È inutile ricordare cosa sia successo il 7 marzo a Cerzeto. La frazione di Cavallerizzo è stata sgomberata a seguito di una frana che ha distrutto parte dell'abitato e costretto i suoi abitanti ad abbandonare le altre che, pur rimaste integre, non presentavano più condizioni di sicurezza.

Sono passati più di quattro mesi da quel giorno. Troppo pochi per un bilancio, molti per tentare una valutazione sul futuro prossimo della comunità dispersa in soluzioni di fortuna sparsi sul territorio. Vi sono vari elementi di riflessione in questa storia che meritano di essere approfonditi.

La prima sottolineatura riguarda il comportamento degli interessati, la loro compostezza di fronte al disastro, alla perdita dei propri beni, al disgregarsi dei segni della propria memoria, di fronte alla cancellazione della propria storia. Paradossalmente, questo modo altamente encomiabile e civile di confrontarsi con un evento eccezionale non ha avuto alcun rilievo sulla stampa nazionale sempre pronta a stigmatizzare ogni negatività della nostra regione. Oggi si sta addirittura rilevando un boomerang. Passati i primi momenti dell'abbraccio solidaristico, ognuno ha dovuto ripiegare sul proprio particulare, sulle condizioni di precarietà che impongono risposte immediati ai piccoli problemi familiari.

Lentamente la comunità si va frantumando, emergono nervosismi ed insofferenze. Si alimentano le conflittualità interpersonale che non aiutano a coagulare il consenso per soluzioni condivise. Le famiglie hanno dovuto cercare sistemazioni più o meno di fortuna nello stesso comune e nei paesi vicini, spezzando quei consolidati legami di gjitonia (buon vicinato) che riempivano tanta parte della loro giornata. Soprattutto per gli anziani rappresentava uno scudo protettivo contro la solitudine, una forma di assistenza sociale comunitaria.

Alcuni si sono rassegnati a riprendere la via del forzato esilio, qualche anziano ha terminato la propria avventura terrena con negli occhi la tristezza di non aver potuto trascorrere i suoi ultimi giorni tra le mura domestiche. Il nucleo comunitario si sta sgretolando, mostrando tutta la sua fragilità in una condizione di disagio diffuso.

Non sono mancate ripercussioni anche sulle unioni familiari, il cui delicato equilibrio ha subito un duro colpo da questa condizione di provvisorietà, facendo esplodere contraddizioni e vecchi rancori sopiti nella ripetitività dei gesti quotidiani. Alcune famiglie si sono smarrite e sarà molto difficile ricomporre il puzzle frantumatosi in una fredda ed umida notte di marzo.

L'aver evitato la creazione di un tendopoli, baraccopoli o qualche altra forma di sistemazione provvisoria è stato un fatto certamente positivo. Ha evitato che i problemi della comunità fossero sepolti in un ghetto. La dispersione sul territorio però diluisce i problemi, facendoli sprofondare in rivoli carsici, trasformandoli in istanze personali e familiari che potranno costituire un ostacolo molto serio per la ricostituzione della comunità. Il tempo in questo senso gioca un ruolo decisivo, poiché sarà l'inserimento nella collettività ospitante, i nuovi legami dei figli, i rapporti che si andranno a restringere che determineranno la ricongiunzione nel nuovo abitato che, si spera, verrà costruito.

Se la ricostruzione non avverrà in tempi brevi, non si riuscirà a salvare la comunità, rischio reso ancora più grave dal modo in cui si sta pensando di procedere.

Prima del problema della ricostruzione è necessaria qualche considerazione sulle problematiche di questa prima fase successiva al disastro. In primo luogo la gestione dei fondi affluiti per la solidarietà spontanea di tanti cittadini, enti ed associazioni: è stata semplicemente disastrosa. Suddivisi tra più conti, senza un'autorità riconosciuta che possa quantificarne l'importo, deciderne la destinazione, stabilire dei criteri, sono ancora lì. Nessuno si è preoccupato di rendere noto l'elenco dei donatori, procedere ad un ringraziamento individuale o collettivo.

