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Imbalsamare la Costituzione?

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno V num 26 del 24/6/2006


Rende, 21 giugno 2006

Domani 25 giugno saremo chiamati a recarci alle urne per esprimere la nostra opinione sulla modifica di oltre 50 articoli della Costituzione. Per un capriccio della storia, nello stesso giorno di 60 anni fa - il 25 giugno del 1946 - si riuniva per la prima volta l'Assemblea Costituente. Concluse i suoi lavori un anno e mezzo più tardi, nel dicembre del 1947 e la nuova Costituzione della Repubblica entrò in vigore il 1° gennaio del 1948.

Tra i membri di quella Assemblea, per limitarsi a qualche nome, si annoverano personaggi come Alcide De Gasperi,  Piero Calamandrei, Benedetto Croce, Luigi Einaudi. Il testo, per la sua perfezione letteraria, ha ricevuto recentemente il Premio Strega e avrebbe dovuto essere oggetto di studio nelle scuole di ogni ordine e grado. Sicuramente una maggiore conoscenza avrebbe indotto ad una maggiore cautela nello stravolgerla con tanta disinvoltura e bollarla come "bolscevica".

Nessuna legge può essere immutabile, neanche le Costituzioni. Tanto più se, come nel caso di quella italiana siamo di fronte ad un testo "lungo". Non ci si limita ai principi generali, ma viene disciplinata con molto dettaglio l'organizzazione dello Stato. Fare dei paragoni con la Costituzione americana ha quindi poco senso, poiché questa si limita a pochi e rigorosi principi. Però dal 1789 ha subito solo 27 degli oltre 10.000 proposte di emendamenti. Le modifiche per la maggioranza si riferiscono all'ampliamento dei diritti civili. Per arrivare all'approvazione del XIII emendamento, che aboliva la schiavitù si è combattuto la guerra di secessione, con migliaia di vittime. Altrettanto significative sono stati gli interventi per rafforzare le garanzie democratiche, disciplinando le modalità di elezione del presidente e del vice presidente, la definizione della cittadinanza americana, l'elezione dei senatori e del presidente limitando a due mandati la durata del suo incarico.

Nell'estate del 2003 quattro saggi si sono riuniti in una baita a Lorenzago. Tra il belare delle capre hanno generato il mostro che siamo chiamati a votare.  È molto istruttivo ricordare i loro nomi per consegnarli alla Storia (con la S maiuscola): Andrea Pastore, Francesco D'Onofrio, Domenico Nania e Roberto Calderoli, di professione odontotecnico. Noto costituzionalista del cavo orale, la cui opera più insigne è la "porcata" della legge elettorale, secondo la sua stessa definizione.

Ecco in maniera plastica la scelta che siamo chiamati a fare. Scegliere tra Roberto Calderoli e Alcide De Gasperi. Non possiamo accusare stanchezza di fronte ad un impegno di partecipazione civile e democratica. Non siamo costretti ad una corvée, ma ad apporre un semplice tratto di matita su di una scheda elettorale. Andate in massa. Andiamo in massa a fare gli indegni e votare no.

Vi sono infatti delle ragioni che militano in favore del si? No! Non ve ne sono e non si tratta di un preconcetto. Gli stessi autori della riforma si affannano a manifestare la propria disponibilità a mettersi a tavolino per migliorare il testo, eliminare le imperfezioni, chiarire le incongruenze. È una ammissione esplicita che, per ripetere le parole di Francesco Cossiga, siamo di fronte ad un "progetto non omogeneo, male strutturato, che vuole introdurre modelli di governo confusi ... un sistema complicato, ingovernabile e fortemente conflittuale di governo".

Una costituzione non è la brutta copia di un tema che si può correggere prima della consegna. È la legge fondamentale del Paese. Ogni pur lieve modifica produce effetti sul piano del diritto e su quello materiale. Ogni riassetto istituzionale ha un costo molto elevato, produce una rivoluzione burocratica e genera un flusso di interessi. Non si può procedere a tentativi.

