Sembra passato quasi un secolo dalla formazione del Berlusconi-bis, un governo "vecchio" di zecca che doveva garantire la realizzazione di un programma lucidato a nuovo. Nessuno più sembra ricordarsi degli impegni solennemente presi. Giova, pertanto, elencare quelli più avrebbero dovuto qualificare il nuovo esecutivo: Mezzogiorno, ceti medi ed imprese.

Per la verità, il Premier si è affrettato a precisare in ogni circostanza che il contratto con gli italiani resta ancora il faro cui fare riferimento, per cui si deve ritenere tuttora valido l'impegno alla riduzione delle imposte sui redditi nel prossimo anno. Tutto si promette e tutto si farà, tra contraddizioni logiche ed improvvisazioni disarmanti. È evidente che l'interesse elettorale ha assoluta priorità sulle esigenze del Paese, che può affrontare tranquillamente un altro anno disastroso per dare una chance di rivincita al diruto Casolare delle Libertà.

Le indagini congiunturali dei principali istituti di ricerca economica e della stampa internazionale più autorevole sciorinano dati allarmanti sulla condizione dell’economia italiana.

Secondo le analisi del mese di aprile dell'Ufficio Studi della Confindustria, i dati "mostrano un calo dell'indice della produzione industriale (corretto per la componente stagionale e il numero dei giorni lavorati) dello 0,2% rispetto al mese precedente. Dopo tre trimestri consecutivi di flessione, l'andamento dell'attività industriale resta negativo, evidenziando una difficoltà di ripresa significativamente maggiore di quella registrata in precedenti fasi cicliche".

L'andamento tendenziale è ancora peggiore, poiché evidenzia una diminuzione del 3%, confermata dal trend degli ordinativi, che mostrano flessioni ancora più preoccupanti: pari al -7,2% nel solo mese di aprile.

Il 18 di questo mese è stato pubblicato il rapporto OCSE sull'Italia nel quale si trovano alcune considerazioni interessanti. Si afferma in maniera chiara ed esplicita che negli ultimi quattro anni l'Italia ha attraversato una fase di recessione, da attribuirsi alla diminuzione della produttività e alla conseguente caduta della competitività del Paese, che ha perso consistenti quote del mercato internazionale. Il tasso di inflazione si è mantenuto costantemente superiore alla media europea. Il costo unitario del lavoro è cresciuto sensibilmente, non tanto per l'aumento del salario, cresciuto ad un tasso solo leggermente superiore al tasso di inflazione, ma per il mancato adeguamento dei processi e delle nuove tecnologie. Le industrie italiane non sono riuscite ad adeguare i loro costi a quelli dei Paesi concorrenti e di quelli emergenti.

L'aspetto più preoccupante è dato dall'andamento del debito pubblico, che costituisce il vero tallone d'Achille dell'economia, il punto della sua maggiore fragilità. Lo stock del debito continua a macinare record, mentre il deficit corrente a legislazione invariata sembra sia andato fuori controllo, tanto più che la maggioranza che governa il Paese è più preoccupata dell'impatto elettorale delle misure da intraprendere che dalla razionalità dell'intervento.

Non manca qualche nota di ottimismo nel Rapporto. A dispetto della recessione, si sono creati molti posti di lavoro, da attribuirsi all'emersione del lavoro nero ed alla regolarizzazione dell'immigrazione clandestina. Il tasso di occupazione si mantiene però largamente al di sotto della media dei principali paesi occidentali e una fetta consistente di giovani rinuncia a cercare lavoro, contribuendo a far scendere il tasso di disoccupazione a livelli paragonabili ai Paesi più virtuosi.

L'OCSE prevede che il ciclo economico sia giunto al suo turning point, per cui si dovrebbe verificare una fase di crescita congiunturale, con la produttività proiettata verso un recupero, così come la perdita di competitività mostra una decisa frenata. Tuttavia, gli effetti della ripresa non saranno né robusti né immediati. Per quest'anno è prevista una crescita inferiore all'1,5%. Con ogni probabilità anche questo dato potrebbe essere rivisto al ribasso. Si tratta di un momento grave e delicato che richiederebbe grande lucidità e quella operazione verità sui conti sempre annunciata dal Ministro Siniscalco e mai compiutamente realizzata, impedita dalla demagogia, inguaribile malattia del Premier.

