In caso di morte di un personaggio illustre, i giornali si affrettano a pubblicare i coccodrilli preparati in tempo per garantirsi la necessaria tempestività della notizia. La morte di un paese è un evento molto più raro e non giustifica uno studio preliminare da utilizzare per l'occasione: è necessaria una ricerca ad hoc.

Consultando qualche vecchio documento, per quanto possa sembrare strano oggi, Cavallerizzo dei tempi che fu era rinomato per i suoi costumi, la bellezza delle sue donne, la fierezza degli abitanti riprodotti in numerose stampe ed acquerelli settecenteschi. In alcuni di essi, il costume viene considerato come uno dei più notevoli del Regno delle Due Sicilie e confrontato con quelli reggini e siciliani. Non poca meraviglia desta, inoltre, un piattino di porcellana databile tra il 1785 ed il 1787, prodotta dalla Real Fabbrica Ferdinandea, realizzato per documentare i più belli costumi del Regno: riproduce una donna di Cavallerizzo nel suo costume tradizionale. Insomma, quella che - prima della frana che l'ha colpita - era una piccola e sconosciuta frazioncina, un tempo poteva vantare qualche rinomanza.

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La sua origine viene fatta risalire al 1478 circa, quando a seguito della morte di Giorgio Castriota Scanderbeg e la caduta di Kruja, numerosi albanesi in fuga dalla feroce repressione turca si rifugiarono nel Regno di Napoli. Un nutrito stuolo fu accolto nei feudi di Girolamo Sanseverino di Bisignano.

La generosità non era affatto disinteressata, considerato che a partire dalla seconda metà del '400, pestilenze, terremoti e crisi economica avevano spopolato le campagne meridionali e quelle calabresi in particolare, che versavano in uno stato di completo abbandono. Le "nuove braccia che dissodassero i latifondi" e li mettessero in coltura non potevano che essere accolti con favore e furono loro concessi immunità e privilegi particolari, esenzione tributaria e sfruttamento gratuito delle terre. Un idillio che durò molto poco, per la verità, poiché non tardò molto che l'odioso sistema feudale non li costringesse ad assaggiarne il frutto amaro ed avvelenato dei soprusi e delle vessazioni.

Qualche anno più tardi il flusso migratorio si intensificò a seguito del matrimonio di Erina Castriota Scanderbeg, nipote del famoso eroe Giorgio, con Pietro Antonio Sanseverino, una figura di principe del Rinascimento. Questi racchiudeva in sé pregi e difetti dei signori dell'epoca. Il suo imperium durò un quarantennio, caratterizzato da attività febbrile in ogni campo della vita pubblica e privata, civile, religiosa e militare. In particolare si interessò dello sviluppo dell'agricoltura favorendo la bachicoltura, da cui ha origine la tradizione dei tessuti artigianali, di cui ancora rimane qualche traccia attiva nel comune di Cerzeto.

Ha senso parlare oggi di una storia lontana di oltre cinque secoli, con riferimento alla ricostruzione del centro abitato di Cavallerizzo abbandonato per il dissesto geologico che lo ha colpito?

La risposta non può che essere positiva. L'insediamento dei profughi albanesi rispondeva alle esigenze dell'epoca, teneva in debito conto gli equilibri sociali e la distribuzione delle risorse economiche. Le pianure erano impaludate e le coste poco sicure, così l'unica scelta che rimaneva era la collina e la montagna, che furono ripopolate, si procedette al dissodamento dei terreni e alla loro messa in coltura, con una progressiva estensione della superficie utile.

La razionalità di quella scelta è dimostrata dalla storia di questi secoli, dalla vitalità di questi centri per tutti questi anni. Ha plasmato il territorio determinando le delimitazioni amministrative delle universitas, la dislocazione degli uffici pubblici, l'organizzazione scolastica e religiosa. Si sono creati bacini di omogeneità economico-sociale ed "impluvi" commerciali.

San Marco Argentano ha assunto un ruolo centrale nell'area, sede arcivescovile, centro commerciale, riferimento culturale di gran parte dei centri abitati attraversati dalla strada provinciale che li collegava sul dorso della Montagna Magna, seguendo il percorso del tracciolino militare borbonico.

