buy-out", insomma si invitano i manager ad assumere direttamente la proprietà della società e la responsabilità della gestione. Nell'incipit del secondo canto dell'Inferno, mentre si accinge a raccontare la sua avventura, Dante dice:

"... o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate."

È giunto il momento per i manager di dimostrate la nobilitate e la capacitate. La società deve farcela da sola, continuare le sue acrobazie senza la rete di protezione pubblica. Nessuno aveva realmente previsto all'inizio dell'avventura una possibilità del genere; la permanenza della GEPI nelle attività era tradizionalmente molto lunga, a dispetto della temporaneità prevista dalla legge. Ma la grande crisi del 1992, con lo smantellamento di tutto l'apparato legislativo di agevolazione del Mezzogiorno non l'aveva previsto nessuno. Non viene solo abolita la Legge 64/86, ma vengono soppressi tutti gli enti operanti nel settore. 

Il capitale sociale viene rilevato  per il 90% dal gruppo Di Donna e da Salvatore Repice; per quote minori, Francesco Smurra e alcuni dirigenti della stessa società. Altri nodi vengono al pettine, quasi contemporaneamente: bisogna rilevare il complesso industriale dall'organo liquidatorio del Calzaturificio Altomare e rinnovare le macchine ormai diventate vecchie ed obsolete. In parole povere c'è l'urgente esigenza di un programma di rilancio di tutta l'attività che finalmente completi il progetto industriale e chiuda definitivamente con il passato. Come saluto finale la GEPI ha conferito una dotazione iniziale, ed i neo soci investono due o trecentomila euro. Ma sono briciole appena sufficienti a coprire le sempiterne perdite ed impedire che il terminal della società sia la Sezione fallimentare del tribunale.

Viene elaborato un progetto per un investimento complessivo di 5-6 milioni di euro che prevede il completo rinnovo delle macchine con un ampliamento della capacità produttiva, poiché ci si rende conto che o si fa il grande salto o si è destinati a fallire. Per raggiungere questo obiettivo bisogna almeno raddoppiare il fatturato; si contempla l'acquisto dello stabilimento e la creazione di una rete di vendita, con l'apertura di otto negozi che debbono provocare quella penetrazione commerciale che sia in grado di assorbire la produzione.

Un aspetto che emerge è la necessità di integrare la produzione di alta qualità con una linea più sportiva ed a costi più contenuti. Si pianifica a questo scopo la creazione di una linea automatizzata per un prodotto di largo consumo a basso prezzo. Si valuta altresì l'inderogabilità di integrare verticalmente la linea di produzione con la creazione di un tomaificio, poichè l'acquisto da terzi delle tomaie non solo è molto costoso, ma non consente quella scelta qualitativa necessaria per la diversificazione del prodotto ed il rispetto dei tempi contrattuali. 

Racconta un dirigente del settore operante nel nostro territorio. "Qualsiasi imprevisto diventa una difficoltà insormontabile, poichè manca quel tessuto di attività collegate che offrono i piccoli prodotti indispensabili per velocizzare la produzione. Dovevamo consegnare un centinaio di paia di scarpe qualche giorno fa. Ci siamo accorti che mancavano i lacci del colore e della forma necessaria. Siamo entrati nel panico. Abbiamo dovuto fare una ricerca telefonica, via internet, scomodare amici. Tutto per poche migliaia di lire di prodotto, e le scarpe sono ancora in attesa di essere spedite, tra la protesta del nostro cliente che non riesce a capire il motivo del ritardo: gli avevamo assicurato che erano pronte. Sono pronte è vero, ma mancano i lacci e per averli ci vuole la mano di Dio!"

Questa è un'esperienza comune  delle industrie calabresi e costituisce uno degli ostacoli più frequentemente lamentati di debolezza del sistema. L'estrema fragilità del tessuto produttivo induce in tanti a rendersi autosufficienti per evitare disguidi e ritardi legati alla lontananza dei mercati di approvvigionamento. Questo sforzo si rivela spesso fatale perchè un'integrazione eccessiva si risolve spesso in una duplicazione dell'inefficienza.