Il mal sottile che ha colpito l'Italia si chiama sfiducia: nel futuro dell'economia, nella capacità del governo di affrontare adeguatamente la crisi, in una classe dirigente che sembra più preoccupata a salvare sé stessa che a trovare terapie adeguate per il Paese. Ironia della sorte, essa colpisce in maniera pesante proprio il governo nato sulla vendita di speranze ed illusioni, sull'attesa miracolistica di un cambiamento radicale della società , sulla possibilità di poter assicurare a tutti la realizzazione dei propri sogni. Ma forse non è proprio un caso.

Si può ribattere con qualsivoglia argomento, ma la sfiducia è altrettanto contagiosa quanto lo sbadiglio. Arriva irrefrenabile ad ogni vieta esibizione del capitano sfiduciato, il cui ottimismo appare sempre più anacronistico e crea oggi soltanto ulteriore disagio e perplessità.

Eugenio Scalfari usa direttamente il termine sfascio per dipingere la situazione italiana. Ma lo sfascio maggiore è la sottovalutazione della gravità del momento, l'abbaiare alla luna, nella speranza che qualche miracolo salvi la nave in procinto di affondare. Lo stesso cauto ottimismo del Rapporto OCSE: "a modest recovery is under way", appare più come un'affermazione manieristica che una convinzione profonda.

Le due misure più urgenti suggerite sono la stimolazione della domanda interna e la politica di contenimento del debito pubblico. Entro il prossimo anno tutte le misure una tantum dovrebbero essere sostituite da interventi strutturali. Il che già si presenta come un compito improbo. Ma i ritardi accumulati sono ormai tanti e tali che gli spiccioli di tempo che rimangono ad una minoranza alla ricerca di un'identità non saranno sufficienti ad affrontare. Soprattutto sembra impossibile colmare il gap di leadership, la perdita di carisma, il vuoto di idee con il quale si intendono affrontare i problemi più spinosi.

Nessuno parla più della devolution, ma ritornerà alla ribalta tra non molto. È interessante evidenziare il punto di vista esplicitato nel Rapporto, dove sono sparse alcune note degne di menzione. "La decentralizzazione sta complicando il compito di mantenere una disciplina fiscale. È importante assicurarsi che la decentralizzazione sia attuata con misure che aumentino l'efficienza piuttosto con la duplicazione delle competenze. La devolution sta rendendo in pratica più difficile il controllo del settore pubblico."

La devolution cui si fa riferimento è la progressiva attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, il “federalismo di sinistra”. Non ancora quella leghista che dovrebbe essere approvata, per la quale i primi studi sugli impatti finanziari prevedono esiti mostruosi, che aggraverebbe irreparabilmente la condizione della finanzia pubblica.

La situazione economica ed il suo immediato sviluppo appare il terreno su cui si giocherà la prossima partita elettorale, poiché alcuna manovra politica o alleanza appare in condizione di modificare un esito che allo stato appare scontato.

Vi saranno importanti interventi per rilanciare l'economia. Ed è sconcertante leggere come un dato ormai acquisito che debba esser il Sud l'unico agnello sacrificale, chiamato ancora una volta a pagare il prezzo maggiore. Non si parla più di incentivi, di misure specifiche per affrontare l'emergenza di una regione il cui tasso di sviluppo può considerarsi cronicamente deficitario. Tutti hanno dimenticato gli impegni presi, le parole risuonate nelle aule del Parlamento hanno lasciato una labile traccia solo nei suoi polverosi atti.

Già nel Rapporto, il Sud viene citato solo per rilevare il persistente scarto nel tasso di disoccupazione, ma soprattutto nel tasso di occupazione che si mantiene in assoluto tra i più bassi di tutte le regioni europee. Il male è conosciuto da lungo tempo, sono le politiche adeguate per porvi rimedio ad essere carenti. Neanche in questa sede vengono individuate misure idonee.

