Magna Grecia o Grande EuropaMezzoeuro Anno IX num. 18 del 08/05/2010) |
Rende, 7 maggio 2010
Il Trattato di Maastricht con i suoi parametri era stato disegnato per governare un cammino di crescita e di sviluppo, ma si è dimostrato insufficiente a consentire il governo della crisi. Ora l'alternativa è costruire un governo europeo o decretare il fallimento della moneta unica ...
Ha ragione il ministro Calderoli. Non ha molto senso festeggiare una ricorrenza come il 150-esimo anniversario dell'Unità d'Italia. Intanto è difficile sostenere che siamo uniti. La dicotomia Nord-Sud è diventata una faglia profonda e siamo perennemente in attesa di qualche terremoto che provochi la deriva della sua massa con il conseguente definitivo distacco della zavorra meridionale dal continente. Le differenze all'interno dei singoli stati non sono certo una peculiarità italiana. Per limitarsi all'Europa troviamo il Belgio e l'eterno conflitto tra valloni e fiamminghi; la Spagna e le divisioni tra Castiglia, Catalogna e provincia basca; la Cechia che si è già divisa dalla Slovacchia e via enumerando. Sono profonde spaccature etniche e/o economiche. Il romantico stato nazionale che abbiamo conosciuto non riesce più a garantire il governo del nostro presente e programmare il futuro.
Il caso più emblematico è sicuramente quello della Grecia dove si evidenziano con chiarezza gli elementi di debolezza di quel modello. La Grecia è, infatti, la dimostrazione palese che nessun governo nazionale è oggi in grado di attuare una efficace politica economica. Vi sono forze esterne, dalla speculazione finanziaria alle multinazionali, dalla agenzia di rating alle istituzioni sovranazionali, che sfuggono a qualsiasi controllo e condizionamento da parte delle autorità dello Stato. Se si preferisce è la mano invisibile del mercato a dominare i processi e un pugno di uomini ha accumulato una ricchezza tale da tenere in scacco gli stati più potenti economicamente e militarmente. E questo non dipende solamente dalla grandezza e dalla rappresentatività: gli Stati Uniti sono la prima potenza mondiale, ma subiscono i colpi della speculazione finanziaria. Hanno però una grande organizzazione e mezzi tali da condizionare la politica mondiale, poiché ancora costituiscono il vero motore dell'economia. In questa circostanza stanno utilizzando tutti gli strumenti a loro disposizione per poter rivolgere a loro favore la congiuntura sfavorevole poiché hanno bisogno di ridare autorevolezza al dollaro.
In cauda venenum, avvertivano i romani e l'ultimo scorcio di questa interminabile crisi dimostra ancora una volta la veridicità di quel motto. Ora è il ventre molle dell'Europa ad essere sotto tiro. L'euro ha creato uno scudo, una grande foresta che ha protetto gli alberi dall'uragano che l'ha investita e solo qualcuno ai suoi confini ha subito un forte scossone e deve essere aiutato a risollevarsi. Nel complesso, però, il sistema ha retto e bisogna sottolinearlo.
Partiamo dall'Inghilterra che ne è rimasta fuori. Si tratta di uno dei più importanti paesi industriali del mondo, dove troviamo la più grande piazza finanziaria (dimenticando Wall Street, almeno per il momento). Economicamente presenta dei problemi strutturali enormi che richiedono un drastico intervento. Come dice lo stesso Economist si è pericolosamente avvicinata all'Africa. Solo l'orgoglio nazionalistico impedisce una rapida decisione per un immediato ingresso nella moneta unica, come sarebbe logico aspettarsi. Ha retto alla crisi, ma il suo futuro appare incerto e deve inventarsi una strategia per poter riprendere il cammino dello sviluppo.
