Il 13 agosto del 1806, il generale francese Massena, partito da Castrovillari per arrivare a Cosenza fu assalito da un gruppo di rivoltosi di Mongrassano, capeggiati dal parroco Don Lorenzo Barci. Uno di loro, Francesco Capparelli di Cavallerizzo, proprio sopra quel centro abitato, ferì il generale. Catturato, subì un processo sommario a Montalto Uffugo. Fu impiccato alla "Quercia del boia", un albero maestoso poco distante da Cosenza, utilizzato già dai Borboni per questo macabro rito. L'esercito napoleonico percorreva un antico tratturo, trasformato dai Borboni in uno dei "tracciolini" militari, percorsi montani utilizzati dalle truppe per gli spostamenti sul territorio, lontano dalle paludi malariche della Valle del Crati.
Chiunque si sofferma ad osservare l'abitato sgomberato, in questa stagione in cui gli alberi sono spogli, può ancora osservarne il tracciato, ancora intatto, senza il segno di un cedimento, di uno smottamento. Qualche decina di metri più sotto, la strada provinciale che lo ha sostituito circa un secolo dopo, è stato eternamente in movimento. Una gran parte del tratto di questa che attraversava Cavallerizzo è crollata rovinosamente il 6 marzo. Certo è difficile paragonare due opere costruite a distanza di tanto tempo. Le caratteristiche tecniche, larghezza, curvatura e pendenza sono molto diverse: una soluzione valida per un mulo non può essere idonea per il traffico automobilistico.
Tuttavia, la stessa frana di Cavallerizzo ha lasciato intatto la parte più antica del paese e non ha sfiorato il tracciolino borbonico, mentre tutto ciò che di nuovo è stato costruito nell'ultimo cinquantennio è stato inghiottito dalla frana. Non certo perché costruito tecnicamente peggio del vecchio insediamento, ma proprio a causa della diversa natura dei suoli. I vecchi saggi, senza strumenti, riuscivano a sondare il terreno con l'esperienza e la "storia", l'insieme delle conoscenze empiriche tramandate oralmente per generazioni. A posteriori le loro cognizioni empiriche si sono dimostrate molto più efficaci delle tante relazioni e perizie tecniche.
Bisogna chiedersi per quale ragione, un Paese come l'Italia, poiché in gran parte si tratta di un fenomeno nazionale, ha smesso di produrre cultura urbanistica, senso estetico, capacità di elaborazione e fantasia costruttiva. Le nuove costruzioni non sono soltanto deturpanti, ma spesso hanno avuto un effetto devastante sul territorio.
Nella ricerca delle cause di un tale fenomeno, la quasi totalità degli osservatori si sofferma sull'edilizia privata. Ma il discorso si interrompe immediatamente individuando negli amministratori comunali, e nei politici a tutti i livelli, gli unici responsabili, sicuri che in questo gioco al massacro si trova un accordo quasi unanime per il discredito continuo che si è soliti gettare su questi. Si tratta di un atteggiamento pilatesco, che copre responsabilità gravi e diverse da parte di professionisti, imprenditori, intellettuali, burocrati, informazione. Ciascuno per la propria parte si è reso complice dello scempio. Senza una corresponsabilità generalizzata, non solo questo decadimento si sarebbe evitato, ma si sarebbe prodotta una cultura positiva, di attenzione anche al momento estetico, alla difesa della qualità ambientale.
Nel caso specifico di Cavallerizzo, gli abusi edilizi rilevanti si fermano agli anni settanta, condonati con la famosa legge 47, con tanto di relazione geologica. Successivamente a tale epoca, non si è verificato alcun intervento di rilievo, tale che abbia potuto compromettere la stabilità del suolo. Si è trattato solo di interventi di ristrutturazione, con un carico sul terreno irrilevante. È comunque assurdo la filosofia di voler trovare una soluzione legislativa a violazioni non solo della legge, ma della logica e della sicurezza. Con l'acquiescenza tecnica dei professionisti, spesso determinante. Abusi e condoni distruggono la legalità, la logica, la morale, l'etica. Sono sempre una concausa dei disastri.
Non è l'edilizia la principale imputata, quanto il mancato intervento di manutenzione del territorio per la pulitura delle cunette stradali, la regimazione delle acque a monte, la gestione attiva del territorio. A Cavallerizzo negli ultimi anni l'acqua piovana e sorgiva si inabissava nel terreno, formando sotto il centro abitato un vero e proprio lago ipogeo, che ha inghiottito le case. Questa sarebbe pura fatalità se nessuno si fosse accorto di quanto si stava verificando da qualche anno. Al contrario il fenomeno era noto, se ne misurava il livello, senza alcun intervento di messa in sicurezza dell'abitato. "Per evitare tale situazione il primo e più importante intervento che si doveva fare era quello di realizzare una serie di opere di drenaggio", dice il geologo Vincenzo Rizzo. Neanche un giorno primo, però, si è avvertita la necessità di allertare la popolazione. Quanto meno avrebbe avuto la possibilità di recuperare le proprie cose, di organizzare lo sgombero salvando il salvabile.
