1 - In frana da sempre

Il cielo era limpido e sereno; i venti spiravano placidi, e lambivano dolcemente i petali di fiore primaticcio; il popolo riposava, quieto e tranquillo; quando un rombo tremendo, simile allo scroscio dell'acqua di una gran cascata, fece sbigottire e tremare tutta la popolazione. Questa, tremante, corse al luogo della catastrofe, che era avvenuta a pochi metri di distanza dalla Cappella del SS. Rosario, e vide la terra scendere ancora, come masso immenso spiegatosi dal vertice di un monte.

Era il 1827, e ricorreva il dì delle Ceneri, continua l'anonimo cronista che su "L'eco di San Giorgio", una pubblicazione del 1903, raccoglieva i prodigi del Santo protettore. 

Chiamato presto il Parroco, il signor D. Gaetano Melicchio, s'improvvisò una processione e si portarono lì le statue della Madonna del Rosario e di Fati Giorgio. Ed oh miracolo! A misura che passava la processione, rifermava la terra.  

Quella notte si produsse quella tremenda ferita che ancora oggi divide Cavallerizzo da Cerzeto, le cui case si fermano proprio sull'orlo di un precipizio, la Sciolla. Sarebbe strano pensare che con tutto lo spazio disponibile si fosse deciso di erigere le case proprio su un baratro. Esso si è creato per la discontinuità del terreno, molto compatto nella parte su cui sorge l'abitato e argilloso dopo. L'altra causa è l'acqua che filtra nel sottosuolo fino a formare un sistema idraulico ipogeo, sotterraneo: con un fiume, piccoli acquitrini fangosi ed un laghetto che in alcuni punti raggiunge altezze di decine di metri. 

Tra i due centri si estendeva il "Prato di Cavallerizzo", una zona pianeggiante ricoperta di "cerze", disboscato e sottoposta totalmente a coltura. Il catasto onciario del 1753 segnala che vi si coltivavano ortaggi, fichi, vigne, e il grano, l'unico terreno in cui ciò era possibile. I terreni a valle era degli acquitrini malarici di proprietà di famiglie feudali, così come proprietà feudale era la Montagna Magna. 

«Ec tek Diella ndë Qanë se të huan një karavele buk.» È rimasto nella memoria collettiva degli abitanti di Cavallerizzo il prendere a prestito persino il pane a Cerzeto. Le due comunità non erano solo unite da stretti vincoli di parentela e vicinato, ma anche poste a poca distanza l'uno dall'altro. Esse furono costruite insieme tra il 1476 ed il 1478, da profughi albanesi in fuga dai turchi. Tutti ancora parlano l'arbrësh si dimostrano fieri della propria identità culturale.

Sembra la cronaca della frana che ha letteralmente inghiottito metà dell'abitato di Cavallerizzo, piccolo  paesino in provincia di Cosenza, fino ad ieri sconosciuto alla grande stampa. La notte tra domenica 5 e lunedì 6 marzo, infatti, sotto una pioggia insistente, quel rombo tremendo si è ripetuto, così come lo scroscio d'acqua. Ma il miracolo no. L'abitato è stato sgomberato e la stessa comunità rischia di disintegrarsi e perdere la sua identità conservata gelosamente per più di cinque secoli. 

Dal momento del loro insediamento vi sono stati altri due eventi ricordati dallo stesso cronista: «Nel 1635 una terribile frana avea invaso il paese, e stava per ingoiarlo: bastò ricorrere a lui (il Protettore San Giorgio), ed ecco arrestarsi la frana, senza che si ebbe a deplorare danno alcuno». Più oltre: «Correva il 1720, quando altra terribile frana fece tremar le vene e i polsi agli abitanti di Cavallerizzo.»

In questa semplice cronaca vi sono degli elementi di interesse da notare. Il fenomeno franoso è molto antico ed è stato causato dallo stravolgimento del terreno, privato della sua protezione arborea ha indebolito le sue difese. L'abitato appare aggrappato sul pendio del monte S. Elia. Il terreno è costituito da una base di rocce cristalline corrugate, su cui poggia uno strato argilloso di altezza variabile tra i 40 fino a oltre 100 metri. Per le infiltrazioni d'acqua, lo strato argilloso scivolava creando quei fenomeni franosi segnalati dal cronista di un secolo fa e ripetutosi oggi.