Nel caso in esame viene costituita una nuova società, la Conca srl (Confezioni Calabresi) con sede in Cetraro, progetata per produrre 60.000 tomaie all'anno, quante sono quelle necessarie al Calzaturificio di Luzzi, con un'attività di ricerca di nuovi materiali per rinnovare i prodotti. 

Il programma complessivo di investimento si articola in tre richieste di investimento agevolato in due successivi bandi della Legge 488/92, che vengono tutti approvati. In sintesi si prevede: un apporto di capitale proprio di 2,5 miliardi di lire, agevolazioni per 6,5 miliardi e un mutuo di un miliardo e mezzo per complessivi 10,5 miliardi di investimenti.

Sembra un piano perfetto che si arena sul piccolo particolare di sempre, manca la liquidità e bisogna cercare nuovi soci finanziatori. Qui inizia una divaricazione di interesse tra la linea aziendalistica che cerca coinvolgimento di grandi industriali del settore e la linea "politica", che si rivolge a finanziatori e faccendieri.

Per la prima ipotesi si cerca un contatto con Trussardi. Sembra sia stato raggiunto un accordo che non è stato sottoscritto solo per lo schianto della sua auto che ha tragicamente posto fine alla sua esistenza. Successivamente si tenta di coinvolgere Santo Versace, il quale si dimostra interessato ma chiede il completo controllo della società. 

L'ipotesi di perdere il giocattolino fa subentrare un gruppo di immobiliaristi romani, Eugenio e Bruno Stura, soci della Cometa srl . Essi si dichiarano disposti a intervenire con grandi grande dispiego di mezzi finanziati, a garantire la Banca Antonveneta per la concessione del mutuo a creare una vasta rete commerciale. Quando tutto sembra pronto ed avviato a conclusione, i soldi promessi non ci sono, il gruppo romano scompare inghiottito da scandali e oscure vicende giudiziarie. 

Inizia una nuova affannosa ricerca di un partner finanziario, mentre vengono scartate le ipotesi di intervento di industriali del calibro di Diego Della Valle, il Sig. Todd's, che si dimostrava discretamente interessato all'operazione, considerato che ormai risultava dappertutto molto difficile produrre calzature di alta qualità con metodo prevalentemente artigianale.

Viene ancora una volta data preferenza ad un gruppo romano-californiano dove non manca il principe azzurro delle favole, Principe Monteforte Alduino di Ventimiglia, ma di origini siciliane, il facoltoso italo-americano di Bruccolino, Presidente della Italian-American Chamber of Commerce della California, il figlio di un generale con trascorsi pochi chiari, la Signora Panak - moglie di questi - una nobildonna iraniana con passaporto americano, l'avvocato romano Spinello, che sembrava il motore di tutta questa costruzione. In tutti gli incontri i dollari scorrevano a fiumi, si progettava di aprire negozi nelle principali metropoli americane (New York, Los Angeles, Miami ecc.) e nelle principali capitale del mondo, da Tokio a Parigi, passando per Mosca via Hong Kong fino ad arrivare a Londra. La produzione doveva rapidamente salire a un milione di paia di scarpe, gli investimenti programmati insufficienti a garantire la prevista domanda, si cercavano altre aziende in grado di sostenere la produzione come façonisti. Insomma, una rivoluzione.  Marotta, Presidente dei Giovani Industriali di Napoli, era già stato designato come direttore generale del Calzaturificio. 

L'avvocato Spinello finisce agli arresti domiciliari. Sembra che sia rimasto imbrigliato nell'inchiesta sulla Massoneria deviata, iniziata dal Procuratore della Repubblica di Napoli Agostino Cordova. Il fantasioso gruppo si evapora, mentre la società continua ad indebitarsi. 