Per ammissione degli stessi padri, questa riforma è incompleta: una Costituzione a tappe. Si rinvia - ad esempio - ad un successivo provvedimento la disciplina dell'autonomia impositiva degli enti locali. Le competenze vengono trasferite immediatamente, la distribuzione delle risorse verrà decisa in seguito. Nel frattempo si arrangi chi può. Si continuerà a ripartirle con il criterio consolidato della spesa storica. Chi ha avuto continuerà ad avere, chi non avuto continuerà a non ricevere.

Uno degli argomenti portati per giustificare il putsch istituzionale è di aver reso "pan per focaccia" restituendo al centro sinistra lo sgarbo di aver approvato a maggioranza la riforma del Titolo V. Pur con le attenuanti che si trattava di un testo votato all'unanimità nella commissione bicamerale e trovava il consenso delle istituzioni locali. Si è trattato comunque di un vulnus alla prassi che voleva che le riforme costituzionali fossero condivise e concordate dai due schieramenti.

Per la sua approvazione si è proceduti con il bulldozer. Ieri hanno rifiutato qualsiasi confronto, oggi manifestano una cauta apertura al dialogo. In maniera ambigua. Dopo la "loro" vittoria.   Un dialogo da posizioni di forza poiché sono perfettamente consapevoli della intrinseca debolezza di questa maggioranza che può godere di una risicata maggioranza al Senato. Qualsiasi provvedimento ordinario incontra delle difficoltà. L'approvazione di una qualsiasi modifica costituzionale appare poi una fatica improba. Quasi impossibile, senza il contributo dell'opposizione. Ma che interesse avrebbe l'opposizione a spianare la strada delle riforme facendogli acquisire un valore elettoralmente molto prezioso? Si può credere  a dei lupi vestiti oggi da agnello?

La politica ci ha abituato alle sorprese, però. Quello che appare oggi impossibile domani potrebbe verificarsi per incanto. Sullo sfondo vi è un possibile inciucio con la Lega Nord, in caso perdesse la sua battaglia. Serpeggia qualche tentazione di un ennesimo tradimento dell'elettorato, barattando il rafforzamento del governo con qualche altro pastrocchio istituzionale.

Per evitare "Costituzioni vintage", confezionate su misura per la maggioranza che si ritrova pro-tempore alla guida del Paese, bisogna impedire che possa passare una riforma per ripicca, che ha contiene una intrinseca contraddizione. Tenta di coniugare due visioni contrapposte. Il governo forte caro ad Alleanza Nazionale e la devolution che soddisfa la visione localistica e municipalistica della Lega, ispirata ad un esasperato egoismo territoriale. Entrambe incastonate a formare un ossimoro istituzionale. Senza dimenticare il contributo del terzo convitato di pietra che ha partecipato alla costruzione di questo edificio. L'UDC. Ha condizionato la sua approvazione a quella riforma che tanti mal di pancia creava in gran parte del suo elettorato (leggi Follini, Tabacci) con la legge elettorale proporzionale.  Il colpo di genio calderoliano.

La legge elettorale non è costituzionalizzata e può essere modificato con procedura ordinaria, ma costituisce uno dei pilastri del sistema. È stato il mattarellum a stravolgere l'impianto istituzionale, tanto da indurre molti commentatori a decretare la morte della prima repubblica. Il porcellum ha posto fine a quella esperienza, provocando un confronto con delle regole concepite ad hoc per favorire una delle due parti, colpita dalla nemesi con una sconfitta.

L'insieme di questi interventi di fine legislatura ha prodotto una miscela istituzionale esplosiva. In cauda venenum. Il Paese viene consegnato nelle mani di un Premier che "possiede" in senso patrimoniale la sua maggioranza, sottoponendola alla spada di Damocle dello scioglimento. Nello stesso tempo si pongono i partiti l'un contro l'altro in un esasperato conflitto elettorale, obbligandoli a stare insieme in una logica di schieramento necessaria per eleggere il Premier e poter godere del premio di maggioranza. Tutti per uno, ciascuno per sé, potrebbe essere lo slogan che sintetizza la logica di coalizione in un sistema proporzionale. Tanti galli chiusi in un pollaio che possono solo beccarsi in un combattimento senza fine. La possibilità di saltare il recinto appare remota.