Gli sfollati sono stati lasciati soli, senza un aiuto concreto nel momento di maggior bisogno. Certo un tozzo di pane non è mancato a nessuno. Per i bisogni più immediati si è provveduto. Ma non si può sottacere che vi è stato uno spreco di fondi nella distribuzione dei pasti, uno scialo sulle forniture al COC (Centro Operativo Comunale), dotato (o superdotato) di computer portatili e cancelleria da fare invidia ad un ministero, generosità nelle spese del personale, costosi materiali abbandonati tra le macerie.

Gli sfollati hanno ricevuto un tozzo di pane e tante promesse, ma hanno dovuto affrontare l'emergenza da soli, con le proprie forze. In tanti hanno trovato alloggio in case abbandonate da tempo, in condizioni fatiscenti, con servizi non funzionanti e bisognose di robusti interventi di sistemazione degli impianti. Sono state utilizzate, ma non vi è stato alcun sostegno per poter affrontare le spese della riattabilità e renderle idonee per affrontare l'autunno ed i rigori invernali. Cento container sarebbero arrivati all'istante senza badare a spese, ma nessuno sa se le poche spese affrontate per il ripristino di questi immobili verranno mai rimborsate.

Tra qualche giorno dovrebbe iniziare la distribuzione dei fondi solidaristici, suddivise pro capite. Bisogna ricordare l'antico proverbio: "bis dat qui cito dat", "dà due volte chi dà presto".  La sollecitudine non ha certo caratterizzato la gestione di questi fondi.

Corre l'obbligo di ricordare qualcuno dei principali donatori di cui si ha notizia, come i Lyons di Cosenza e le squadre dell'Inter e della Reggina che hanno deciso di devolvere 15.000 € dell'ultima gara di campionato a favore degli sfollati di Cavallerizzo: un atto di generosità che onora il calcio italiano. Per tutti gli altri si spera che qualcuno avrà la sensibilità di non perdere l'occasione non solo per un ringraziamento formale, ma per rinsaldare quei sentimenti di partecipazione e di solidarietà di cui tutti abbiamo bisogno nei momenti di difficoltà.

La gestione di questi aiuti spontanei mette in luce la difficoltà di un'organizzazione dal basso delle nostre comunità, come di mostra la storia brevissima, ma già vecchia, del Comitato Civico per la ricostruzione: un organismo costituito per rappresentare gli interessi e le istanze della comunità di Cavallerizzo. È rimasto in una fase embrionale, nella migliore delle ipotesi. Sono prevalse scelte populistiche che hanno portato alla formazione di un organismo assembleare paralizzante, privo della necessaria snellezza operativa e della autorevolezza indispensabile per svolgere il suo ruolo di cerniera tra le varie autorità cui è affidato il compito della ricostruzione. Sono emersi interessi contrastanti e divergenti, spinte centrifughe, la difesa di scelte irrazionali ma popolari tra la gente perché ne esprime e rappresenta i desideri più intimi, tocca corde sensibili come il dogma del ritorno alla terra promessa, della riconquista del paese perduto.

Su questo sogno alimentato e sostenuto da quella che dovrebbe essere la parte più avvertita dalla comunità, i professionisti, i laureati, quella che dovrebbe rappresentare l'intellighenzia ma continua ostinatamente a guardare al passato. In questo modo si frena ogni scelta, si impedisce una riflessione sul futuro. La gran parte sarebbe propensa a seguire indicazioni più dinamiche se non fosse paralizzata dal dubbio che ogni concessione al nuovo è una rinuncia ad un sogno.

Proprio nei giorni immediatamente successivi alla frana, nel comune di Cerzeto è pervenuta una nota di Alberto Frizziero, direttore della "Gazzetta di Sondrio", già sindaco di quella città per dieci anni e con varie altre esperienze amministrative, che ricordava la grave calamità che aveva colpito la Valtellina il 18 luglio del 1987, che ha provocato 53 morti e oltre 1500 senzatetto. Dopo tre giorni di pioggia 60 paesi sono stati interessati a frane e straripamenti di corsi d' acqua. Due di essi, Morignone e Sant'Antonio Morignone, due frazioni del comune di Valdisotto, sono andati completamente distrutti. Anche la statale Bormio-Sondrio è stata sommersa, ed il sistema di comunicazione rivoluzionato.

