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A Cavallerizzo piantato l'albero della libertà

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno X num. 10 del 12/3/2011


Rende, 7/3/2011

Nel sesto anniversario della frana è stato consegnato il primo gruppo di case del nuovo abitato. Piantato un olmo nel centro come simbolo di rinascita e in ricordo degli eventi del 1799, in cui gli albanesi ebbero un importante ruolo

Ritrovarsi il sette marzo in un altro pianeta, lontano dalla propria storia, in un reticolo di vie ancora incompiute è una esperienza irripetibile. Come sono irripetibili le emozioni, la magia di un momento che sconvolge qualcosa dentro di te.

Cosa ci fa tutta questa gente tra queste mura linde e pinte ma ancora prive di un'anima? Sono gli abitanti di Cavallerizzo che si aggirano attoniti nelle vie di quello che sarà il loro nuovo mondo. Una realtà tutta da ricreare nelle atmosfere familiari, nel disordine organizzato delle gjitonie, dove le comari torneranno a intrecciare le trame di un racconto senza fine.

E' stato consegnata il primo lotto del nuovo paese, mentre fervono alacremente i lavori per il completamento del rimanente.

Quanta è diversa l'atmosfera oggi rispetto al cupo grigiore di sei anni fa. Una atmosfera elettrizzante illuminata da un sole accecante e sferzata dai refoli della tramontana che gelano le mani e le orecchie. Un freddo intenso che chiama la primavera. Nessuno ci fa caso immerso nella propria memoria. Nell'aria c'è un profumo di speranza. Il nuovo paese è pronto ad accogliere quella umanità dispersa che aveva lasciato la parte più recondita di sé tra le macerie delle case crollate.

Il vecchio paese sta lì, incombe in lontananza e sembra che voglia partecipare alla festa, aiutare a ricostruire il senso di appartenenza, la voglia di ritrovarsi insieme nelle occasioni liete e tristi che cadenzano la vita di una comunità.

Da lontano sembra ancora intatto, e la new town che si inaugura oggi una sorte di appendice, un prolungamento nel futuro. I pochi che non si sono ancora rassegnati ad abbandonarlo si aggrappano a quelle pietre ancora in piedi, che si sgretolano lentamente, si squarciano in crepe che si allargano di anno in anno, si contorcono a voler quasi gridare la loro rabbia per non aver saputo resistere ai colpi del destino.

Quelle case rimaste intatta da lontano sono un forte richiamo sentimentale per chi non si è ancora rassegnato ad affrontare la nuova avventura della vita, la sfiga di ricreare altrove la propria identità.

Oggi si inaugura il nuovo paese con una cerimonia spartana e toccante. Il giovane sindaco Giuseppe Rizzo, ritto in piedi in quella che sarà il centro del nuovo abitato, declama parole di augurio e speranza per la ripresa di un cammino interrotto tragicamente quella notte di sei anni fa.

Molti si sono persi per via. Una graziosa ragazza legge i nomi delle 42 persone che non hanno avuto la gioia di morire nella propria casa. Lasciano il testimone ai presenti e a tutti quelli sparsi nei paesi vicini dove hanno trascorso gli anni della diaspora. Li chiamano a raccolta per invitarli a tornare nella grande famiglia della comunità, a ricostruire le tradizioni, a ricomporre i tasselli di un mosaico sociale travolto dalla frana.

Lacrime di commozione scorrono sui volti sorridenti, finalmente liberi di sfogare l'angoscia repressa, la rabbia lungamente trattenuta. Non vi è miglior modo per onorarli che quella di farli rivivere come membri della comunità rimessa in pristino, dove rinnovare la memoria, ritrovare il sapore amaro di ricordi perduti.

Giuseppe Giunta si è speso in tutti questi anni per arrivare a questo giorno e ricordarlo con la piantagione di un virgulto di olmo, che nel breve spazio di esistenza della Repubblica Partenopea fu utilizzato come albero della libertà.

Gli arberësh costituiscono una piccola comunità che ha dato un grande contributo alla storia, ha manifestato la sua voglia di libertà e indipendenza. Si ricordano i momenti epici di questa comunità, le battaglie combattute dal Real Reggimento Macedone e dei Camiciotti, i suoi uomini più illustri, da papa Clemente XII a Francesco Crispi, presidente del Consiglio del Regno d'Italia, da Pasquale Baffa, membro dl direttorio della Repubblica Partenopea a Pasquale Scura, guardasigilli del governo dittatoriale di Garibaldi.

