Il lungo e piovoso inverno ha messo a nudo la fragilità del territorio calabrese. In varie aree della regione si sono evidenziati fenomeni di elevato rischio ambientale con pericoli incombenti sugli insediamenti abitativi e sulle attività economiche.
Risulta evidente la necessità di una gestione attiva del territorio, con una azione di prevenzione, che restituisca all'ambiente le sue capacità di autodifesa. In una visione "politica" dei fenomeni di dissesto territoriale, risulta evidente che esso si concentra in gran parte nelle aree interne, nelle zone collinari e pedemontane soggette ad un doppio degrado socio-economico e geomorfologico. Non si tratta, insomma, puramente di un fenomeno di degrado fisico ma anche dell'attività umana. Le aree urbane e le pianure fertili, come quella lametina o di Rossano-Corigliano, sottoposte ad una intensa azione antropica, si presentano meno fragili, anche per la natura meno accidentate dei suoli. Non si tratta di un'osservazione ovvia,considerato che per molti secoli sono state proprio le pianure e le valli a presentare i fenomeni di maggior degrado, per la mancata regimazione delle acque che le aveva trasformate in paludi malsane. Basta prendere una qualsiasi descrizione geografica del sette-ottocento per trovare classificati i luoghi per la salubrità dell'aria. L'Alfano, ad esempio, nella sua "Istorica descrizione del Regno di Napoli" - edita nel 1798 - distingue gli abitati: d'aria sana o buona ed al contrario d'aria malsana, cattiva, temperata, mediocre, bassa, sospetta o calda. Corigliano, ad esempio, viene è descritta come "città alle falde di una collina, d'aria mala".
Solo in seguito alle bonifiche delle paludi, completate negli anni trenta del secolo scorso, le condizioni sono cambiate profondamente; si sono addirittura rovesciate nell'ultimo cinquantennio, proprio per lo sviluppo di una agricoltura intensiva nelle pianure. L'interesse economico porta ad un costante impegno a conservarne l'integrità del suolo e la capacità produttiva. Vi sono altri pericoli per l'inquinamento chimico, dovuto all'uso di fertilizzanti ed antiparassitari, ma è un problema di tutt'altra natura, anche se altrettanto grave.
Sono proprio i terreni marginali a presentare oggi le ferite più profonde e le soluzioni meno semplici a causa dell'assenza di un soggetto che abbia voglia e capacità di intervenire per scarsa redditività di qualsiasi investimento. Il loro utilizzo da parte dei privati è sporadico ed incontrollato, con la conseguenza di un progressivo aggravio della condizione di degrado: l'estirpazione delle radici come la liquirizia, i frequenti incendi appiccati per favorire la formazione di germogli per alimentare il bestiame lasciato a pascolo brado, impedendo la ricrescita degli alberi, l'asportazione i materiali inerti dagli alvei.
Per non parlare del taglio dei boschi cedui, soprattutto nei versanti fortemente in pendio, che vengono sconvolti periodicamente per agevolare il taglio creando piste che permettano il passaggio delle seghe meccaniche, degli autocarri per il trasporto del legname. A questo scopo si deviano gli impluvi, si scavano fossati profondi che trattengono le acque piovane e favoriscono l'imbibizione delle acque piovane. Come è puntualmente avvenuto sopra l'abitato di Cavallerizzo, dove un gruppo di case sono state inghiottite dal fango di un fiume ipogeo, che un taglio con quelle caratteristiche devastanti per l'equilibrio ambientale ha contribuito a formare ed alimentare. Si è trattato di una concausa, ma ha dato certamente il suo piccolo contributo alla distruzione del centro abitato.