Oggi quell'equilibrio si è rotto per l'interruzione, al momento considerata irreparabile, di quella importante via di comunicazione, che ha creato una frattura nel complesso intreccio di rapporti sociali che legava tra loro questi paesi.

Tuttavia il lento logoramento di quel assetto quattrocentesco era iniziato circa un trentennio prima. La bonifica delle pianure negli anni trenta, la riforma agraria degli anni cinquanta, la "reconquista" delle coste erano il segno evidente di uno stravolgimento dell'assetto economico-sociale della regione. Ancor di più il miracolo economico italiano ha provocato una vera e propria rivoluzione nelle aree interne, per effetto del massiccio svuotameno dei centri abitati causato dalla massiccia emigrazione. Sotto il profilo demografico tutti questi fattori hanno sono paragonabili alle calamità del '400, accompagnati però da un aumento del benessere collettivo e delle condizione materiali della popolazione.

Queste sono le cause remote per cui tutti i paesi lungo la dorsale hanno subito un processo di declino, preludio di un inesorabile abbandono.  La popolazione emigra o si trasferisce a valle, lungo le sponde del Crati. Cerzeto, in particolare, si segnala come uno dei centri abitati che nella regione ha subito uno dei maggiori decrementi demografici secondo i dati degli ultimi tre censimenti. Il tasso di vecchiaia della popolazione è inoltre tra i più elevati. In tali condizioni è facile prevedere una ulteriore, drastica riduzione della sua popolazione nei prossimi decenni, molto tempo prima del 7 marzo. Pur non disponendo di dati statistici, una frequentazione dell'abitato permette di affermare che il processo di declino demografico era ancora più accentuato a Cavallerizzo.

Lu cani muzzica a lu strazzatu. La frana si è, quindi, accanita proprio su un centro abitato soggetto ad un processo di rapida consunzione, trasformando in malati terminali Cerzeto ed il nucleo storico di Mongrassano, interessato allo stesso fenomemo di dissesto idro-geologico. L'interruzione della strada provinciale, infatti, li isola dal contesto, toglie anche quel modesto transito che vivacizzava un poco il lento e sonnacchioso volgere del tempo, reindirizza i flussi commerciali, impone una diversa distribuzione della popolazione scolastica sul territorio.

Si è, insomma, rotto quell'equilibrio secolare, è venuto meno il ruolo e la funzione sul territorio di questi centri abitati. Di colpo appare in tutta evidenza l'inadeguatezza di una organizzazione amministrativa, della delimitazione territoriale, della distribuzione dei servizi sul territorio, lontana dalla distribuzione antropica, dalle nuove linee di sviluppo.

Guardando dall'alto si colgono facilmente le nuove direttrici dello sviluppo, l'addensarsi dei nuovi insediamenti lungo le rive del fiume, il sorgere di stabilimenti industriali e delle nuove attività produttive lungo le pianure in modo disordinato e caotico. Manca loro un'autorità di riferimento, una rappresentazione politica dei propri bisogni.

La pianificazione territoriale attuata attraverso gli strumenti urbanistici comunali continuano a dare un ruolo di centralità ai vecchi insediamenti, mentre l'assetto urbanistico delle nuove realtà non riesce a trovare un'adeguata rappresentazione amministrativa. Questo è in larga misura l'effetto di una suddivisione territoriale che porta i segni evidenti del tempo. I nuovi centri abitati sorgono in aree di confine, un tempo marginali e prive di interesse economico, in un intreccio di limiti che rendono impossibile una pianificazione razionale, il coagulo di interessi politici che determinano le scelte.

Questo è il quadro niente affatto confortante cui ci troviamo di fronte. La costruzione, o la ricostruzione in altro sito, di un centro abitato sconvolge l'intero assetto territoriale, impone scelte di ampio respiro e di lungo periodo. Non tutti i mali vengono per nuocere, era un vecchio adagio. La tragedia offre un'occasione irripetibile per una riscrittura dell'assetto territoriale. I primi segnali e le indicazioni dei poteri locali lasciano pensare che si tratterà di una occasione persa, si andrà al rappezzo, alla toppa.

