Il credito rallenta il Sud

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno IX num. 30 del 31/07/2010)

Rende, 30 luglio 2010

L'ultimo Rapporto Svimez sul Mezzogiorno offre un quadro drammatico della regione

Cresce la quota di sportelli delle grandi banche e diminuisce la concorrenza. Resta ancora elevato il divario tra Nord e Sud per la quantità del credito erogato e le condizioni praticate alla clientela.

Scorrere le pagine dell'ultimo rapporto Svimez sul Mezzogiorno è una sorta di discesa negli inferi. Una lunga teoria di segnali negativi che lasciano pochi spiragli per l'ostentato ottimismo del Governo. Si moltiplicano le diagnosi. Anche l'Assindustria ha presentato il proprio rapporto territoriale a poca distanza della presentazione dello studio sulla congiuntura della Calabria della Banca d'Italia di Catanzaro e quella della Camera di Commercio di Cosenza. Cambiano i dottori, ma il referto non varia molto. Vi è solo una accentuazione su qualche aspetto particolare.

Il dato su cui tutti concordano è che siamo nel pieno della crisi. Il Mezzogiorno e ancor di più la Calabria. Sarà pure che l'Italia è posizionata meglio degli altri, secondo la vulgata del nostro governo. Si nasconde tuttavia che nei fatti il Paese è spaccato in due e non vi è alcuna intenzione di attuare politiche di coesione per tentare di ridurre il divario. Non si parla più di secessione, ma la secessione è nei fatti. Il Mezzogiorno è un paese a sé, con le sue inefficienze e i ritardi di sviluppo. Cresce il disagio non tanto per la condizione attuale, ma per le prospettive che non offrono molti motivi di speranza.. Abbiamo attraversato momenti peggiori, ma in clima di entusiasmo, nella consapevolezza di potercela fare.

La questione meridionale è sparita dall'agenda politica. Il Sud costituisce ormai un corpo estraneo, una cancrena che ha come unico rimedio l'amputazione dell'arto. È proprio la Borbonia ad avere bisogno di poter contare sulle proprie forze, per ritrovare al suo interno l'energia per uscire da questo stato incosciente. Nulla ci si può attendere dalla miopia leghista e dalla sua insensibilità per gli effetti che una ulteriore accentuazione del divario potrebbe comportare sull'equilibrio nazionale.

Il problema dell'Italia sembra essere solo il malessere settentrionale. Le questioni vitali del governo riguardano le intercettazioni, che dovrebbe temere unicamente chi ha qualcosa da nascondere, e il “federalismo” in tutte le sue forme. Non passa giorno senza che qualche autorevole membro del governo affermi la volontà di volerci lasciare al nostro destino, dopo aver sfruttato fino in fondo le nostre risorse. Nessuno può illudersi, però. La caduta del Mezzogiorno si ripercuoterà sull'intero paese in maniera rovinosa.

Al Sud cominciano ad avvertirsi i crampi allo stomaco per la fame. Non in senso metaforico. In Calabria quasi una famiglia su cinque dispone di un reddito inferiore a mille euro al mese (per l'esattezza il 17,1% contro il 14% del Mezzogiorno e il 5,5% del resto d'Italia). Ogni nucleo familiare è mediamente composto da 3-4 persone, per cui essa dispone di circa 300 euro mensili per ciascun componente, facendo finta che non abbia spese fisse come fitto, condominio, bollette di elettricità, acqua, spazzatura ecc. La misura del disagio è chiaramente espressa dagli oltre 118mila giovani che nel corso del solo 2009 hanno lasciato il Mezzogiorno per cercare una speranza altrove. Ancora una volta sono i giovani più dinamici, per i quali le famiglie hanno dovuto sostenere il costo della formazione. Secondo le indagini OCSE-PISA la loro preparazione non vale granché. Quando emigrano, però, diventano fior di professionisti. Miracoli della statistica. Inoltre, la formazione scolastica dei giovani settentrionali è affidata in gran parte ai meridionali. Così come il funzionamento degli ospedali, degli uffici pubblici.

Sono tanti gli spunti del rapporto Svimez. Ancora una volta concentreremo l'attenzione sul credito, il cui ruolo si evidenzia e si esalta, in senso positivo e negativo, proprio nei momenti di crisi.

Senza un intervento correttivo, il credito ha un andamento prociclico. Le banche sono ben disposte a concederlo in pieno boom surriscaldando l'economia, mentre si chiudono a riccio all'insorgere delle difficoltà. Allorquando i ratio di bilancio sono squilibrati, come avviene nel momento di crisi, gli strumenti più sofisticati segnalano immediatamente il pericolo, rivelandosi inadeguati a valutare il merito creditizio. In fondo fanno il loro mestiere poiché avvertono che fiori piove e ne precisano l'entità. L'effetto è quello di provocare un aggravamento dello crisi mettendo in moto una spirale molto pericolosa. Un simile comportamento finirebbe per travolgere tutti e tutto, come ha crudemente insegnato la crisi del 1929.