Il Parlamento ridotto alla "aula sorda e grigia bivacco di manipoli" di felice memoria. Dobbiamo solo attendere l'unto per realizzare appieno il disegno, che forse trova il suo prodromo nelle riflessioni gelliane. En passant, si può notare che il Senato diventa il parente istituzionale povero, per il quale non è neanche prevista la possibilità di scioglimento anticipato, ipotesi non contemplata. Non varrebbe la pena che il Premier si scomodi per il Senato. Non ha alcun ruolo nella formazione del Governo, che deve ricevere la fiducia della sola Camera dei Deputati, le competenze legislative sono molto marginali. Tanto varrebbe abolirlo del tutto per evitare sprechi!

Con questa riforma siamo giunti ad una visione contrapposta a quella dei padri costituenti. Questi avevano costruito un insieme di garanzie per impedire una degenerazione democratica, uno squilibrio dei poteri. Memori della sciagurata esperienza che il Paese aveva vissuto, avevano creato un sistema di pesi e contrappesi che impedisse a ciascun potere di travalicare sull'altro e tracimare le competenze disegnate nella Carta.

Soprattutto ci si era preoccupati di limitare la preminenza dell'esecutivo e la dittatura della maggioranza. La democrazia è costituita sui pilastri descritti da Montesquieu e dallo statuto di garanzia assicurato alla minoranza. La divisione netta e la indipendenza dei tre poteri fondamentali dello Stato: Parlamento, Governo e Magistratura. Un Parlamento asservito al Premier e la Consulta politicizzata, consente a questi di legiferare a suo piacimento ponendo sotto controllo anche il potere giudiziario.

La minoranza deve essere tutelata per evitare che la maggioranza che detiene il potere possa sopprimerne la voce, zittire il dissenso. Sono gli "altri", i diversi, i più deboli, gli emarginati, i meno abbienti, le minoranze, che devono trovare tutela nella Carta. La maggioranza detiene il potere, che gli assicura privilegi e guarentigie che devono essere controllate, temperate da un potere concorrente che ne limiti l'arbitrio. Questa è l'essenza della democrazia.

Nella riforma si introducono due discriminanti, l'una giuridica che riguarda i rappresentanti e l'altra materiale che attiene alla sfera dell'equilibrio economico-sociale. Si contempla un diverso statuto per gli eletti della maggioranza, che possono detronizzare il premier con la sfiducia costruttiva e quelli di minoranza a cui compete il ruolo di spettatori vocianti.

Sotto il profilo delle opportunità è emblematico il nuovo articolo 58 che detta le norme per la l'eleggibilità al Senato "federale" cercando di delineare una figura legata al territorio per residenza o per per una rappresentatività politica, come rappresentante in enti locali o economici. Una sorta di "cittadinanza regionale" per far parte dell'elettorato passivo ed acquisire il diritto di rappresentare il territorio. In un mondo che diventa progressivamente multi-etnico, multi culturale ci chiudiamo in un gretto provincialismo, nella difesa del proprio orticello. Ogni cittadino italiano può candidarsi in qualsiasi comune, ma non al Senato se non ha uno stretto vincolo con il territorio. Eppure si legge nel nuovo testo "Ogni deputato e ogni senatore rappresenta la Nazione e la Repubblica ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato" (Art. 67). Con una cravatta verde al collo?

Ci siamo tutti riconosciuti nello stesso Stato perché ne abbiamo condiviso principi e valori. Abbiamo anche accettato una condizione di disuguaglianza nello sviluppo, partecipando al processo di crescita e di formazione del patrimonio della nazione. Il contributo dei meridionali è stato fondamentale per la creazione dell'area più produttiva ed industrializzata d'Europa, competitiva persino nei confronti del panzer tedesco. In un secolo e mezzo abbiamo tifato Italia e ne condividiamo storia, lingua e cultura. Abbiamo sempre creduto che quando scritto nella Costituzione potesse un giorno portare ad una sostanziale parificazione delle opportunità.