Tuttavia, la frana tendeva a muoversi con una frequenza secolare, rallentata nella sua lenta evoluzione dalla tenace azione dell'uomo. Dal 1827, l'intensa coltivazione e della sistemazione idraulica con piccole opere di ingegneria naturalistica, la situazione si è mantenuta sotto controllo, pur con qualche avvisaglia tutt'altro che secondaria.

In primo luogo le crepe che costituivano una parte integrante del territorio, che si rinnovano continuamente; la toponomastica con luoghi denominati "Repantanë, Llakat e Ronzi" (Il Pantano, Il Fango e l'Acquitrino), proprio sotto il centro abitato, c'era poco da stare allegri. Segnalavano la presenza d'acqua, con l'instabilità conseguente. 

I vecchi ancora ricordavano come "Tek Ronza", un pagliaio dove dormiva un pastore era stato inghiottito in una notte senza lasciare alcuna traccia. L'episodio non ha una data certa, ma viene riferito agli anni trenta del secolo appena trascorso. "Rruji nga Ronzi" (Fate attenzione), ammoniva nonna Felicia. Trent'anni dopo circa, nello stesso posto vi era stata costruita una scuola elementare, anch'essa semi-inghiottita l'ultima notte fatale. Costruzione realizzata con il conforto di una esemplare relazione geologica: una garanzia per tutti.

2 - Perché proprio ora

Le piogge persistenti di questo interminabile inverno hanno fatto esplodere l'inseme delle cause che si erano venute accumulando nel tempo.  Due quelle fondamentali, entrambe legate all'attività dell'uomo, l'una attiva e l'altra passiva.

L'abbandono dell'agricoltura ha fatto degradare tutte quel sistema di regolazione idraulica, costituita da muretti a secco, canalizzazioni, sistemazione del terreno ecc. Opere semplici ed efficaci che assicuravano un buon drenaggio. Richiedono, però, una manutenzione continua, un intervento attivo che solo una coltivazione generalizzata può garantire. L'abbandono è stato quasi totale, e la terra si è rivoltata contro la violenza subita. Non è stata tentata alcuna altra forma di intervento: il degrado progressivo di quelle opere ha sconvolto l'idraulica dei terreni, accentuando le infiltrazioni e la formazione di accumuli d'acqua in profondità.

La seconda causa è l'uso dissennato del territorio da parte del pubblico e dei privati. Incredibile la vicende delle case popolari, costruite dall'allora IACP (Istituto Autonomo Case Popolari) che ne hanno curato progettazione, elaborazione tecnica ed esecuzione. Ivi compresa la "relazione geologica". L'edificio è stato abbattuto, per la rilevato instabilità, qualche anno fa. Era circondato da altri edifici, oggi inghiottiti nella frana. Perché quegli alloggi popolari sono stati costruiti, perché abbattuti solo quelli, mentre le circostanti, presumibilmente meno curate da un punto di vista tecnico trattandosi di privati, sono state lasciate in piedi?

Lo stesso programma di fabbricazione, approvato nel corso degli anni '80, consente una edificabilità in alcune parti del territorio, sulla base di circostanziate relazioni geologiche, che accompagnano tutte le concessioni rilasciate. Ci si chiede, ma ci si può fidare di una relazione tecnica? Che i politici siano incompetenti, incapaci e magari anche disonesti è quasi un assioma per gran parte dell'opinione pubblica, una condanna preventiva molto spesso ingiustificata. Ma come si spiega che dietro ogni grande catastrofe, vi è il beneplacito, l'acquiescenza professionale? 

Vi è poi la pretesa dei privati di voler a tutti i casi stiracchiare le norme, nella migliore delle ipotesi. Spesso si ricorre all'espediente ed alla "violenza" sui professionisti (che tuttavia subiscono più o meno volentieri sulla base dell'entità della parcella) ed al vero e proprio abuso per realizzare le proprie aspirazioni, al di la del lecito e del necessario. Tutto per allentare i vincoli, aggirare i divieti, superare le difficoltà ritenuti orpelli inutili, vessazioni gratuite, costruzioni normative barocche ed arcaiche. Nella convinzione che i moderni mezzi meccanici, i materiali di migliore qualità possano consentire impunemente violenze sulla natura, stravolgimenti delle norme del buon senso e dei calcoli tecnici. Si è continuato a sradicare liquirizia, che con il suo vasto apparato radicale trattiene il terreno, formando una rete naturale. 

