Il sacco dell'informaticadi Oreste Parise (Mezzoeuro Anno VII num. 25 del 23/6/2008) |
Rende, 19 giugno 2008
L’oro nei computer
Entra nelle case dei calabresi lo
squallore desolante di CRAI e
TESI.
Ci entra grazie alla TV.
Dalle nostre parti i microchip, hanno
fatto il vuoto e in loro nome s’è messa in piedi la
più colossale e sfacciata delle
truffe
«Il nostro viaggio incomincia da qui. Quello che rimane di questa realtà è la sola certezza che lega questa struttura alla sua storia passata è la targa che indicava l’entrata principale del palazzo sede della TESI, società per azione, un tempo si diceva il fiore all’occhiello della ricerca tecnologica avanzata in tema di software. Nella cassetta della posta ci sono raccomandate, avvisi di pagamento, estratti bancari, persino la notifica di un atto giudiziario. Rimettiamo la posta al suo posto, con la speranza che qualcuno torni a raccoglierla. Poi entriamo nel cuore del palazzo informatico. La porta è stata divelta. Ancora è ben visibile il grande cartello, CRAI, che stava per Consorzio per la Ricerca e le Applicazioni dell’Informatica. Miliardi e miliardi di vecchie lire partiti da Bruxelles transitati per Roma per arrivare fin quaggiù.
Entriamo in quello che rimane della sala conferenze. Davvero scandaloso. In una regione dove si pagano fiori di quattrini per fare delle conferenze, qui c’è una sala abbandonata piena di seggiole e attrezzata di tutto punto, vi è persino il sistema di amplificazione, quasi perfettamente intatto. Nelle grandi scatole di legno ci sono decine di cuffie per le traduzioni simultanee. Se avessimo bisogno di un microfono ce ne è uno perfettamente nuovo, uno schermo gigante della sala proiezioni e qui forse un tempo c’era il video proiettore che ora hanno portato via. La data di questo estintore ci ricorda forse che l’ultimo collaudo è stato effettuato a gennaio 2004. Sedie e tavoli dappertutto. Qui regna sovrano lo squallore, per terra troviamo delle vecchie delibere del Consiglio di amministrazione e soprattutto le ricevute di azione i CALPARC, buttate per terra. I tavoli ancora perfettamente intatti, fili dappertutto, prese distrutte. L’unico segno di vita in questa stanza sono due bottiglie di birra, bevute chissà quando e da chi.
Se avete bisogno di una telecamera di ultima generazione potreste portarvene a casa una, che sembra ancora perfettamente funzionante. Da questo corridoio si va verso la biblioteca del palazzo, tante stanze sono ancora chiuse, inquietante il cartello che leggiamo su questa porta: “area amianto”. Sembra paradossale, ma per terra troviamo una ricerca sul come utilizzare e gestire il tempo in maniera efficace. Vi serve una lavagna, qui ce ne sono tante, c’è anche un pannello per le diapositive abbandonate per terra.
Tubi senza condizionatori dappertutto, qualcuno se li è portati via. IN un’altra stanza c’è una lavagna elettronica che potremmo portarci la casa, qui invece un PC, abbandonato sul pavimento. Molto edificante l’interno dei locali destinati a biblioteca: libri dappertutto, documenti, persino le targhe delle auto di servizio e poi lucidi, timbri del CRAI e di TESI, documenti abbandonati, magari frutto di anni di ricerca. Dentro un mobiletto ci sono carte e floppy con dentro forse la storia di questo mondo. Se vi serve una mega televisore qui ce ne sono due, e poi materiale scientifico in tutte le lingue, agende, lucidi mai utilizzati. La sporcizia ovviamente regna sovrana, regno ideale per topi. Tutto intorno decine di monitor, computer, stampanti, tastiere, prese speciali, cavi di ogni tipo. C’è persino un opuscolo che racconta l’economia di Zio Paperone. Una vera beffa. Materiale che forse potrebbe interessare la più vicina Procura della Repubblica.
Abbiamo avuto paura di salire al secondo e terzo piano. Speriamo che lo facciano le autorità competenti, perché questo patrimonio immenso che vi abbiamo fatto vedere diventerà oscuro oggetto di desiderio di molti; che intervengano prima che rubino quel poco che è rimasto. Forse c’è ancora il tempo per evitare che il saccheggio del palazzo informatico sia completo».