Oggi il quadro va arricchendosi con l'apporto degli immigrati che forniscono nuovi contributi e nuovi stimoli culturali. Si cerca di costruire una nuova definizione di cittadinanza legata alle affinità dei valori condivisi, alla costruzione di una koinè nella identificazione in un insieme di principi. Anche l'Italia si avvia a diventare un melting pot di cittadini legati da un comune destino. Mentre il Paese diventa più complesso, si ergono nuovi recinti, di chiudere ancora una volta le porte per difendere il proprio egoismo.

"È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale ... che impediscono il pieno sviluppo della persona umana", recita l'articolo 3 in vigore oggi e non modificato. Si parla di persona umana non di cittadini o di razza ariana. Vi saranno domani individui con pieno diritto di cittadinanza, liberti tollerati ma senza il godimento dei diritti politici, come sono gli immigrati regolarizzati e i nuovi schiavi costituiti dalla crescente massa dei "sans papier". Invece di preoccuparci di trovare soluzione alla vera sfida del futuro creiamo nuovi recinti per gli stessi cittadini italiani.

Si può forse ipotizzare una incostituzionalità della seconda parte della Costituzione? E chi potrebbe dirimere una tale questione? Neanche la Corte Costituzionale chiamata ad interpretarla non a riscriverla. E sono tanti i profili di contraddizione con i principi sanciti solennemente nella prima parte della Costituzione.

Amartya Sen un filosofo sociale, premio Nobel per l'economia nel 1998, ipotizza una nuova idea di cittadinanza, un "cosmopolitismo possibile" prodotto della globalizzazione che si riassume nei principi di identità, libertà, eguaglianza, diritti umani. Roberto Calderoli ci propone un "cosmopolitismo brianzolo" basati sul possesso di beni materiali, sull'identificazione con la ricchezza. Ogni campanile deve poter utilizzare ciò che produce, senza dover rendere conto che agli stessi brianzoli, seguendo il modello del municipalismo di esecuzione.

Si dimentica che senza uno Stato forte, autorevole non è possibile alcuna sviluppo economico e progresso sociale. Lo Stato non può limitarsi ad esercitare lefonctions de puissance - moneta, spada e feluca, secondo la triade classica, vale a dire politica estera, sicurezza dello Stato, ordine pubblico, giustizia, sistema valutario e monetario.

Lo Stato è anche produttore di beni sociali che consentono l'attuazione del principio di uguaglianza sostanziale. Amartya Sen si riferisce in particolare alla salute, all'educazione ed alla uguaglianza economica che entrano a far parte del HDI, l’Uman Develompent Index, il coefficiente di misurazione del grado di sviluppo. Secondo questo nuovo indice della ricchezza adottato dall'ONU e dai maggiori istituti economici mondiali, la ricchezza reale di un Paese non si misura solo in termini di PIL ma con l'aspettativa di vita, alfabetizzazione degli adulti, e distribuzione del reddito. Siamo cittadini di uno stesso Stato se viviamo in un Paese che presenta un HDI uniforme sul territorio, se cioè garantisce ai suoi cittadini pari opportunità.

Esattamente il contrario di quanto delineato nella ipotesi di riforma che siamo chiamati ad accettare o respingere.

Che fare allora? Votare no perché non vi è alcuna ragione per votare si. La comunicazione televisiva nel suo tentativo di semplificare l'esposizione della riforma è molto fuorviante, se non deliberatamente capziosa soffermandosi su alcuni aspetti che potrebbero incontrare il consenso popolare, come ad esempio la riduzione del numero dei parlamentari. La cosa era talmente abnorme che il Garante della Comunicazione ha rilevato la parzialità degli spot pubblicitari diffidando Mediaset "a non continuare la trasmissione di spot informativi che per la parcellizzazione e l'incompletezza delle informazioni fornite enfatizzino aspetti particolari della complessiva consultazione referendaria".

Tuttavia non è certo il costo della democrazia il problema più urgente, considerato che l'attuazione delle norme che si vorrebbe introdurre, ha un impatto valutato in molti miliardi (di euro!). In ogni caso se ne parlerebbe nel 2016. Se veramente si voleva realizzare un risparmio strutturale basterebbe adottare il XXVII Emendamento alla Costituzione americana: "Nessuna legge che modifichi il compenso per i servigi di Senatore o di Rappresentante potrà avere effetti fino a che non sia intervenuta una [nuova] elezione dei Rappresentanti" per porre un calmiere alla crescita indiscriminata dei costi politici. Ogni miglioramento economico per i rappresentanti delle Camere avrebbe effetto a partire dalla legislatura successiva, rendendo poco appetibili gli aumenti a futura memoria.