3 - Responsabilità

Dagli all'untore. In questo momento di agitazione, non sembra opportuno aprire il fronte delle responsabilità. Ma vi è un episodio, inquietante da denunciare. A maggio scorso, il comune viene allertato perché il pericolo si è aggravato, la frana sembra in movimento.  Si era raccomandato di monitorare il fenomeno. Nel luglio ed agosto viene consentito il taglio di alberi secolari proprio alla base della frana, sotto il centro abitato. Su un fronte di circa un chilometro ruspe ed escavatori sradicano antiche querce, Qupet e Marinxhies, e qualsiasi altro arbusto, lasciando dietro solchi profondi alcuni metri: in poche parole si è tagliata la base della frana. Mi dice un tecnico di grande competenza: "In caso di movimenti franosi, la prima cosa che andiamo a verificare è se sia stata costruita una strada alla base del declivio". Proprio quello che è avvenuto sotto Cavallerizzo. Un atto irresponsabile, che oggi appare addirittura criminale. Chi ha consentito che un simile scempio si compiesse ai danni dell'intera collettività?

Le continue piogge di questo lungo e piovoso inverno, hanno prodotto un innalzamento della faglia acquifera dai cinque ai sette metri.  La formazione argillosa galleggiava letteralmente su un mare di acqua. Quando ha raggiunto la parte in declivio ha accelerato il suo moto, ed il terreno ha inghiottito le case. Come in altre parti della Calabria, vi è una località denominata "Il Castello" (Kastieli) , dove di generazione in generazione si ripete si sia inabissato un maniero feudale. 

Il disastro di oggi ha origini antiche, ma responsabilità recenti. La condizione dei luoghi è certamente difficile, ma una politica accorta, la realizzazione di opere di drenaggio per controllare il percorso dell'acqua poteva evitare il disastro. 

Nel caso specifico, è senza commenti la tempistica dell'intervento. Di fronte ad un disastro annunciato, non è stato predisposto alcun piano per salvare almeno il salvabile, non si è data alcuna adeguata informazione alla popolazione. Nel week-end i disastri possono attendere, se ne parla con calma al rientro.  È inutile ripetere per l'ennesima volta, l'abnegazione di pochi, la solidarietà reciproca, il coraggio dimostrato in un intervento autogestito, spontaneo che solo è riuscito a salvarli, ad evitare che al disastro si aggiungesse la tragedia. Basterà un nome ed un grazie. Domenico Golemme, Burithi

Bisogna evidenziare al Ministro Calderoli, il Commissario della Forestazione in Calabria, la grande dignità degli sfollati di questi trogloditi della "Calabria Saudita", dei tanti disprezzati meridionali. Qualche lacrima, un grande rimpianto, la morte nel cuore, ma una sorte di rassegnato stupore di fronte alla violenza della natura ed all'incuria degli uomini. La Protezione Civile, avvisata dagli stessi abitanti venerdì sera, è intervenuta solo lunedì pomeriggio, quando avrebbero trovato solo dei cadaveri galleggianti nel fango.

Scriveva Papa Giulio II nel 1471, in riferimento al forzato esodo degli albanesi dalla loro terra: "non si può senza versare lagrime contemplare queste navi che partite dalla riva albanese si riparano nei porti d'Italia, e queste famiglie ignude, meschine, che scacciate dalle loro abitazioni stanno sedute sulla riva del mare stendendo le mani al cielo, e facendo risuonare l'aria di lamenti in ignorata favella".

Sembrano ritornati in quello stato. Oggi, però, non un pianto, non un urlo, solo sommessi lamenti, sospiri amari, petizioni a mezza voce, un comportamento dignitoso, composto, civile, una sopportazione stoica, uno smarrimento negli occhi gonfi di lacrime, una forte incertezza del futuro. Eppure sono stati lasciati senza neanche una brandina ed un materasso per una settimana. Donne, vecchi e bambini a dormire su delle piccole sedie della scuola dove si sono rifugiati.

Hanno perduto tutto. È soprattutto l'incognita sul loro destino, la perdita dell'identità, la disgregazione della comunità che crea l'angoscia maggiore. Molti tra gli anziani sono degli emigranti ritornati nel loro paese di origine dopo anni di lavoro spesi all'estero per trascorrere una serena vecchiaia, contenti di poter morire insieme all'affetto dei propri parenti ed amici. Quale maggiore violenza dello sradicamento dalla propria terra?