Ma cosa sarebbe successo a paesi come la Grecia, l'Irlanda o il Portogallo senza l'ombrello dell'euro? Facendo finta di dimenticare l'Italia e il "Bordello", come lo stesso settimanale ha ridefinito il Regno del Sud prossimo venturo. Basta guardare l'Islanda, che non deve solo affrontare il suo roboante vulcano, ma anche ad una crisi finanziaria che l'ha portata al default. Abbiamo evitato una crisi di sistema che avrebbe creato una situazione molto simile a quella del 1929 perché l'Europa ha affrontato la crisi con una moneta unica che ha costretto ad un intervento di soccorso che sarebbe stato impensabile senza il vincolo dell'euro. La Germania può lamentarsi come vuole, ma il suo destino è strettamente legato all'Unione Europea e tutti i discorsi sul futuro dell'euro non hanno alcun senso se non si è votati al suicidio. Forse non si è sottolineato a sufficienza il ruolo che ha avuto in questa crisi la moneta unica. Il solo fatto della sua presenza ha impedito che la crisi degenerasse anche se in pochi hanno notato che c'è, e ancora minore il numero di coloro che si sono preoccupati di disegnare lo scenario del cataclisma che si sarebbe potuto verificare senza di essa.
Se c'è poco da festeggiare la ricorrenza unitaria, insomma, è per il crollo del concetto dello Stato nazionale che non può certo essere sostituito da assurde entità localistiche, ma da istituzioni grandi e autorevoli che siano in grado di governare l'economia, porre un freno al mercato, intervenire drasticamente per evitare un processo di concentrazione della ricchezza e del reddito che sono una delle cause principali della crisi. I profondi squilibri che si sono prodotti nel lungo periodo di crescita provocato dalla globalizzazione hanno bloccato la domanda. Gli investimenti da soli non sono in grado di sostenere il ritmo crescente della produzione. Ci troviamo di fronte a una classica crisi di sovraproduzione e tutti i meccanismi messi in atto finora hanno avuto scarsa efficacia per stimolare la domanda che costituisce l'anello più debole della catena. Si è cercato di intervenire sugli effetti, ma si è accuratamente evitato di intervenire sulle cause, ben fin troppo note.
Per non lasciare appeso il teorema Calderoli, bisogna aggiungere che vi sono molteplici fenomeni che minano la coesione stati nazionali dall'interno, il più importante dei quali è il crescente flusso immigratorio, che stanno trasformando i monoliti etnicamente "puri" in comunità multilinguistiche e multiculturali. E' un processo storicamente irreversibile. Piuttosto che averne un sacro terrore, bisognerebbe imparare a governarlo. Non bisogna dimenticare che il nostro passato è stato caratterizzato da stati multietnici e da una pluralità culturale. L'esempio più illustre è l'impero greco-romano, come ormai viene comunemente definito, in cui il latino era la lingua dell'amministrazione imperiale e dell'esercito, il greco la lingua della cultura, della poesia, della filosofia; e ogni popolo conservava la sua identità e la sua tradizione. Un modello che attraverso l'impero bizantino è durato fino alla fine del Cinquecento ed è stato continuato dall'Impero Ottomano. Oggi il nuovo impero, gli Stati Uniti d'America, è un crogiuolo di razze, di lingue e di culture. Multietnici sono Cina e India e lo sono stati l'Impero Ottomano e l'Impero austro-ungarico. Anche se si riuscisse a riequilibrare il profondo squilibrio economico del mondo, l'inarrestabile mobilità provoca comunque un rimescolamento etnico e culturale.
Il modello futuro non può che essere un sistema glocal: entità multinazionali in grado di governare vaste aree geografiche e entità locali che si occupano della gestione del territorio e del soddisfacimento dei bisogni dei cittadini. Un governo globale accompagnato da un vasto decentramento. La risposta è nel rilancio dell'idea di Europa, nella formazione di un governo europeo che sia in grado di incidere sui processi, poiché la crisi greca è possibile solo perché non c'è nessuna autorità che sia in grado di assumere le necessarie misure in maniera rapida e incisiva. Si può consentire che una piccola ferita possa infettare l'intero organismo europeo? E a chi gioverebbe un gioco al massacro?