Bisogna immaginare il possibile sviluppo economico sociale dei prossimi secoli e non porre come base prioritaria le esigenze immediate della popolazione colpita, operare delle scelte destinate a durare dei secoli. L'atteggiamento populistico di voler assecondare le richieste della gente senza una valutazione delle conseguenze a lungo termine, ha prodotto gravi distorsioni nello sviluppo urbanistico del territorio. Già tra pochi anni si faranno sentire nelle loro nefaste conseguenze gli effetti di una scelta miope.

Laddove, come il dimostra il caso emblematico di San Giovanni in Fiore, si è seguito questo indirizzo, si è prodotto un danno economicamente molto rilevante, distruggendo i risparmi accumulati in anni di fatiche. I sacrifici si sono trasformati in scatoloni di cemento privi di qualsiasi valore commerciale. Ma il danno più rilevante è quello sociale, poichè si è sconvolto un'intera area, distruggendo le potenzialità turistiche.

L'obiettivo della ricostruzione non può essere la sopravvivenza, l'emergenza legata ad un evento eccezionale, ma la creazione delle condizioni economiche e sociale che possano garantire una continuità della collettività, aiutare il territorio a ritrovare un nuovo equilibrio, indurre le giovani generazioni a trovare dei motivi di permanenza in quei luoghi, contrastare il deflusso verso il centro, nelle poche conurbazioni urbane che stanno per assumere tutte le conseguenze negatività tipiche delle metropoli. Bisogna garantire la sopravvivenza dei nuclei familiari, creando le premesse per poter trattenere i giovani e dare agli anziani la prospettiva di poter vivere gli ultimi loro giorni insieme ai propri cari. Obiettivo che si può raggiungere solo se si offre un'opportunità economica, se si tiene in debito conto i nuovi bisogni e le nuove esigenze. Con uno sguardo all'avvenire. Che suoni retorico poco importa, aiuta a sognare un'utopia.

La ricostruzione non è un atto di ordinaria ammnistrazione, richiede un investimento rilevante, provoca effetti importanti. La scelta del sito ha la potenzialità di poter stravolgere un intero territorio, provoca effetti che vanno al di là non solo del vecchio centro abitato di Cavallerizzo, ma supera i confini comunali, svolge una funzione di traino, di esempio per le tante situazioni simili esistenti nella regione.

Bisogna librarsi nell'aria e disegnare il territorio con la prospettiva dell'aquila e non accontentarsi dell'orizzonte di una lucertola, limitata alla propria zolla, condizionata dal proprio nido tra i sassi. Si ha il dovere di cogliere questa opportunità per una rilettura dell'intero assetto antropico dell'area interessata, creando il coordinamento delle espansioni urbanistiche spontanee che risultano prive di un anima, senza un'agorà, un centro di attrazione.

I grandi eventi - frane, terremoti, alluvioni - che nel corso della storia hanno condizionato il futuro evolversi sono stati gestiti dall'intera collettività "nazionale", sono diventati patrimonio comune, hanno coinvolto le migliori intelligenze dell'epoca. In questa occasione manca un dibattito, un coinvolgimento dell'intellighenzia regionale. Uno degli effetti perversi di un mal interpretato localismo, di un'autonomia locale da difendere e consolidare. Ma vanno anche ridefiniti vincoli e limiti, che impediscono di elevare il tono del dibattito politico.

I fondi devono essere spesi nella misura adeguata per trasformare il territorio, indurre un assetto rispondente alle nuove esigenze, alle sollecitazione della moderna organizzazione socio-economica.

In questa ottica la scelta adottata di ubicare il nuovo insediamento a ridosso dell'abitato di Cerzeto in località Pianette,  appare vecchia alla nascita, guarda al passato, riconferma la centralità dell'insediamento collinare, induce al perpetuarsi di un modello che aveva già mostrato con chiarezza i suoi limiti storici, l'esaurimento della sua funzione fin dagli anni sessanta del secolo scorso. Inoltre il sito è costretto tra il dirupo della Sciolla a nord, una frana a sud, una formazione argillosa a est ed il centro abitato di Cerzeto a ovest. Non vi è alcuna possibilità di prevedere un'espansione, né di concepire grandi infrastrutture. Si basa sull'ipotesi che non vi è un grande futuro e, di conseguenza, non vi è alcuna necessità di preoccuparsene. Una scelta perdente fin dalla sua concezione.