Quello che rende ancora più devastante il cattivo uso del territorio è l'assenza di controllo, poiché manca qualsiasi autorità a presidio del territorio. Il sindaco viene considerato come il tutore dell'ordine urbanistico e gli viene riconosciuto il potere d'intervento nel settore edilizio, pur se i risultati sono talvolta tutt'altro che esaltanti. La restante parte del territorio ha finora costituito una sorte di zona franca, con l'esercizio libero ed incondizionato del diritto di proprietà, secondo la formula del diritto romano: "dominium est ius utendi et abutendi". I vincoli e le limitazioni urbanistiche sono generalmente accettati, e gli abusi vengono comunque percepiti come tali. L'esercizio di una qualsiasi attività connessa con l'agricoltura non sopporta vincoli di sorta, pur se talvolta i guasti conseguenti sono ancora maggiori.
Lo stesso Corpo Forestale dello Stato è sempre meno presente, si chiudono le caserme, si riduce il personale. Guardando alla legislazione sia nazionale che regionale si ha l'impressione di essere di fronte ad una normazione poderosa che disciplina ogni azione sul territorio, predispone una serie di strumenti che dovrebbero affrontare le complesse problematiche di una sua gestione attiva e responsabile. Alla severità delle leggi, tuttavia, come la legge Galli sulle acque o la disciplina della raccolta dei funghi ad esempio, corrisponde un lassismo nel controllo che li rende inefficaci. Le solite grida manzoniane.
Eppure quella dei terreni incolti costituisce, per la maggior parte di essi, una situazione di emergenza. Nel contempo sono l'unico vero patrimonio a disposizione di quelle comunità. Solo con la loro trasformazione in un'opportunità economica, con la riscoperta della tipicità delle produzioni, la valorizzazione delle essenze autoctone, il recupero delle aree a verde riuscirebbe a costituire lo strumento per trattenere in situ gli abitanti.
Tuttavia, l'intenso sfruttamento agricolo a cui sono stati sottoposti nei secoli passati, ne ha esaurito la fertilità, per cui non riescono neanche a rigenerarsi. Il reddito agrario sempre più scarso ne ha determinato l'abbandono e con esso il degrado delle sistemazioni idriche ed agrarie. L'aumento dello standard di vita non rende più accettabile lo scarso reddito che si può espungere da un terreno esausto.
Inoltre, gran parte di questi terreni, sono frazionati in appezzamenti minuscoli, con una configurazione accidentata che non consentono un agevole utilizzo di mezzi meccanici per aumentarne la produttività. Il quadro giuridico delle proprietà è spesso molto precario per la mancata registrazione delle successioni ereditarie, per la lontananza dei proprietari o il loro completo disinteresse. Si potrebbe supporre che in alcuni casi essi sono ritornati allo stadio primigenio di "res nullius", dalla proprietà indefinita, o rischiano di subire l'usucapione dei possessori. Il loro utilizzo, infatti, spesso avviene sulla base di accordi orali o per semplice occupazione proprio per l'assenza dei legittimi proprietari.
Il progressivo abbandono ha prodotto anche lo spopolamento dei comuni, nella cui giurisdizione ricadono quei terreni, che non hanno né la cultura né i mezzi necessari per affrontare un problema così complesso. Si tratta, infatti, per la grande maggioranza di piccoli comuni, che non si sono mai occupati della gestione del territorio agrario, salvo per una delimitazione delle aree edificabili. Tutto ciò che restava fuori da tale perimetrazione è stato considerato privo di qualsiasi valore commerciale ed abbandonato al suo destino. Si è venuta creando una miscela che rende difficile e non economico l'intervento privato ed impossibile quello pubblico attraverso le amministrazioni locali.
Senza un intervento della mano pubblica, anche con un intervento normativo "ad hoc", non è possibile ipotizzare alcuna soluzione, poiché la mano del mercato che dovrebbe esser invisibile, in quei territori è sparita del tutto.
Qualunque sia l'esito del confronto elettorale, è indispensabile porre il problema della tutela ambientale come una delle assolute priorità regionali tanto da un punto di visto economico sociale che per una politica di sviluppo, che voglia realmente valorizzare le risorse del territorio. Non vi è dubbio che è proprio l'ambiente la nostra principale ricchezza, che deve essere utilizzata per dare un futuro ai giovani, una speranza che possano indirizzare i loro sforzi nella rinascita della propria regione.