Il federalismo in stile padano è semplicemente una burletta di cui amiamo trastullarci, poiché una forza politica minoritaria l'ha imposta all'intero Paese. Prima di attuarlo bisognerebbe costruire gli Stati che sono chiamati a federarsi, che nella nostra realtà non esistono. Abbiamo il curioso caso di voler realizzare un federalismo prima di avere creato gli stati: un processo esattamente opposto a quello dell'Unione Europea che cerca di creare degli spazi di governo comune sottraendolo agli stati nazionali.
Mentre mancano adeguate misure per fronteggiare la crisi, ci prepariamo alla grande battaglia per l'introduzione del federalismo fiscale. La questione è connessa alla crisi finanziaria per almeno due ordini di motivi. In primo luogo sottrae competenze e risorse allo Stato proprio nel momento in cui bisogna affrontare il massimo sforzo per fronteggiarla opponendosi alla speculazione e programmando un adeguato piano di interventi. L'azione deli enti locali è certamente meno efficace e provoca una dispersione delle risorse.
Il secondo aspetto è l'incognita sulla riuscita e sul costo di tutta l'operazione che potrebbe causare un aggravamento della crisi, poiché ci vorrrano anni prima di una maturazione del processo. Una valutazione della esperienza delle regioni avrebbe dovuto indurre ad una maggiore cautela, poiché, salvo qualche raro caso, non può certo considerarsi esaltante poiché ha portato ad una dilatazione della macchina burocratica e a minore efficienza con enormi sprechi di risorse.
Altrettanto importante è l'accentuazione del processo di decentrantamento delle risorse che ha un carattere fortemente prociclico: saranno le regioni economicamente più forti a disporre di maggiori risorse, mentre quelle più deboli saranno chiamate a maggiori sacrifici con inevitabili conseguenze sulla domanda. Non si poteva scegliere un periodo peggiore per attuare una misura già sciagurata di per sè, ma che accentua la crisi.
La risposta alle attuali difficoltà non si trova guardando in basso, ma in alto, cercando soluzioni che siano in grado di dare risposte altrettanto efficaci quanto lo sono i grandi attori internazionali che operano sul mercato. Si può uccidere Golia con una fionda, ma è un evento più unico che raro.
La crisi che agita l'Europa ha protagonisiti lontani e cause profonde. Sullo sfondo dello scenario vi sono le esigenze degli Stati, il cui debito pubblico è realmente colossale e non può ulteriormente permettersi di osservare passivamente lo scivolamento del dollaro sui mercati finanziari perché questo provocherebbe una reazione della Cina che di fatto finanzia la crescita americana con l'acquisto di titoli della Federal Reserve. L'attacco speculativo contro l'euro è finalizzato a riequilibrare il rapporto di cambio, il che si tradurrebbe in una svalutazione competitiva per l'Europa, se non vi fossero le preoccupazioni legate alla crisi finanziarie dei PIGS, i Paesi europei con squilibri di bilancio.
La mancata ratifica del Trattato di Lisbona ha provocato un vuoto di potere e l'impossibilità di attuare una politica comune, che ha dato spazio alla speculazione che si è servita delle agenzie di rating per ampliare il suo impatto. Queste società private che decidono della sorti di interi continenti costituiscono un sistema inaccettabile, sia perché sono scarsamente affidabili sia perché spesso sono state coinvolti in colossali scandali ponendosi al servizio della speculazione. Nella stragrande maggioranza dei casi richiedono la chiusura della stalla dopo che i buoi sono scappati. Molto raramente sono riuscite a prevedere e scongiurare le situazioni di crisi, ma le hanno sempre acuite con i loro disastrosi giudizi.