Inoltre, come tutte le piccole comunità, la proprietà della casa, l'utilizzo di un piccolo appezzamento di terreno dove far ruzzolare qualche animale da cortile o coltivare un po' di ortaggi, la solidarietà reciproca creava un'economia di sussistenza, un piccolo mondo protetto dove potevano bastare poche centinaia di euro per condurre una vita dignitosa.

Il trasferimento fisico importa anche una trasposizione del modello sociale, una struttura dei costi più elevata. Il piccolo reddito familiare schiaccerà la grande maggioranza di loro verso un livello di povertà, di insicurezza, di precarietà.

Alle spalle lasciano anche la "roba", i terreni che tra raccolta delle olive e delle castagne, davano un'integrazione di reddito sempre più  marginale, ma che si aggiungeva al grande valore affettivo che vi era indissolubilmente legato. Anche quello verrà lasciato alle spalle se dovessero essere costretti a ricominciare altrove la propria esistenza.

Graduatoria dei rischi e priorità nella distribuzione dei fondi, le due cose non viaggiano in parallelo: la prima segue un criterio tecnico, l'altra è soggetta alla valenza politica. Empiricamente si potrebbe dire che l'elargizione è direttamente proporzionale al numero di votanti, elettori o meglio ancora sostenitori del potente di turno. L'instabilità di Cavallerizzo era inserita tra i fenomeni di maggiore rischio della regione, ma non ha trovato un uguale trattamento in sede di distribuzione dei fondi: troppo piccolo, pochi votanti, interesse politico prossimo allo zero. Una valutazione oggettiva, che descrive la condizione reale ed una soggettiva, determinata dal peso elettorale e dalla rappresentatività della classe dirigente.

Cavallerizzo è un esempio, un esempio drammatico, ma di situazioni analoghe ne esistono in tutta la regione: Mongrassano, San Giacomo di Cerzeto, San Martino di Finita, Rota Greca tutti limitrofi ed interessati a fenomeni analoghi con un'intensità varia. Sono tutte bombe ad orologeria in attesa che l'accensione di una piccola piccola miccia potrebbe fare esplodere: una scossa tellurica, il ripetersi di una stagione di piogge abbondanti o altro. L'elenco potrebbe essere lungo dalla Contrada Serra di Buda di Acri, così come nel comune di Marzi una frana impedisce il collegamento con Carpanzano, lasciandone molti altri. La mappa dei rischi li individua. Ma non esiste una mappa altrettanto precisa degli interventi.

Una delle condizioni di maggior debolezza dei centri minori della Calabria profonda, è costituita proprio dalla rappresentatività, in termini numerici delle popolazioni interessate e dalla rappresentanza della classe politica che riescono ad esprimere. La politica locale è vissuta spesso come un'opportunità occupazionale. L'indennità degli amministratori, giusta in principio, ha trasformato le cariche elettive in "posti di lavoro",  e le elezioni in un concorso per bidello comunale. Dovrebbe essere il luogo di selezione della classe dirigente, in grado di rappresentare la collettività al di là dei confini municipali, nelle sedi competenti. Il bilancio dei comuni non basta pi neanche per le spese correnti. Se non si riescono ad intercettare risorse nel loro fluire, qualsiasi amministrazione arriva rapidamente alla paralisi.

Tutti questi centri sono soggetti ad un intenso degrado demografico, cui inevitabilmente si associa un degrado dell'ambiente fisico. La componente più attiva è partita per il mondo in cerca di fortuna: un movimento che continua da molti anni, con alcuni picchi, ma in maniera quasi ininterrotta. Questa frana sociale è altrettanto dannosa, poiché crea il presupposto del dissesto del territorio.

4 - Una ipotesi di rinascita

Cavallerizzo va trasformata da quella tragedia che sta davanti agli occhi di tutti, che ha lasciato una massa di persone disperate ed un paese fantasma, in un opportunità, per loro e per la stessa Calabria. È un impegno che deve coinvolgere oltre che l'amministrazione interessata, tutte le forze politiche e sociali, le rappresentanze sindacali e di categorie, le associazioni ambientaliste, le istituzioni statali, regionali e provinciali per la definizione di un piano di rinascita condiviso e concertato con una temporizzazione degli interventi ed un monitoraggio a scadenze programmate. Bisogna fare tesoro dell'esperienza acquisita con la programmazione negoziata per una rigenerazione del territorio.