Nelle linee guida della LUR, emanate di recente, viene affermato che "la pianificazione strutturale e operativa ed è rivolta a perseguire la sostenibilità degli interventi antropici rispetto alla quantità e qualità delle acque superficiali e sotterranee, alla criticità idraulica del territorio e all'approvvigionamento idrico, alla capacità di smaltimento dei reflui, ai fenomeni di dissesto idrogeologico e di instabilità geologica, alla riduzione e prevenzione del rischio sismico, al risparmio e all'uso ottimale delle risorse energetiche e delle fonti rinnovabili".
Per ottenere un tale risultato occorre urgentemente completare il quadro delle competenze dei vari ordini istituzionali, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione. Il sistema normativo è stato delineato con le Leggi Regionali n. 34 del 2002 sul riordino amministrativo e la num. 19 del 2001 (Legge Urbanistica). Il reale trasferimento dei poteri è lungi dall'essere completato per cui si verificano frequenti incursioni reciproche per la sovrapposizione di competenze tra i vari organi di governo locale.
Semplificando si può dire che i comuni devono provvedere alla programmazione e pianificazione degli obiettivi comunali di sviluppo territoriale, economico, sociale e culturale, in sintonia con il programma provinciale e regionale. Lo strumento previsto è il Piano Strutturale Comunale (P.S.C.) che definisce le strategie per il governo dell’intero territorio comunale. Nella predisposizione del PSC l'ente locale deve uniformarsi agli indirizzi urbanistici della Regione, espressi dal Quadro Territoriale Regionale (Q.T.R.), dal Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (P.T.C.P.) e dal Piano di Assetto Idrogeologico (P.A.I.).
I comuni sono, pertanto, chiamati a pianificare l'intero loro territorio in funzione delle sue caratteristiche tanto per la componente di utilizzazione urbanistica (delimitazioni delle aree di sviluppo edilizio, industriale, artigianale), che per la utilizzazione idraulico-forestale ed ambientale. Deve inoltre, disciplinare l’uso del territorio anche in relazione alla valutazione delle condizioni di rischio idrogeologico e di pericolosità sismica locale come definiti dal piano di assetto idrogeologico o da altri equivalenti strumenti.
La predisposizione del PSC è obbligatoria per tutti i comuni e sostituisce i precedenti strumenti urbanistici. Bisogna però sottolineare non solo la sua complessità, ma l'esigenza di affiancare alle tradizionali figure di architetti, ingegneri e geologi. L'équipe tecnica deve essere integrata con un dottore agronomo e/o forestale. Il costo difficilmente sarà sopportabile da parte delle casse dei piccoli comuni interni, che si trovano già in grande difficoltà per le esigenze ordinarie. La rivoluzione annunciata non sarà possibile senza un adeguato trasferimento di risorse.
Ad oggi non si ha notizie di alcun comune che sia riuscito ad adottare un PSC, anche per l'assenza degli strumenti-cornici della regione e delle province. Solo la Provincia di Cosenza aveva approntato il PTCP, che dovrebbe essere approvato a breve.
Per le aree ad elevato rischio i crisi ambientale, la Regione se ne è riservata in esclusiva la gestione. L'art. 73 della L.R. 34, infatti, attribuisce ad essa:
In questo caso, quindi, compito dell'amministrazione comunale è quella di disciplinare l'uso del territorio a rischio, mentre la regione deve approntare i piani di risanamento. Non è chiarito a carico di chi ricade l'attuazione dell'intervento e l'onere finanziario relativo. Un dettaglio tutt'altro che irrilevante, considerate le anomalie rilevate nella suddivisione delle risorse disponibili.
È importante che il risanamento ambientale sia effettuato con interventi ecosostenibili e senza l'uso estensivo di strutture in cemento armato. Per tale scopo è necessario restituire il manto arboreo originario, facilitando la diffusione spontanea delle essenze autoctone per ricreare la macchia mediterranea, procedere alla sistemazione idrogeologica, alla bonifica nei bacini, alla sistemazione idraulica dei corsi d'acqua. Insomma, un'opera di "rinaturalizzazione" e sistemazione dei terreni con opere di ingegneria naturalistica. L'obiettivo deve essere quello di restituire all'attività umana la fruizione di questo grande patrimonio, trasformandolo in una occasione di produzione di reddito e di lavoro.