Si parla con insistenza sulla necessità di un nuovo Trattato di Maastricht che introduca una serie di misure di rigore a cui sarebbero tenuti tutti gli Stati aderenti alla moneta unica. Il gentlements' agreement che era alla base della costituzione dell'euro, con l'adozione dei famosi parametri di Maastricht, si è rivelato sufficiente al governo dell'economia in periodi di crescita e di sviluppo, ma ha mostrato tutti i suoi limiti e i suoi difetti al sopravvenire di una crisi grave e prolungata come quella che stiamo vivendo. Il surrogato di una politica economica europea non è più sufficiente a sostenere il sistema.
Il nuovo trattato dovrebbe sciogliere alcuni nodi di fondo. La nostra costituzione impone che ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte, il che significa che non sarebbe consentito alcun deficit di bilancio. Viste lo stato della nostra finanza il condizionale è d'obbligo, poiché mai disposizione è stata così palesemente violata. Il zero budgeting deve essere imposto subito a livello europeo a tutti gli Stati nazionali che dovrebbero ricorrere al mercato solo per finanziare gli investimenti. I free-spending countries, i paesi dalla finanza allegra, come li definisce l'Economist, vanno fermati subito senza aspettare una politica di risanamento che potrebbe impiegare svariati decenni per produrre qualche tangibile effetto: è molto più opportuno un shock immediato seguito da una politica espansiva per sostenere l'occupazione e il reddito.
Il presupposto per poter introdurre una misura così draconiana è il consolidamento dei deficit con l'emissione di eurobond da parte della Banca Centrale Europea e ammortamento a carico degli Stati nazionali per la quota a loro carico. Questo sarebbe un gigantesco cordone sanitario che ridarebbe respiro alle economie deboli come la Grecia, il Portogallo e la Spagna che potrebbero diluire il loro debito in un arco temporale molto lungo a tassi molto ridotti per il credito di cui gode l'Istituzione europea. All'operazione di consolidamento si potrebbe affiancare un "Piano Marshall" di rilancio dell'economia con un programma di investimenti in opere pubbliche di interesse europeo nel settore della ricerca, dell'energia, dei trasporti, dell'ambiente e dell'agricoltura. Le economie dei paesi deboli non vanno aiutati con prestiti ma con politiche comunitarie e l'imposizione del rigore finanziario. Il nostro federalismo fiscale costituisce solo un palliativo che aggrava la situazione.
Un aspetto cruciale è costituito da monitoraggio e da controllo degli enti statali, locali e anche privati per poter rendere efficace questa politica. Non sarebbe il caso di pensare a una Authority europea cui affidare il monitoraggio degli enti pubblici e della grandi società multinazionali in maniera autonoma e indipendente? Un sistema del genere potrebbe essere di ausilio agli stessi governi nella loro azione di programmazione e controllo della spesa propria e degli altri enti pubblici. L'autorevole giudizio di una siffatta authority depotenzierebbe l'effetto catastrofico prodotto dalle manovre molto spesso subdole delle agenzie private che sono assillate più dal proprio profitto che dall'interesse collettivo.
La politica di rigore imposta alla Grecia segue il canovaccio utilizzato dalle grandi istitutizioni internazionali come l'FMI e la World Bank di ispirazione della scuola di Chicago. Tutto il peso del risanamento ricade sul reddito fisso e sulle parti più deboli dell'economia, mentre non si è richiesto alcun sacrificio ai patrimoni e ai redditi finanziari. Vi sono certamente sprechi nella burocrazia, nell'impiego pubblico, nel lavoro privato, ma il vero nodo resta la profonda disuguaglianza e l'iniqua distribuzione del carico fiscale.
In ogni momento di crisi, l'Europa ha saputo riprendere il cammino verso una maggiore integrazione. La speranza è che anche questa volta non ci si fermi all'analisi della congiuntura sfavorevole, ma si colga l'occasione per creare gli strumenti che consentano un effettivo governo dell'economia.
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