L'ampliamento del centro abitato può dare l'impressione momentanea di una comunità più vivace, di un freno al declino demografico. Si tratta di un'illusione che può durare qualche anno, ma non incide sulla marginalità economica dell'area, non rompe l'isolamento, non crea dei motivi reali di vivacizzazione sociale: è una somma residuale tra addendi in via di estinzione. Manca una visione del futuro, l'utopia che ha sempre accompagnato le grandi scelte.

Per esemplificare, si potrebbe affermare che si va verso la costruzione di un rione di simil case popolari, un'appendice di Cerzeto, che può godere di tutti i servizi di quest'ultimo non essendo necessaria alcuna opera di urbanizzazione secondaria, dalla scuola alla chiesa, dall'ambulatorio ad un centro sociale. Non si sta progettando il nuovo, ma tentando di consolidare il vecchio. Lo stesso centro polifunzionale da utilizzare come host per gli arbëresh, offerto dai Lyons di Cosenza, viene concepito di fronte alla Cavallerizzo franata, con un occhio rivolto al passato.

Per costruire i l nuov, bisogna rispondere alla domanda su cosa si vuole costruire e per quale obiettivo.

Si può fare ricordare la vicenda della Grecìa reggina, dove interi centri abitati interessati ad un analogo degrado del territorio sono stati trasferiti alla marina. Bova, capitale riconosciuta della comunità greca di Calabria, ha oggi una popolazione inferiore ai mille abitanti, mentre Bova Marina è circa cinque volte più grande. Certo ha perso il suo sapore antico, ha subito un processo di forte contaminazione culturale. Ma la specificità storica non si difende con l'isolamento, con l'imbalsamazione sociale. Sono necessarie iniziative culturali, il coinvolgimento dei giovani, il contributo della formazione scolastica. Non si può violentare il corso della storia, ma governarlo. La comunità locale si salva dandogli un futuro, assicurandogli uno sviluppo, restituendogli quella vivacità e joie-de-vivre, che caratterizzavano la pur misera e stentata vita di questi paesini.

Vi sono due aspetti importanti da sottolineare: l'inadeguatezza della classe politica locale e il carattere sovracomunale della ricostruzione.

La riscrittura del territorio è troppo importante per lasciarla nella piena autonomia delle autorità locali, che non possono avere la lucidità necessaria, ma soprattutto le competenze tecniche ed amministrative, per programmare al di là della delimitazione comunale. Il loro ruolo di rappresentanti della comunità locale gli impone una visione di corto respiro finalizzata più al consenso immediato che alla realizzazione di un'utopia urbanistica. Sono condizionati dalle scadenze elettorali che si susseguono a ritmo serrato, che di fatto ostacolano una riflessione di ampio respiro. Un'operazione di questo tipo richiede il coinvolgimento politico più ampio, un disegno più elevato, poiché bisogna creare un modello, indicare una strada.

La marginalizzazione delle aree interne non è un fatto episodico, non è legata alla frana di Cavallerizzo, ma riguarda l'intera regione. Qui si è costretti ad intervenire per la necessità dettata dall'emergenza, ma sarebbe miope non predisporre un "gosplan" per affrontare le situazioni di maggior rischio ambientale, di maggior degrado socio-culturale, per definire una strategia per l'assetto complessivo del territorio. L'assenza di una politica, o della politica tout-court nel governo del territorio, sta favorendo, come sopra rilevato,  il sorgere disordinato di nuovi nuclei urbani - seguendo le naturali direttrici dello sviluppo lungo la Valle del Crati, urbanisticamente osceni, disordinati e privi degli standard minimi di qualità.

In contrapposizione a questo spontaneismo non governato, non è inutile ricordare l'esempio di Rende e la sua scommessa di voler investire nell'ex palude nella costruzione del Villaggio Europa, che oggi ha assunto un carattere di centralità, dove fa formandosi al nuova agorà, con la nuova Chiesa di San Carlo Borromeo, ed l'intenso sviluppo urbanistico. Trent'anni fa quella scelta appariva azzardata, infelice poiché marginalizzava il vecchio centro, appariva contraria agli interessi dei rendesi storici. Ma ha impedito la "catanzarizzazione" del territorio, l'infelice modello della città capoluogo che ha forzato un'urbanizzazione delle montagne creando una città assurda tra colline e dirupi difficili da domare, a dispetto dei ponti, viadotti e gallerie che si continuano a costruire.