Viene realizzato parzialmente il tomaificio che comincia a produrre  per Testoni e Barrett, ma in quantità insufficienti a garantire l'equilibrio di gestione. La verticalizzazione della produzione si traduce in un nuovo cumulo di perdite, poichè proprio il Calzaturificio non riesce a sostenere la domanda. 

Le difficoltà finanziarie impediscono di completare l'investimento tutt'e tre gli investimenti previsti e poter in tal modo incassare il contributo. Il Calzaturificio continua la sua grama vita, tra un indebitamento crescente e l'ulteriore accumulo di perdite.

I principali dati del bilancio 1999, illustrati nella figura 2 mettono in luce con chiarezza che la condizione non è molto dissimile dal 1992. Il fatturato non raggiunge il milione di euro, con una perdita di circa 500 milioni. Nè bisogna lasciarsi impressionare dal patrimonio, è un impegno dei vecchi soci in attesa dei nuovi finanziatori che dovevano riempire le casse sociali di nuova liquidità. Nel frattempo la società si dimenava tra i problemi di sempre, con l'aggravante che non vi era più alcun salvagente, e tutte le ipotesi di soluzioni si erano dimostrate inconcludenti. L'anno successivo è l'ultimo. Il fatturato si dimezza, le perdite di duplicano, non si ha alcuna altra ipotesi da esplorare, non si riescono ancora ad incassare i contributi. Si portano i libri in tribunale, la società viene dichiarata fallita e tutto il personale viene posto nuovamente in Cassa Integrazione.

Ancora oggi resta il mistero di questi fantomatici finanziatori. Non avevano una lira, e non ne hanno cavato un ragno dal buco. Ci si chiede ancora quale fosse il loro scopo ed il loro obiettivo. Riciclaggio? Megalomania? In tutte e due i casi, è la magistratura ad interrompere il miracolo.

Cosa succede adesso? L'avventura è davvero arrivata al capolinea definitivo. Sembra che la curatela fallimentare abbia avuto delle manifestazioni di interesse, ma del solo marchio. Dello stabilimento non ne parla nessuno, si ha il timore che porti scalogna, che sia affetto dalla maledizione della terza luna. Riaffiora l'incubo dell'assorbimento del personale, di dover affrontare l'avventura industriale in un'area decentrata con tutti i disservizi lamentati nelle precedenti esperienze e con il sovradimensionamento che ha portato al fallimento l'iniziativa per ben due volte. Il drammatico problema di sempre, l'assenza di capitale o la scarsa voglia di investirlo in un'attività rischiosa non ha trovato alcuna soluzione. Si spera in un intervento pubblico che ridia la gioia di poter perdere senza porsi il problema di come coprire questi buchi. È questo il destino industriale della Calabria?

Resta il rammarico di un grande marchio destinato a morire perchè nessuno ha interesse a conservarlo, un po' come il vino Savuto, uno dei primi DOC della Calabria virtualmente sparito dalla tavola per il fallimento della cantina sociale. Ironia della sorte, oggi la carta vincente nel settore è proprio la disponibilità di un grande marchio e di un prodotto artigianale di grande qualità. La produzione di massa è saldamente nelle mani dei cinesi. In Calabria vi è una carta vincente, ma è destinata al macero.

Calzaturificio di Luzzi - Principali dati di Bilancio - Anni vari.
  1992 1993 1997 1999
Fatturato 1.482 1.338 1.758 894
Valore aggiunto 254 350 621 165
Ut. d'esercizio -965 -1.010 -411 -514
Cash-flow -671 -566 -296 -386
Cap. Soc. 383 584 1.782 3.014
Patr. Netto -583 -426 1.483 1.904
Tot. Debiti 3.021 2.631 2.004 2.730
Personale 747 668 741 776
Mat. Prime 617 543 486 469
Tot. Costi Prod. 2.322 2.329 1.922 1.860

 

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