Al contrario sono indicate precise responsabilità. L'accusa più pesante è lo scarso tasso di mobilità della manodopera, il desiderio di avere il lavoro sotto casa e non voler andarlo a cercare laddove ve ne è in abbondanza tanto da essere costretti a ricorrere ad un massiccio uso di immigrati.

È vero. Ma il mercato del lavoro è asimmetrico. Domanda ed offerta non s'incontrano perché rispondono a richieste ed attese diverse. Sono discrasie che si verificano dappertutto, persino in Polonia, dove vi è una massiccia immigrazione di lavoratori ucraini disposti ai lavori più umili, che gli stessi polacchi si rifiutano di fare. La mobilità del lavoro è un fenomeno complesso che non si può ridurre ad un mera volontà.

Negli USA, che costituisce un po' il metro di misure dei Paesi occidentali, i lavoratori si muovono "coast to coast", dall'Atlantico al Pacifico. Pensando all'Europa equivale ad una distanza di molto superiore a quella tra Palermo e Stoccolma. Ma si tratta di fenomeni bidirezionali, che implicano uno scambio proficuo tra esperienze e specializzazioni, che prevedono un elevato tasso di ritorno con ricaduta positiva per l'apertura mentale che provocano. Non lasciano interi territori completamente privi delle migliori risorse umane. Da un secolo e mezzo, al contrario, il Sud è tributario delle sue migliori energie, esporta il suo futuro e la sua speranza. Oggi persino dopo aver investito enormi risorse per la loro formazione. Un viaggio spesso senza ritorno, senza alcuna ricaduta positiva.

D'altronde le statistiche segnalano la ripresa dell'esodo dal Sud, con tutti i fenomeni negativi che il depauperamento antropico dei territori - già sperimentato varie volte a partire dall'Unità - ha comportato.

Nessuno contesta la necessità di rivitalizzare la produttività per rimettere in moto l'economia. Ma fino a quando il tono della domanda resterà depresso, mancherà il mercato di sbocco della maggiore produzione, che non potrà essere collocato completamente all'estero, anche per la concorrenza dei nuovi Paesi. Risulta però evidente che prima di ritrovare la competitività bisogna fare affidamento sul mercato interno. Nel Sud in particolare, lo stimolo all'industria non può che produrre risultati modesti, per il suo scarso peso sulla sua economia.

La crisi economica ha inciso in maniera grave ed evidente sulla capacità di spesa dei consumatori meridionali. L'ultima finanziaria approvata dal governo ha ulteriormente peggiorato la situazione. Come era facilmente prevedibile, la manovra di riduzione delle tasse e dei trasferimenti agli enti locali ha avuto un effetto differenziale negativo nel Mezzogiorno deprimendo i consumi, allargando la distanza già esistente nella distribuzione del reddito, creando i presupposti per un ulteriore allargamento del divario con le regione del Nord. Il rilancio della domanda deve partire da un vasto piano di opere pubbliche, come viene riconosciuto anche dall'OCSE. E da una politica di welfare a sostegno delle categorie più deboli, dei nuovi poveri che si affacciano sempre più numerosi nelle nostre contrade. Afferma il Rapporto: "Bisogna dare priorità nel miglioramento delle infrastrutture - specialmente nel Sud - e del capitale umano". Solo l'individuazione di una adeguata politica che miri a cercare i presupposti per lo sviluppo, con una azione diretta ed efficace della mano pubblica può dare la spinta necessario per un suo sviluppo. Nell'interesse del Sud, ma anche dell'intero Paese, che non può continuare la sua corsa al rallenti, trascinandosi dietro un peso morto.

L’ultima sciagurata manovra di bilancio, dal sapore smaccatamente elettorale non è riuscito ad invertire il trend della caduta libera del consenso per la promessa wonderland, ma ha avuto un effetto depressivo sull'intero sistema economico che ormai assomiglia ad una nave priva di qualsiasi capitano. Si ha addirittura la l'impressione che la barra del timone sia ridotto in frantumi e la bussola è caduta in mare.

Il Sud è una nave nel pieno di un fortunale, priva di capitano.


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