Anche lì sarebbe stato possibile concepire una conurbazione con San Fili o Marano violentando non solo le montagne, ma la logica e la razionalità. Lo si è evitato e gli effetti di quella scelta sono visibili a chiunque.

Cosa fare allora? Ad una visita superficiale il mondo cerzitano appare immobile, fermo a quel 7 marzo ed ai primi interventi. Le vie di comunicazione sono rimaste con tutti i problemi e l'interruzione della vecchia provinciale. Non si intravede alcuna ipotesi di un nuovo assetto delle sistema dei trasporti, che dovrebbe essere il primo passo verso un riequilibrio del territorio, nella individuazione della nuove direttrici di traffico. Per il momento l'unica certezza sono le promesse, persino il decreto di concessione del contributo per affrontare l'emergenza è rimasto inattuato. Dei fondi per la ricostruzione se ne è sentito l'odore, ma non vi è alcun atto concreto, alcuna decisione formale.

La pausa estiva consente qualche giorno di riflessione sulle scelte da operare. Sarebbe necessario individuare una posizione di raccordo tra le comunità sparse sul territorio che ricrei quell'intreccio sociale e dia un'anima a quella escrescenza urbana sorta spontaneamente attorno alla stazione ferroviaria di Mongrassano-Bisignano, una terra di nessuno suddivisa tra cinque comuni.

La scelta del sito potrebbe essere affidata ad una operazione di pura geometria territoriale, calcolando il baricentro geografico tra gli abitati di Cerzeto-San Giacomo, Mongrassano, Cervicati, San Marco Argentano, la stazione di Mongrassano e Sartano-Torano, da collegare a raggiera per formare una collettività allargata, creare le premesse di una realtà urbana moderna e funzionale ai flussi demografici.

Il riassetto di un vasto territorio giustificherebbe un investimento rilevante, costituendo un momento di attrazione anche per le comunità di emigrati che potrebbero essere interessati ad un investimento nei luoghi d'origine, un investimento proficuo e redditizio. In questa ottica, la costruzione di un Centro polifunzionale o di una scuola per baby calciatori dell'Inter che si è dimostrata molto sensibile a contribuire alla ricostruzione, favorirebbe il potere aggregante del nuovo insediamento.

Il nuovo centro dovrebbe, infatti, avere la funzione di creare una nuova conurbanzione urbana, nella quale troverebbero posto anche i vecchi centri abitati, che si trasformerebbero in in insediamenti residenziali, di nobile ed antica tradizione, riacquistando una funzione sul territorio. Si può arrestare il declino demografico solo se si offre la possibilità alla gente di poter fruire di servizi adeguati, di essere inseriti in una realtà dinamica.

Una tale scelta farebbe emergere in maniera molto più chiara e palese l'irrazionalità di una suddivisione del territorio, diviso a fettuccine secondo la logica e al valutazione del mondo quattrocentesco. Nessun ente locale riesce a pianificare razionalmente questo puzzle. Sarebbe necessario il superamento dei vecchi municipi, creare delle nuove unità amministrative con l'unione di comuni limitrofi, che creerebbe la premessa per un confronto più politico, in qualche misura sganciato dalla logica familistico-parentale.

In questo senso il ritardo appare enorme. Non vi è alcun tentativo di analizzare le delimitazioni dei confini comunali per rilevare l'assurdità di una suddivisione amministrativa che non risponde più alle mutate condizioni economiche e sociali, non segue il naturale sviluppo dell'insediamento antropico.

Al di là della ricostruzione resta aperto il problema dell'assetto del territorio che versa in condizioni di grande precarietà in tutte le aree interne della regione. Costituisce la vera nuova emergenza e richiede un intervento radicale per restituire una funzione a quelle che rischiano di trasformarsi in aree soggette ad una continua erosione ed una costante minaccia per i vecchi nuclei urbani.

Ma di questo "poscia che m'ebbe ragionato questo".


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