Romano De Grazia, un giudice sotto tirodi Oreste Parise Mezzoeuro Anno X num. 6 del 12/2/2011 |
Rende, 11/2/2011
Un pentito lo accusa dopo diciassette anni
Ha combattuto per anni per l’approvazione della legge Lazzati, che compromette le capacità di intervento della malavita organizzata nelle competizioni elettorali. Ora cercano di utilizzare il provvedimento contro di lui per vendetta
Il 9 termidoro Joseph Guillotin salvò la sua testa. Robespierre era stato assassinato e finiva il terrore. Non ebbe quindi modo di verificare personalmente l’efficacia dello strumento di morte che aveva vivamente caldeggiato per ridurre la sofferenza dei condannati. La sua proposta fu accolta immediatamente con grande entusiasmo. Si calcola che furono circa 50.000 le vittime della ghigliottina.
Il giudice Romano De Grazia ha impiegato 17 anni per far approvare il suo disegno di legge, che è conosciuto come legge Lazzati per la devozione filiale che lo legava a questo maestro del diritto, riconosciuto come uno dei padri nobili della Costituzione italiana. Romano De Grazia ha inventato la ghigliottina in grado di tagliare la testa politica dell’Idra criminale che ha avvinto la società meridionale. Con studiata perfidia vogliono sperimentarne l’efficacia sul suo stesso ideatore.
Alla fine di questo lungo e tortuoso cammino quel progetto lungamente inseguito è diventato legge nell’autunno scorso per l’impegno e la testardaggine tutta calabrese di Angela Napoli che ha ottenuto un sostegno bipartisan.
Chiunque abbia conosciuto il magistrato, oggi in pensione, può testimoniare l’impegno quasi maniacale con il quale ha perseguito quest’obiettivo. Si è prodigato nell’organizzazione di convegni, dibattiti, incontri, interviste. Alla fine di qualsiasi discorso, la discussione ricadeva sempre su quell’argomento e sulla necessità di liberare la politica dall’intreccio con la criminalità organizzata.
Il punto di partenza della contaminazione mafiosa è costituito dalla creazione di rappresentanti politici in grado di difendere gli interessi delle cosche con un concreto sostegno elettorale. I prescelti erano chiamati a ricambiare il favore ricevuto con favori di varia natura ai loro sostenitori. Questa è l’essenza della nuova normativa, come spiega lo stesso magistrato in una intervista: “Fino ad oggi il mafioso poteva girare casa per casa e persuadere l’elettore a votare per quel deter¬minato candidato o per quella deter¬minata lista con cene, con raduni, dove il denaro scorreva a fiumi adesso invece chi infrange questo divieto è sottoposto a proce¬dimento penale e se ritenuto colpevole, sottoposto a una sanzione penale da uno a cinque anni”.
Il politico che cerca e si avvale del sostegno della criminalità rischia l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e l’ineleggibilità. Cosa ha di così rivoluzionario una simile norma lo spiega lo stesso magistrato. “Semina il panico, perché è di agevole appli¬cazione, perché basta acquisire la prova che quel mafioso fa propaganda elettorale a quel politico tizio che l’ha richiesto, basta l’accertamento non occorre, diver¬samente dalla normativa sul voto di scambio, la prova di un rapporto sotto¬stante”.
Molti dei procedimenti sul voto di scambio si sono arenati proprio nella difficoltà di accertare il rapporto sinallagmatico di quel patto, di individuare le azioni concrete poste in essere dal politico in favore della criminalità organizzata. Spesso non si tratta d’interventi diretti, ma per interposta persona e sono difficilmente dimostrabili per cui i colpevoli sono riusciti a farla sempre franca. Non si è a conoscenza di politici rovinati per voto di scambio.
Resta tutta da provare l’efficacia pratica di questa nuova normativa poiché oggi si è fatto un passo avanti nell’intreccio politica-criminalità. Molti sospettano che essa non si serve più di intermediari, ma ha piazzato direttamente propri uomini nei posti chiave delle amministrazioni più importanti. Un salto di qualità consentito dalla formazione di una “classe” dirigente criminale educata e formata nelle migliori scuole universitarie. Questo scompagina gli equilibri rendendo forse meno efficace il divieto legislativo di propaganda elettorale introdotto con la legge Lazzati. A questo si aggiunga la disponibilità di strumenti sofisticati per la comunicazione e il controllo del voto, come gli smartphone e i social network, per fare un esempio che diventano vere e proprie piazze telematiche. E non tutti sono facilmente intercettabili. Ad esempio, Skype risulta quasi impenetrabile.