In questi momenti la tecnica si rivela molto pericolosa, poiché non riesce a andare al di là del puro dato contabile. Proprio in questi frangenti è necessario aiutare le famiglie e le imprese a superare le difficoltà, ad adeguarsi alle nuove condizioni del mercato. Bisogna disporre delle professionalità che siano in grado di riconoscere gli elementi sani che richiedono le risorse per effettuare gli investimenti. Il credito costituisce l'unico strumento per poter fornire al sistema la liquidità necessaria per poter effettuare gli investimenti necessari per adeguare gli impianti e l'organizzazione aziendale. Un imprenditore di Prato, Edoardo Nesi, in una lettera al Corriere ha ricordato che “un debito non è quel marchio d' infamia che par essere diventato oggi, ma il patto antichissimo tra chi ha i soldi e chi sa lavorare, il necessario compagno di viaggio di ogni impresa e d' ogni persona”. Soprattutto nei grandi istituti di credito che hanno da tempo introdotto sofisticati sistemi informatizzati per una valutazione automatica del merito creditizio, vi è una oggettiva difficoltà a procedere a valutazioni rigorose dei piani di investimento. I responsabili dei punti operativi sono oggi dei semplici impiegati, gratificati con titoli altisonanti, come direttore, settorista, responsabile settore crediti. Sono un pallido surrogato delle figure professionali, evocate dal nome, che venivano formate con lunghi anni di esperienza e continue sessioni di aggiornamento. Oggi si assiste nel settore del credito all'appiattimento dei ruoli, delle funzioni, delle remunerazione e delle professionalità.

Il sistema economico e imprenditoriale in un momento di crisi presenta un calo di vendite, scarsa redditività, squilibrio nei conti. Se si valutano questi elementi è fin troppo evidente che saranno molto pochi quelli che supereranno il rating previsto dalle procedure. Quel sistema funziona benissimo in condizioni di normalità, ma dimostra tutti i suoi limiti quando l'attenzione deve concentrarsi sulle capacità imprenditoriali, le prospettive di poter aggredire nuovi mercati, la validità dei nuovi prodotti, l'efficacia di una nuova organizzazione produttiva. I bilanci non aiutano, gli strumenti di analisi raccontano di un passato da dimenticare. Bisogna sapersi proiettare nel futuro, leggere le potenzialità. Solo figure professionali con una lunga esperienza, un contatto diretto con la clientela ed una conoscenza profonda dell'imprenditore, possono svolgere adeguatamente questo ruolo. Quelle vecchie figure professionali sono state rottamate con troppa facilità nel grande sconvolgimento che si è verificata a partire dagli anni novanta del secolo scorso. Ora le grandi banche non sono più attrezzate per questo scopo, si sono dimostrate molto vulnerabili di fronte alla crisi.

Sono molto le denunce del comportamento delle banche che giocano in difesa proprio nel momento in cui dovrebbero avere un ruolo fondamentale; e questo, non avviene solo nel Sud, ma anche nell'opulento Triveneto.

Antonio Dorella del Consorzio di garanzia degli artigiani di Treviso afferma, riportato in un articolo di Paolo Tessadri: “Gli istituti più grandi spesso fanno valutazioni sulle capacità delle imprese troppo superficiali e parziali: non si dà un rating negativo per una sola insolvenza”.

In un momento di crisi è fisiologico che molte imprese siano in crisi. Quello che è richiesto alle banche è sapere individuare quelle che saranno in grado di riprendere il cammino, le imprese che diventeranno le protagoniste del mercato del domani. Questo è il vero contributo che possono e debbono dare alla ripresa.

Avendo le grandi banche rinunciato all'expertise di cui erano quasi esclusive depositarie, non vi sono rimaste che le piccole a svolgere questo importante ruolo di selezione. Anche esse sono tenute al rispetto delle rigide regole di Basilea, ma il contatto con le imprese, la loro profonda conoscenza del territorio gli consente di applicare la tecnica con uno sguardo che va un po' al di là della foschia congiunturale che impedisce oggi di vedere l'orizzonte.

Questo reciproco avvinghiarsi in un abbraccio tra la piccola impresa del territorio e le BCC è l'unico strumento per poter sperare in un superamento della crisi. Esse nel nostro territorio sono rimaste le uniche e le ultime a presidiarlo, a fornire assistenza alle imprese. Le stesse banche popolari pur avendo sede legale nella regione, come la Banca Popolare del Mezzogiorno, fanno parte di gruppi nazionali.