Scrive Frizziero: "Quelle persone, viste in TV, colme di dolore per aver perso tutto, per avere visto sgretolarsi le loro case, per aver visto una vita con i suoi ricordi più cari disperdersi in un mare di fango, devono sapere che entro l'autunno, e, a scanso di equivoci, entro l'autunno di quest'anno Domini 2005, possono avere la casa nuova". Ricorda come la ricostruzione di Sant'Antonio Morignone, un paese di circa 400 abitanti paragonabile a Cavallerizzo, sia stata fatta a tempo di record, in soli quattro mesi. I fondi sono stati stanziati il 3 agosto e la consegna delle case è avvenuta il 24 dicembre dello stesso anno 1987. "Chi non ci crede venga a vedere, a 18 anni di distanza ancora nuove. E si è speso pochissimo, poco più di un container, meno dei prezzi di mercato".

Sul sito del Centro Studi Alta Valtellina (http://www.cssav.altavaltellina.org/welcome.htm) sembra leggersi un'altra storia. Vi si legge, infatti che "già al terzo anniversario il parroco di S. Antonio Morignone intravedeva la beffa della mancata ricostruzione... quando pensiamo che per i “Mondiali di Calcio” in pochi mesi si sono prese decisioni e si sono trovate le migliaia di miliardi per ristrutturare gli stadi, mentre in tre anni non si è stati capaci di ridare un paese e una casa a un centinaio di famiglie, c’è veramente da perdere la fiducia in una società che non ha più i valori della vita.”   Ci si augura che non debbano diventare profetiche anche per Cavallerizzo.

Insomma, qualche problema vi è anche lì, anche se non si può disconoscere la maggiore efficienza lombarda. Ma vi erano anche circostanze particolari (per non dire favorevoli, che suonerebbe beffardo nella tragedia) che hanno favorito la ricostruzione. La condizione di maggior benessere economico, un periodo di calma elettorale, una risposta pronta delle autorità locali. Ma in primo luogo la totale distruzione del centro abitato che ha reso imposto la scelta di un luogo diverso, senza tentennamento alcuno. Il distacco dai luoghi natii è sempre lacerante, tanto più per una comunità che porta nel suo sangue le tracce del suo peregrinare. "Gjaku ynë i shprisht", un motto usato dagli arbëresh per identificarsi reciprocamente, esprime un senso di nostalgia e di appartenenza legato al vincolo di sangue piuttosto che un riferimento geografico proprio per la storica precarietà dei luoghi di insediamento. Ma questa insicurezza ne radicalizza il senso di appartenenza e la strenua difesa di quell'acquisita territorialità: ogni pietra, ogni zolla entra nel patrimonio collettivo. In una superficie di circa 21 kmq, per la maggior parte montagnosi, vi sono centinaia di toponimi, ogni angolo è legato ad un nome, è contrassegnato da una presenza che richiama alla memoria piccole storie che costituiscono il patrimonio storico collettivo.

La scelta del luogo non è pertanto né semplice né immediata, poiché viene caricata di eccessivi significati. Manca la necessaria freddezza per una valutazione razionale, per la formulazione di una proposta al tempo stesso ragionevole, che salvaguardi la comunità attuale e le dia una prospettiva per la sua sopravvivenza, che riesca a disegnarle un futuro.

"I valtellinesi sono bravi", scrive ancora Frizziero. Ma la differenza nel comportamento dei calabresi o degli arbëresh non è genetico o razziale, ma sistemico poiché è condizionato dall'organizzazione sociale, dalla rete di servizi e dall'efficienza burocratica, dalla capacità della classe dirigente di dare delle risposte in tempi brevi.

Quattro mesi sono passati e sembrano passati invano pur con tutte le attenuanti del caso, lo stato di cambiamento nel governo regionale, il rinnovo dell'amministrazione comunale e perfino la scomparsa del Papa che ha mobilitato le risorse della Protezione Civile hanno contribuito a rallentare il cammino della ricostruzione. Il generale estate ad portas ha contribuito a rimandare tutto a settembre, ma anche questo non può essere considerato un segnale positivo, considerato che i problemi della gente non vanno certo in vacanza, ma si ritroveranno acuiti quando i protagonisti potranno fare bella mostra dell'abbronzatura conquistata.