Non vi è alcun dubbio, tuttavia, che per il tempo trascorso ed i continui ritocchi si deve trovare un nuovo assetto istituzionale che dia una risposta razionale ai bisogni emersi nella società, alle mutate condizioni economiche e sociali del Paese, oggi molto diverse da quelle dei tempi della Costituente.

La prima riforma deve riguardare proprio l'art. 138 per eliminare ogni tentazione di modifiche a colpi di schieramento. Questo può essere ottenuto aumentando la maggioranza richiesta per l'approvazione o prevedendo il quorum per il referendum confermativo.

Ancora la Costituzione americana può essere d'aiuto. Gli emendamenti devono essere circoscritti ed approvati a maggioranza qualificata dei due terzi in ogni camera. Le modifiche devono insomma limitarsi a qualche aspetto e non possono arrivare a stravolgere l'impianto costituzionale. Qualora si rendesse necessaria una modifica più profonda viene prevista una procedura particolare che garantisca la partecipazione non solo delle due camere, ma anche di rappresentanti degli stati. Negli Stati Uniti si parla di convention costituente, che può essere richiesta da due terzi degli stati, che nel nostro caso potrebbero essere le regioni.

Volendo mantenersi sulla orme tracciate dai costituenti, si potrebbe circoscrivere l'abito di applicazione dell'art. 138 per avere proposte di modifiche da sottoporre a referendum siano complesse e contraddittorie. La Consulta, in riferimento al referendum abrogativo, ha sentenziato che "il quesito da porre agli elettori venga formulato in termini semplici e chiari, con riferimento a problemi affini e ben individuati", per evitare l'inganno di sottolineare solo alcuni aspetti senza dare agli elettori la possibilità di una visione complessiva del provvedimento. Nel vivo della campagna referendaria, ad esempio, non si parla più di devolution che era il principale cavallo di battaglia della Lega, per evitare di incontrare una opposizione troppo severa nell'elettorato. Le modifiche costituzionali non consentono né una scissione degli argomenti né la possibilità di "integrale reiezione dei quesiti". Ma molti sottolineano la sostanziale incostituzionalità di un uso spregiudicato dell'art. 138.

Il populismo insito nella proposta di riforma prevede al contrario l'abolizione di un solo comma di quell'articolo, che escludeva il ricorso al referendum qualora la modifica costituzionale fosse approvata da due terzi del Parlamento. In questo modo sarebbe possibile richiederlo sempre, previsione che ha un sapore fortemente demagogico posto in attesa di un Premier demiurgo.

La prima mano che la maggioranza deve tendere all'opposizione è proprio quella di impedire a sé stessa e chi la seguirà di poter procedere a colpi di maggioranza. Sarebbe un buon inizio per un dialogo costruttivo.

Un ultima considerazione. Non si tratta di un voto politico e non è in gioco il destino del governo. La revanche berlusconiana deve trovare altre strade. Vi è però il rischio reale che il voto referendario riproduca la stessa dicotomia geopolitica che ha caratterizzato le elezioni politiche scorse. La parte più avanzata del Paese ed il Sud potrebbero esprimere valutazioni diverse sulla riforma, considerando soltanto alcuni aspetti e dimenticando l'impianto antidemocratico complessivo. Questa dicotomia si è già prodotta nel referendum monarchia/repubblica con il Sud monarchico ed il Nord fortemente repubblicano. Ciò non ha impedito che si formasse un paese unito che si riconosce negli stessi valori, al di là delle intemperanze di Bossi e dei suoi. Questo induce a due considerazioni. Votare in massa perché è la somma dei si e dei no in tutto il Paese a dare la vittoria o la sconfitta all'uno o all'altro schieramento , impedire una strumentalizzazione di un risultato elettorale a pois.


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