Nel rapporto Svimez si legge: “nel 1990 esistevano al Sud 100 banche indipendenti con sede legale nell'area e 16 gruppi bancari con sede nell'altra ripartizione; nel 2004 erano rimaste solo 21 aziende di credito, tutte appartenenti a gruppi settentrionali”. Se ancora si ritenesse necessaria qualche conferma, la perentoria affermazione dello studio non lascia alcun margine di dubbio sull'unicità delle BCC. Esse attraversano un momento di crisi, poiché si sono appesantite nello sforzo di sostenere le famiglie e le imprese. Oggi vanno difese per non perdere la loro esperienza, la loro storia, la loro cultura.

Un fenomeno nuovo verificatosi nel corso del 2009 è la diminuzione del numero complessivo degli sportelli operanti al Sud (cento in meno rispetto all'anno precedente). Nel lungo periodo di ristrutturazione che ha attraversato il sistema creditizio con fusioni, accorpamenti, passaggi di pacchetti di azioni di controllo, non si è proceduto alla chiusura di sportelli, ma ad un loro passaggio da un istituto a un altro con cambio delle insegne.

Ora il mercato è saturo, anzi il numero degli sportelli appare sovrabbondante, tanto che la stessa Svimez afferma che “L'Italia è il paese con il più alto numero di sportelli per abitante in Europa dopo la Spagna, ma la loro diffusione è disomogenea e legata al diverso peso economico regionale (presenza di imprese, densità di popolazione, PIL)”.

Ulteriori operazioni di fusione o accorpamento di istituti potrebbe comportare seri rischi per il mantenimento dei livelli occupazionali nel settore. Soprattutto in Calabria, il mercato degli sportelli bancari è asfittico, poiché la loro densità in rapporto al reddito e agli abitanti, è ormai troppo elevata.

I comuni privi di sportello bancario sono ancora molti, ma sono aree considerate scarsamente appetibili poiché non riescono a garantire il raggiungimentodell'equilibrio di gestione, il famoso break-even point. “Dal 2000 al 2006 la quota di sportelli di grandi banche è passata al Sud da 58% al 66%, le medie sono scese dal 21% all'11%, le piccole e BCC sono rimaste pressoché stabili, dal 20,2% al 21,9%”, si afferma nel Rapporto Svimez. Tra poco tutto il sistema sarà costituito da tre o quattro grandi istituti e dalla BCC.

Questo significa che vi è un restringimento della concorrenza nel Meridione, poiché il comportamento delle grandi banche tende a essere uniforme. Essi agiscono seguendo delle regole di ingaggio non scritte, una forma di non belligeranza ai danni della piccola e media impresa che non ha la forza contrattuale per opporsi al loro strapotere. La concorrenza tra di loro non avviene sui territori marginali, ma nelle grandi piazze finanziarie internazionali. L'acuirsi della crisi del Mezzogiorno potrebbe quindi risolversi con un restringimento della rete di sportelli e degli operatori bancari. Come dimostrano i dati, sono proprio le BCC a rappresentare l'elemento più dinamico, con un lieve aumento della loro presenza sul territorio.

La forbice dei tassi è pari a 1,4 punti percentuali e non costituisce certo il problema più importante del credito nel Mezzogiorno. Ben maggiore rilevanza acquista la qualità del credito, la sua capacità di finanziare le imprese più dinamiche e produttive nella forma tecnica più adeguate alle esigenze degli investimenti che le imprese intendono realizzare. I dati del Mezzogiorno sembrerebbero mostrare che la stretta creditizia abbia colpito in misura molto minore il Mezzogiorno, ma se considera l'andamento storico, poiché la base di partenza è notevolmente al di sotto di quella del Nord, per cui le percentuali di crescita che si sono verificate nel 2008 devono essere valutate con molta cautela. Gli ostacoli strutturali non sono stati certo superati, poiché permane la polverizzazione delle aziende, la prevalenza di attività nel campo dei servizi o dei settori tradizionali, la scarsa propensione al mercato “estero”, il carattere personale delle aziende, la pervasività della criminalità organizzata, la presenza di un settore sommerso con una percentuale che oscilla tra un quinto e un quarto di tutta l'economia ecc.

Ancora prevalente risulta il ricorso al classico fido spesso utilizzato in maniera impropria per finanziare investimenti a medio e lungo termine e vi è una scarsa utilizzazione di strumenti finanziari più sofisticati.

Il credito è uno strumento troppo importante per lasciarlo senza alcun governo. La Regione deve dotarsi di una sua politica, favorendo la strutturazione dei Confidi, dando una fisionomia alla Fincalabria, favorendo la costituzione della Banca di Garanzia, che potrebbe assumere un ruolo trainante.

Nell'intervista qui a fianco Gianpaolo Chiappetta, consigliere di maggioranza, propone gli Stati Generali del credito; potrebbe essere un un importante momento di riflessione e di dibattito, ma occorre far presto, poiché le condizioni della Calabria sono difficile e rischiano di diventare drammatiche.

Sullo stesso argomento interviene anche Salvatore Magarò che si schiera anche lui in difesa delle BCC.


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