Per il momento non vi è alcun provvedimento concreto di ricostruzione, salvo un impegno verbale a mettere a disposizione 15 milioni di euro, che dovrebbero essere reperiti a carico dei fondi della Protezione Civile ed un percorso che sembra preludere alla nomina di un Commissari delegato per la "emergenza ambientale in Calabria" ai sensi del DL 90/2005 recante "Disposizioni urgenti in materia di protezione civile", cui verrebbero attribuiti funzioni e poteri similmente a quanto già sperimentato per l'emergenza rifiuti in Campania.

Non si tratta certo di un buon inizio se ancora una volta la regione viene commissariata, come sperimentato nel passato con esiti molto discutibili nel recente passato. Più che continuare nella politica di tutela, bisognerebbe mostrare un maggiore coraggio nel coinvolgimento della classe dirigente locale nella gestione di queste situazioni emergenziali.

Vi sono molti dubbi alimentati dai tanti fallimenti che hanno accompagnato le vicende della ricostruzione dei tanti disastri del Mezzogiorno. Per trovare qualche esempio positivo bisognerebbe fare un salto molto indietro nel tempo e risalire ai tempi dei Borboni, tanto vituperati, ma che a pieno titolo fanno parte della schiera dei sovrani illuministi del Settecento. In quella fase storica la gestione dei disastri ha interessato le migliori menti dell'epoca, ha mobilitato le forze più dinamiche e produttive, ha portato ad una riscrittura del territorio, cercando soluzioni finalizzate non tanto alla sopravvivenza immediata delle collettività interessate, ma ad un modello di organizzazione urbanistica e territoriale in grado di assicurare un futuro. Scriveva Pietro Colletta a proposito del terremoto del 1783: "Vesti, vettovaglie, danari, medici, artefici, architetti; e poi dotti accademici, e archeologi e pittori andarono nella Calabria..."

È paragonabile un disastro così immane, con migliaia di morti e centinaia di vittime, tra morti e feriti, con il crollo di un piccolo paese? Sono indubbiamente realtà completamente diverse, storicamente lontane. Resta il metodo, il coinvolgimento dell'intellighenzia dell'epoca in una riscrittura dell'intero insediamento antropico nella regione. L'episodio di Cavallerizzo va considerato come il sintomo di un malattia ben più grave: l'emergenza di tutte le aree interne interessate da un inesorabile declino. L'abbandono comporta anche il degrado del territorio, il declino dei centri abitati. L'arch. Gabrio Celani enfatizza la necessità di ritornare allo spirito dei costruttori delle grandi cattedrali. al recupero dei centri storici, degli insediamenti antichi.

Non ci si può limitare alle poche realtà urbane, poiché si perderebbe di vista il dato fondamentale di una regione costituita da centinaia di piccoli insediamenti, che ne caratterizzano il paesaggio. È questo il dato da cui partire per poter parlare parlare della ricostruzione di un piccolo centro, che interessa l'equilibrio di una intera area, poiché la sua scomparsa sconvolge il sistema dei trasporti e la ragnatela dei rapporti sociali. Non è un caso se del problema se ne è occupato il comune di San Marco Argentano, che vede messo in serio pericolo il suo carattere di centralità, la sua funzione commerciale sul territorio, il suo potere d'attrazione nell'organizzazione scolastica ed ecclesiastica. L'interruzione della strada provinciale trasforma parte della sua Diocesi in terre lontane, estranee. Ed ha bisogno di ricomporre il quadro, di ripristinare questi legami, questo complesso intreccio di rapporti sociali.

Può una piccola comunità impreparata ad affrontare problematiche di tale complessità essere chiamata a dare delle risposte in perfetta solitudine? Non sarebbe il caso di aprire un dibattito su questo tema così delicato? Non è il caso di dare una frettolosa risposta in poche righe. (continua)


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