La lezione di Cavallerizzo non va dimenticata, non può passare sotto silenzio. Bisogna individuare le cause, non tanto e non solo per individuare specifiche responsabilità ed omissioni, ma come insegnamento per evitare casi analoghi. La piovosità dell'inverno lo hanno scatenato, ma il fenomeno è di un più ampio respiro. Infatti, da un punto di vista geo-morfologico l'area è attraversata da una faglia che interessa un vasto territorio da San Fili fino a San Marco Argentano. In varie località si denunciano situazioni di instabilità, come a San Martino di Finita ed a Mongrassano.
Quello che è stupefacente che, a fronte del disastro che si è verificato, ancora oggi si continua a chiedere a gran voce soltanto il monitoraggio, la misurazione del fenomeno senza alcun intervento attivo, senza alcuna idea di come intervenire per individuare un rimedio, una cura. Si sorveglia il malato fino a constatarne il decesso, preparandosi direttamente per la veglia funebre. Eppure, non sarebbe difficile individuare la malattia, che si chiama abbandono dei terreni agricoli, con il conseguente degrado delle opere di sistemazione idraulica. Occorre procedere ad una grande opera di bonifica ambientale, ad un risanamento del territorio con l'utilizzo dell'ingegneria naturalistica, la ricreazione della macchia mediterranea, il reimpianto floro-faunistico.
Vi è una completa, al contrario, l'assenza di cultura ambientale, che si dimostra in maniera palesa anche in questa circostanza. L'acquedotto Abatemarco, una lunga condotta che convoglia l'acqua di San Sosti a Cosenza, attraversa in lungo tutta la ricordata faglia. È stato costruito in dispregio di qualsiasi opera di salvaguardia ambientale, preoccupandosi solo di completare l'opera il più rapidamente possibile. Si è sconvolto il sistema di deflusso delle acque, senza alcuna sistemazione successiva: si è creata una bomba ad orologeria che incombe sui centri abitati e potrebbe causare danni ancora maggiori a quelli registrati fin qui. Passa sopra il centro abitato di Cavallerizzo, e la sua costruzione è stata la causa prima del grave stato di dissesto idrogeologico di quel territorio. Non vi è stato tempo e voglia, in quel momento, di convogliare le acque nei suoi alvei naturali. Fin dalla sua nascita la vasca di percolazione si è mantenuta piena facendo tracimare l'acqua nel terreno, che veniva assorbita senza lasciare traccia.
Tuttora l'acquedotto è un colabrodo, le perdite sono continue nell'intero percorso, che causano penuria d'acqua a Cosenza.
Non è certo a caso che oggi è proprio questa la più grande preoccupazione della Protezione Civile che opera nell'area interessata dalla frana. L'acquedotto è stato posto sotto osservazione perché si potrebbe determinare una rottura che lascerebbe senza acqua un grande bacino di utenza, provocando ulteriori disastri a valle.
Risulta evidente l'urgenza di intervenire per ripensare completamente l'intera opera, finalmente nel pieno rispetto dell'ambiente, e cercando di non lasciare ulteriori situazioni di dissesto del territorio. L'Università della Calabria ha istituito da tempo un corso di laurea specifico per Ingegneria ambientali, che ha già sfornato fior di laureati. Non risulta che siano molti impegnati. Al contrario sono costretti a guardare lontano, al di fuori della regione, per trovare una speranza per il futuro. Mentre lo "sfasciume pendulo" continua a degradare.
Il modo in cui viene tenuto in considerazione l'ambiente trova un altro esempio emblematico proprio nel caso in esame. Chiunque, per ragioni scientifiche o per curiosità, voglia osservare la frana di Cavallerizzo, può recarsi ai piedi di Cerzeto per trovare un ottimo punto di osservazione. Ci si ferma nel fango, tra il fragore di seghe elettriche dedite al taglio di un bosco. Taglio a raso, naturalmente, a testa di skinhead. Il Corpo Forestale, presente sul posto, non ha niente da ridire. Siamo a qualche metro dalla frana, ma sul versante opposto, e si tratta di un "piccolo taglio". Non c'è da preoccuparsi, assicurano i forestali, non siamo sopra la frana!
È pur vero che la Caserma delle Guardie Forestali a Cerzeto è stata chiusa da qualche anno, con grave nocumento per la prevenzione e controllo dei tagli abusivi nei boschi. Il furto di qualche albero, però, è meno dannoso socialmente della valutazione rigorosa delle autorizzazioni al taglio e dei metodi adottati.
Il problema, infatti, qui come altrove, non è né il numero degli alberi tagliati, ma l'insensibilità, il mancato rispetto dell'ambiente, che meriterebbe almeno una moratoria in questo particolare frangente. Sotto accusa è, soprattutto, il sistema di taglio adottato, non compatibile con un ambiente che presenta gravi instabilità morfologiche. Gli alberi non possono risolvere tutto, ma sono il principale alleato in questa lotta alla prevenzione dei disastri.