Quello che precede è la trascrizione pressoché integrale, ma comunque fedele di un servizio di RAI-3 Calabria sulla condizione in cui versa una delle sedi dei numerosi enti, consorzi e società che hanno fatto la storia dell’informatica in Calabria. Le poche foto di un settimanale non possono certamente sostituire le immagini televisive, e si lascia alla fantasia del lettore di ricostruire lo stato di degrado in cui versa l’edificio. Il servizio è stato curato da Pino Nano ed ha avuto il merito di aver mostrato impietosamente il vergognoso spreco di risorse pubbliche che è stato - e continua ad essere - il tanto decantato piano telematico o informatico della regione. Comunque si chiami, cambiamo i nomi ma la rapina di fondi pubblici è identica.
Si parla del CRAI, perché è stato il capostipite di questa lunga teoria di soggetti che hanno inanellato la più lunga storia insuccessi senza colpevoli.
Il CRAI è nato nell’ormai lontano 1979 e rappresentò la grande novità e speranza per la Calabria. Nella enfatica dichiarazioni di intenti dei padri ideatori e fondatori essa doveva essere un centro avanzato di ricerca scientifica con immediata ricaduta industriale. I soci fondatori erano di tutto rispetto: il CNR, la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, la DNE (Digital Network Engineering) la SIPE Optimation e la Segem. In seguito entrarono anche altri enti pubblici e società private come l’Olivetti, la Sirfin, il Comune al Provincia di Cosenza, la Regione Calabria, il comune di Rende. Un cocktail invidiabile di capacità tecniche, di potenza finanziaria, di potenzialità di ricerca che divenne una specie di mito, un caso invidiato in tutta Italia. Ancora sono reperibili in rete, interi libri dedicati a questo incredibile esempio di alta ingegneria tecnica, scientifica e finanziaria.
Grazie all’elevato standing, al prestigio di cui godeva nel suo consiglio di amministrazione si sono seduti prestigiosi luminari, grandi manager con compensi adeguati alle loro competenze e rimborsi spese degni di Paperon dei Paperoni. Ma questo era un dettaglio rispetto alle potenzialità dell’intrapresa.
Il meccanismo ideato era molto geniale. Era li a disposizione la grande torta dei finanziamenti derivanti dall’applicazione di due leggi: la legge 337/76 e la legge 183/76 che consentivano di disporre di risorse pressoché illimitate. D’altronde come lesinare su un ardito esperimento che prometteva di creare strutture avanzate in campo scientifico con immediate ricadute industriali.
«Scopo principale del progetto CRAI era quello di fornire ai soci consorziati servizi di elaborazione e trasmissione dati e di sviluppare attività di ricerca scientifica e tecnologica incorporabile, in un secondo momento, all’interno di prodotti e procedure di proprietà dei singoli consorziati» si legge in un dotto studio. Tradotto nel linguaggio degli umani questo significava due cose. I soci pubblici avevano un formidabile bacino clientelare in cui sistemare tanti clientes ed assicuravano altresì la copertura politica per l’ottenimento dei fondi pubblici e la loro integrazione con risorse proprie se fosse stato necessario, i soci privati aveva libero accesso al nascente mercato pubblico dell’informatica. Un gioco in cui tutti guadagnavano ad eccezione dell’erario.
Le risorse sono state abbondanti, ma ad un certo punto il meccanismo si è inceppato. Il Tribunale di Cosenza dichiara il fallimento del consorzio il 29 aprile 1998. Cosa era successo? Semplicemente nel 1992, con il governo Amato viene abolita la legge sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno ed i flussi pubblici si inaridiscono. Ma lo scialo continua, tanto che il deficit fallimentare supera i cinquanta miliardi di lire. I nostri bravissimi amministratori in versione spin-off in pochi anni si sono mangiati quella piccola sommetta, in aggiunta alle generose elargizioni pubbliche.
Grande esperienza il CRAI, seguita da un grande fallimento. Ma nessuno ha pagato. Al contrario. Da quella fallimentare esperienza è iniziata un’allegra sarabanda di nuove iniziative. Sulle sue ceneri nasce il CUD, il primo esperimento di Università a Distanza, anch’esso fallito lasciando dietro di sé una voragine da Guinness dei primati e poi TESI, CALPARK, CRATI, CLIC e croc. Una storia esemplare di fallimenti che viene descritta adeguatamente dai resti di archeologia industriale mostrati nel servizio della RAI.