Il macigno con il quale si è tentato di colpire Romano De Grazia, tuttavia, è un chiaro segnale di insofferenza della criminalità nei confronti di questi nuovi divieti al loro operare, che considerano molto fastidiosi e dalla conseguenze imprevedibili.
E’ accaduto, infatti, che un pentito di mafia, Giovanni Governa, ha tirato in ballo una questione vecchia di diciassette anni fa, asserendo che Romano De Grazia nella sua unica candidatura alla Camera dei deputati nel 1994 si è avvalso del sostegno di importanti esponenti delle cosche lametine. Già in questo vi è un aspetto singolare. Non sono stati gli esponenti criminali a voler puntare sul giudice riconoscendogli la capacità di poter validamente rappresentare i propri interessi, ma è il giudice a sollecitare il loro intervento, promettendogli un aiuto concreto e immediato nel favorire la revoca della sorveglianza sociale allo stesso pentito.
Le dichiarazioni a orologeria sono sempre sospette, poiché possono essere pilotate per colpire qualcuno al momento opportuno e in questo momento di dossieraggi selvaggi tutto è possibile. Ci sarà un giudice a Berlino chiamato a verificare le affermazioni del pentito e cercare riscontri a quello che appare un racconto fantasioso. Un esercizio inutile e dispendioso poiché in ogni caso il reato sarebbe abbondantemente prescritto, ma necessario a difesa dell’onorabilità dell’accusato.
La logica sembra quella del motto maoista fatto proprio dalle Brigate Rosse: “colpirne uno per educarne cento”. Chiunque frappone ostacoli sa che può pagarne le conseguenze e il solo timore di una possibile ritorsione nella forma più inaspettata ha la funzione calmante del bromuro nel latte delle reclute.
Oltre che colluso il giudice è anche sfigato, perché il presunto sostegno elettorale si è risolto in un clamoroso fiasco, considerato che in quella competizione elettorale ha raccolto un misero 12,6% avvalendosi dell’appoggio del Patto per l’Italia di Mario Segni. Un risultato ben al di sotto del dato nazionale, poiché la coalizione di centro in Italia raccolse in quelle elezioni il 15.8% alla Camera e il 16.7% al Senato.
Il puro dato statistico non ha niente di clamoroso, anzi smentirebbe le affermazioni del pentito, ma è soprattutto la vita professionale e l’impegno civile di Romana De Grazia a rendere giustizia alla sua moralità. Molti sono stati i messaggi di solidarietà e gli attestati di stima.
“Il dottor De Grazia ha tutta la nostra stima e ammirazione. Quelli che oggi vogliono colpirlo farebbero bene a prendersela con noi parlamentari che la 'Legge Lazzati' abbiamo voluto e fatto approvare dalle Camere. Abbiano il coraggio di colpire noi! Troppo facile e troppo comodo colpire un magistrato in pensione che ha poche armi e pochi modi per difendersi", ha dichiarato l’on. Franco Laratta.
“Per poche persone sarei pronto a mettere la mano sul fuoco per dirittura morale, onestà e correttezza personale, e Romano De Grazia è una di queste. Per questo motivo non aspetto neanche le indubitabili smentite ufficiali dei riscontri formali, e mi schiero immediatamente al fianco di questo magistrato di cui non io, ma tutta la Calabria devono andare orgogliosi. Sono sicuro che, pur nella inevitabile amarezza, il dott. De Grazia saprà accettare con humour e serenità questa prova, che potrebbe essere frutto della mente malata di uno squilibrato in cerca di un minuto di notorietà, ma non escludo possa essere anche la ritorsione della mafia nei confronti di una persona che tanto ha fatto, sta facendo e farà ancora in futuro per combattere con fatti concreti il fenomeno mafioso”, da scritto Giovanni Pecora.
Drastica nel giudizio Angela Napoli, relatrice del provvedimento. “Si tratta di una dichiarazione resa ad arte a 17 anni di distanza perché solo ora si incomincia a prendere coscienza dell’impatto devastante che la legge Lazzati avrà sul voto di scambio. A Romano De Grazia va la nostra stima incondizionato per l’impegno profuso in tutti questi anni per combattere la ‘ndrangheta, che non può certamente essere scalfito da questo maldestro tentativo di screditare un magistrato che si è sempre distinto per la sua specchiata moralità.”
Romano De Grazia ha sporto querela per difendersi dalle accuse infamanti. Ma la stragrande maggioranza dei calabresi hanno già scolpito nel cuore la sentenza.
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