In primo luogo va recuperata la legalità, il rispetto delle normative e dell'ambiente. Le violazioni si traducono in violenze sulla natura e questa prima o poi si prende la sua rivincita. Un percorso culturale, da rendere obbligatorio in qualsiasi gita scolastica, tra i tanti centri abitati che nel corso dei secoli sono stati abbandonati per calamità naturali sarebbe altamente istruttivo. La cultura della legalità ed il rispetto dell'ambiente è un primo pilastro su cui costruire.

In secondo luogo, occorre procedere con speditezza alla ricostruzione del centro abitato, poco lontano, in località Vona per creare un trait-d'union con  le altre due frazioni rimaste (Cerzeto e San Giacomo), per conservarne il senso della comunità e difenderne l'identità linguistica e culturale. Non va dimenticato che molte delle case del "vecchio" centro erano di proprietà di emigranti, che li utilizzavano come alloggi estivi, e quali rifugi per la vecchiaia. Costituiscono un grande richiamo per le comunità degli emigranti, un legame forte con il territorio di origine. Essi non vanno dimenticati, solo perché non hanno sufficienti armi di pressione, voti da barattare. 

In terzo luogo, a tutti coloro che sono in età lavorativa va offerta un'opportunità di lavoro, nella rinaturalizzazione dell'intero territorio compreso tra Cerzeto e Mongrassano e del corso del fiume Finita. San Martino, un altro antico borgo arbrësh mostra evidenti segni di cedimento. Si deve ripristinare la vegetazione originaria, conservare unicamente una utilizzazione agricola ecocompatibile sfruttamento agricolo, ricreare la difesa naturale del manto fogliaceo. 

Cosa cambia se ne aggiungiamo un centinaio (o forse di meno) di forestali da destinare al recupero degli stessi luoghi dai quali sono stati costretti a fuggire? 

Un "Patto per la rinascita di Cavallerizzo", da far sottoscrivere alle forze economiche e sociali del territorio, coinvolgendo l'Università della Calabria, che la potrebbe utilizzare quale "Parco floro-faunistico sperimentale" per la rigenerazione dei suoli esausti ed abbandonati. È necessario ed indispensabile il coinvolgimento diretto delle associazioni ambientalistiche a garanzia della qualità ecologiche dell'intervento, evitando la cementificazione degli alvei, lo stravolgimento del territorio. 

Nel progetto si potrebbe prevedere la creazione dell'Osservatorio Ambiente e Legalità, quale sportello unico nella regione per la creazione di una banca territoriale, un "pronto-soccorso" ambientale, uno sportello informativo ed il servizio di monitoraggio delle attività di rinaturalizzazione, che in assenza di un'azione costante e continuativa si trasformano in un boomerang. I muri di cemento armato non prevedono manutenzione. 

La prospettiva occupazionale è il miglior collante per la ricomposizione della comunità, che dopo l'aiuto iniziale troverebbe da sola la forza per poter crescere e irrobustirsi. La rigenerazione naturalistica determina la nascita di un patrimonio di enorme valore, di cui si può anche valutare l'impatto turistico.

I comuni citati (Cervicati, Mongrassano, Cerzeto, San Martino di Finita e Rota Greca) sono contigui e formano un territorio omogeneo sotto il profilo orografico e sono legati da una storia comune. Il Tajani in "Albanesi in Italia" scrive nel 1886: "(Tra il 1476 ed il 1478) "si videro ampliate le case intorno alle antiche abbadie, altri piccoli aggregati sorgere in siti alpestri o boscosi, e da questi venir fuori tutti i paesi ora conosciuti dai nomi di ... Cavallarizzo, Cerzeto, ... San Giacomo, ... San Martino, ... Serra di Leo, ... Cervicato, ... Mongrassano, ... Rota: nomi tutti già portati da quei spopolati villaggi, e qualcuno allora imposto.

Sono stati costruiti nello stesso periodo, hanno origine e tradizioni comuni, sebbene alcuni abbiamo perso l'uso dell'arbrësh. Il riordino amministrativo murattiano, agli inizi dell'ottocento, li aveva raggruppati in un unico Mandamento. Bisogna pensare di ritornare in termini moderni a quella impostazione, coordinare questi territori. Si arrivare ad una unione dei comuni per ricreare una collettività politica, una rappresentatività delle popolazioni e la possibilità di selezionare classi dirigenti al di fuori della logica dei clan familiari, ricercando qualità nel rappresentante. Nel rispetto della storia, per i vincoli imposti dalle restrizioni finanziarie, per creare una collettività più ampia che possa rappresentarsi nel nuovo sistema delle autonomie.

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