Un risultato così ambizioso non può essere realizzato senza a) l'eliminazione delle cause che hanno determinato l'abbandono delle terre e ne impediscono un loro utilizzo produttivo e b) il coinvolgimento di tutte le forze attive operanti sul territorio.
In primo luogo si rende necessario eliminare la frantumazione della proprietà agraria e restituire una condizione di certezza giuridica alle proprietà. I due obiettivi possono essere perseguiti con la costituzione di una "Società immobiliare ambientale" a carattere regionale o diverse ancorate al territorio, in cui far confluire, con acquisto, esproprio o requisizione, tutti gli spezzoni di terre abbandonate, le aree a rischio da risanare, i terreni abbandonati con l'obiettivo di costituire quella "minima unità colturale", in relazione all'uso del suolo, già prevista dal Codice Civile del 1942 (art. 846) e mai realizzata. Pur nel caso non risulti conveniente alcun utilizzo produttivo, la costituzione di un patrimonio boschivo e l'eliminazione del rischio ambientale è sufficiente a giustificare l'intervento.
Bisogna ritornare allo spirito riformatore che ha portato alla bonifica delle paludi. Anche allora si è reso necessario uno sforzo da parte dello Stato, che oggi deve essere ripetuto dalla Regione nei confronti delle aree interne degradate, che presentano le stesse caratteristiche di fragilità e presentano una grave condizione di pericolo per gli abitanti.
Per ottenere questo scopo si può attingere all'esperienza maturata nell'attuazione degli strumenti della programmazione negoziata, che è riuscita a mettere in moto le forze attive operanti sul territorio. Il metodo della concertazione, una sorte di conferenza dei servizi allargata alle forze sociali e produttive, può costituire la cornice normativa e l'impegno degli enti interessati per una pianificazione del territorio.
I Patti Territoriali sono passati di competenza della Regione. Nelle Linee Guida" della LUR si legge: "... fino all'approvazione dei nuovi strumenti urbanistici generali, sono consentite variazioni ai piani nei casi in cui tali modifiche siano connesse all'approvazione di progetti di opere pubbliche o di interesse pubblico, ad interventi previsti dagli strumenti di programmazione negoziata individuati dal POR Calabria 2000/2006, ovvero siano connessi a contratti di programma, a patti territoriali o da altri strumenti che prevedono l'utilizzazione in forma di cofinanziamento di risorse dell'Unione Europea, dello Stato e della Regione e di risorse provenienti del mercato".
Perché non pensare allora a "Patti Territoriali Ambientali", che nella stessa concezione del legislatore regionale costituiscono lo strumento di maggiore flessibilità per una gestione attiva del territorio, con il coinvolgimento delle forze economiche, delle rappresentanti delle categorie interessate, le amministrazioni locali, facendo rivivere la stagione della programmazione bottom-up, con la finalità di creare delle filiere del verde, la rinascita dei suoli e lo sviluppo di un'agricoltura ecosostenibile, chiamando i nostri imprenditori più innovativi, come Renzo Caligiuri, il quale con la sua Campoverde si è distinto in produzioni con alto contenuto tecnologico, ma sempre attento alle ricadute sull'ambiente.
Si potrebbe partire con delle esperienze pilota, nel territorio dove si è già verificato un disastro, che richiede interventi urgenti per la minaccia che incombe su lati centri abitati limitrofi interessati allo stesso fenomeno. Sarebbe di sicuro impatto anche per l'immagine della Calabria spesso accusata di non tener nella giusta considerazione il suo patrimonio naturalistico. Il coinvolgimento delle associazioni naturalistiche potrebbe produrre lo sviluppo del turismo eco-compatibile, che sta diventando progressivamente di moda.