Veramente stupefacente è leggere nel Piano Regionale per l’Innovazione e la Ricerca in Calabria elaborato nel 2003 che tra i centri di eccellenza promossi dall’Università della Calabria e per cui se ne mena vanto vi è il CRAI. Ed ovviamente anche il CUD fa bella mostra di sé. Questo a dimostrazione della capacità di clonare ad libitum questi esaltanti precedenti.
Ancora oggi sa dell’incredibile come si sia potuto produrre una così madornale impostura. Intanto, non solo nessuno ha pagato, ma nessuno ha avuto il coraggio di fare un’analisi critica di quanto accaduto ed individuare le cause di un simile disastro che paga l’intera collettività regionale.
I dipendenti tutti rigorosamente scelti con criteri discrezionali - o forse sarebbe meglio dire clientelari? - sono stati sistemati negli atenei calabresi. Prima quelli del CRAI, che potevano vantare un’altissima professionalità, tanto che la causa principale della sua crisi viene individuata nella difficoltà di mantenere una dimensione locale ad una struttura scientifica che aveva ormai un respiro internazionale. "All’interno del CRAI risultò impossibile tenere assieme per l’inadeguatezza che si verifica allorquando esigenze locali si proiettano su scenari globali. Il rischio, appunto, è quello di non riuscire a cogliere le necessarie differenze né in termini di risorse fisiche impiegate né in termini di strutturazione di base di conoscenza prodotte" si legge nello studio citato prima.
Troppa grazia, insomma. Avrebbe dovuto invadere il MIT, l’Università di Yale, Cambridge, assorbire la Microsoft o almeno la Apple: è morta per mancanza di un oceano in cui nuotare.
Esemplare per quanto riguarda il CUD, l’interrogazione parlamentare di Paolo Palma (seduta 522 del 21/4/99, il quale afferma: "vorrei dire all’onorevole Taradash che parla di ricerche fasulle a proposito del Consorzio Universitario a Distanza, che probabilmente non è bene informato e forse fa confusione con qualche altra istituzione quel consorzio. Il CUD è la prima università a distanza sorta in Italia, opera in un settore in pieno sviluppo e, nonostante vadano ammessi i guasti creati negli anni passati da una gestione non sempre accorta, ha al suo interno ottime professionalità. Mi sembra che il sottosegretario Macciotta abbia chiarito molto bene i termini del problema: non vi è nessuna operazione clientelare, vi è soltanto la disponibilità di questo personale qualificato per l’insegnamento a distanza a confluire nelle università calabresi che avessero bisogno di tale personale, nell’ambito dell’autonomia universitaria".
Possibile che nessuna di queste strutture, costate centinaia di miliardi delle vecchie lire, e come ci hanno fatto credere piene di menti eccelse, scienziati di livello internazionale, dove si sono formanti fior di ricercatori, studiosi e scienziati, pescati solo sulla base di competenze altissime, riesce a stare sul mercato da sola? Nessuna meraviglia. In Calabria succede questo ed anche di più. Magari a costo di qualche piccolo spreco. Roba da nulla, però.
Si potrebbe ricordare la Telcal che ha gestito alla grande 500 miliardi delle vecchie lirette. Cosa poteva fare di più se non dichiarare il suo fallimento quando le ha finite? Cosa si poteva chiedere di più ad un management di prima qualità, come attestato dai lauti compensi che non sono mai mancati.
"Mentre centinaia di piccole aziende, del terziario avanzato, pur con grandi sforzi, riescono a trovare spazio e dare lavoro a migliaia di giovani calabresi volenterosi e competenti" scrive sul suo sito Giorgio Durante di Calabrialibre.
Nella terra dei miracoli sono domande che non si devono porre. Ma forse sarebbe il caso di chiedere a Pino Nano di raccontare delle storie di uomini e di donne che si sono resi responsabili di quello scempio.
La Calabria ha bisogno di verità.
Complimenti per l'approfondimento sulla situzione di TESI. Ma perchè la stampa si accorge di queste cose solo quando sono già fallite ed i dipendenti sono rovinati?
Perchè non si parla dei carrozzoni quando sono in funzione e fagocitano milioni di euro?
Perchè, ad esempio, non parlate di CALPARK che sta ricevendo decine di milioni di euro per tanti progetti di cui sul territorio non si vede nessuna ricaduta?
Disponibile a fornire altri dettagli mi scuso per l'anonimato e porgo distinti saluti
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