In condizioni di maggiore stabilità e sicurezza, con enormi riserve di verde, nei paesi scandinavi si parla di diradamento produttivo, si proibiscono gli interventi invasivi, che distruggono l'intero manto arboreo, indebolendo le difese naturali del terreno. Bisogna cominciare proprio partendo da queste disastrose esperienze per imporre un cambio di mentalità. Ogni piccola eccezione costituisce un precedente pericoloso. Non si può rifiutare a chicchessia ciò che viene considerato lecito e consentito al suo vicino.
D'altronde basta guardare con quanta furia iconoclasta vengono ripuliti gli argini dei fiumi (dal Crati e di altri torrenti vicini), lo sradicamento gli alberi, con la scientifica eliminazione di ogni filo di verde, cercando di cancellare ogni segno della natura matrigna che ostina a volersi proteggere con erbe infestanti. Gli interventi di ingegneria naturalistica sarebbero molto più belli esteticamente e più efficaci a medio termine: si potrebbe chiedere alla stessa "natura", di fornire le difesa necessarie contro le calamità.
Tutte le grandi infrastrutture, invece, in Calabria vengono realizzate nel segno dell'emergenza e dell'ineluttabilità, che fa crollare tutte le resistenze e le difese. Non vi sono obiezioni sull'impatto naturalistico ed ambientale, nessuno ha mai niente da ridire sulle scelte, sull'operato, tutto per non disturbare il manovratore. A disastro avvenuto qualche distratta riflessione, per ricominciare tutto come prima subito dopo, anzi peggio, poiché l'emergenza ambientale giustifica qualsiasi altro scempio ai danni dello stesso ambiente.
L'errore più grave è di ridurre tutto, la frana di Cavallerizzo come qualsiasi altro disastro naturale, ad una tragica fatalità, ad un evento naturale che da secoli non attendeva altro che di potersi materializzare. Si cerca in tutti i modi di ridurre e nascondere l'effetto antropico, le responsabilità dell'azione dell'uomo. Quando si mette in moto questo meccanismo, ci si limita alle piccole denuncie, alle responsabilità amministrative. In pochi si pongono il problema di un atteggiamento culturale nei confronti del territorio e dell'ambiente. Questo atteggiamento fatalistico rende inutile qualsiasi azione, poiché tutto si riduce ad una inerme attesa dell'ineluttabile. Carpe diem, "del doman non v'è certezza..."
Quello che bisogna sottolineare con forza è l'urgente necessità di portare l'ambiente al centro del dibattito politico, di dargli un ruolo centrale ed una priorità nello sviluppo, trasformarlo in una risorsa, un'occasione di rinascita. A questo proposito, è necessario rendersi conto che la grande maggioranza del territorio della regione viene gestito ed amministrato da piccoli comuni, con bilanci sempre più risicati. Con fondi a loro disposizione trovano difficoltà persino ad affrontare le spese correnti, a pagare regolarmente gli stipendi degli impiegati comunali. Non hanno alcuna reale autonomia di spesa, non possono progettare investimenti, né tanto meno realizzarli. Per la grande maggioranza di essi l'autonomia è semplicemente una beffa: un insieme di obblighi, di incombenze per la fornitura di servizi che non potranno mai garantire ai propri cittadini. Il rischio di un completo spopolamento delle aree interne, di un abbandono progressivo dei centri abitati è concreto e reale.
Bisogna valutare anticipatamente gli effetti che si producono con una politica così miope. La sparizione di una piccola frazione crea guasti e conseguenze sull'intero territorio sconvolgendo il sistema dei trasporti e la fornitura dell'acqua. Figuriamoci cosa potrebbe succedere con il progressivo abbandoni di un numero crescente di centri interni: il territorio sarebbe al collasso, senza alcun presidio, senza alcuna possibilità di controllo, senza alcuna possibilità di gestione.
Senza disponibilità finanziaria è escluso che essi possano provvedere ad un'incombenza così grande. Pertanto, bisogna prevedere un adeguato intervento della Provincia e della Regione, con un sistema di deleghe e di trasferimento di risorse. I disastri ambientali si sommano alle difficoltà sociali per la devastante disoccupazione. I piccoli comuni devono essere coinvolti insieme agli abitanti attivi, debbono partecipare alla gestione del territorio ed alla sua rinaturalizzazione.
Un processo bottom-up, con il coinvolgimento delle forze locali attive, consente di creare e valorizzare quelle risorse che esistono sul territorio, dare una opportunità ai giovani. Essi vorrebbero non esiterebbero a dare il proprio contributo allo sviluppo della regione, mentre si trovano impossibilitati, stritolati da un meccanismo che li costringe a cercare fortuna altrove, mentre la Calabria crolla e sprofonda sotto il peso delle tante responsabilità che non saranno mai individuate.
La vera scommessa del futuro prossimo è trasformare la natura-matrigna in una risorsa per lo sviluppo.