Se vogliamo trovare un momento fondante, una data da festeggiare come un simbolo di rinascita dobbiamo ritornare indietro nel tempo, scavare nella nostra storia, per trovare gli episodi più significati di questa voglia di riscatto che pur ha avuto numerosi occasioni di mostrarsi.

Il 1799 rappresenta una data memorabile, un anno in cui si verificarono eventi tragici e straordinari, una vera partecipazione popolare in un processo sociale che sconvolse fin dalla fondamenta le basi della monarchia napoletana.

Un intero popolo si è rivoltato contro il potere, alla ricerca della democrazia, della costituzione, ricorrendo gli ideali rivoluzionari che viaggiavano al seguito delle truppe francesi. Un intero popolo innalzò i simboli della libertà: il tricolore e l'albero della libertà. Il tricolore non era quella che conosciamo, ma il simbolo della Repubblica Partenopea: una bandiera turchese, giallo e rosso a strisce verticali. Liberté, fraternité, égalité. La fine del sistema feudale, l'inizio di una nuova era di giustizia, la proprietà della terra.

L'albero della libertà racchiudeva questa speranza e l'utopia di un mondo nuovo. Fu introdotto dai sanculotti francesi nel 1790, su imitazione della pratica molto diffusa nelle colonie britanniche di America. Un decreto del Direttorio Nazionale, il parlamento rivoluzionario, del 1792 introdusse l'obbligo di piantare un albero ogni qual volta ne morisse uno, per taglio o altra causa dando origine a quella che successivamente sarebbe diventata la festa dell'albero.

Era piantato nella Piazza principale del paese. Attorno a esso si svolgevano le cerimonie ufficiali della Repubblica, come celebrare i matrimoni, stringere accordi, stipulare contratti e tutte le altre cerimonie solenni in occasioni della nascita e della morte. Era il simbolo della conquistata libertà, un piccolo seme destinato a diventare un albero imponente. L'idea fu esportata dovunque avanzavano le armate francesi. L'albero più utilizzato in Francia era la quercia simbolo di potenza e di maestosità. In Italia si preferiva il pioppo (populus in latino), considerato l'albero del popolo.

Nella Repubblica Partenopea fu adottato l'olmo.

In quasi tutti i paesi interni della regione si piantò l'albero della libertà per testimoniare l'istituzione della repubblica. Si utilizzava però, sbrigativamente, un palo decorato con un nastro tricolore – il tricolore della Repubblica Partenopea rosso, giallo e turchese, e con un cappello frigio, simbolo della rivoluzione francese, sulla cima, poiché non si voleva aspettare la crescita dell'alberello per celebrare le cerimonie. Un rituale seguito da molte località dove veniva proclamata la repubblica.

Tutti gli albanesi del circondario si riunirono a San Marco Argentano, dove furono piantati due alberi della libertà, uno davanti alla Chiesa di San Marco Evangelista e l'altro davanti alla Chiesa di S. Giovanni Battista. Il primo atto del nuovo “governo” fu l'immediata abolizione della feudalità e dei suoi diritti e abusi, tra grida, tumulti e danze che si protrassero per diversi giorni.

Secondo Maria Teresa Lio si creò un clima di terrore dei proprietari e feudatari, accusando gli albanesi non solo di saccheggiare in nome della libertà i palazzi dei baroni, ma anche quelle dei lavoratori che si trovavano in campagna a lavorare.

Gaetano Cingari fornisce un quadro alquanto dettagliato degli avvenimenti. Secondo il suo racconto, l'albero della libertà fu piantato, nei paesi albanesi vicini a Montalto: a San Martino, a Cerzeto, a Mongrassano, a Cavallerizzo, a S. Giacomo ecc., dove il moto rivoluzionario fu molto più serio che in tutto il resto della Calabria. Tutti questi paesi non solo resistettero al passaggio delle truppe realiste dopo la caduta di Cosenza in mano delle avanguardie di Ruffo, ma ripresero subito dopo la loro azione, ripiantando l'albero della libertà e costringendo il preside di Cosenza a mandare una spedizione per costringerli all'obbedienza.

Non si trattò dell'azione di pochi esaltati, ma nei citati paesi albanesi il moto repubblicano fu sostenuto dal basso popolo. Ancora dopo molti mesi dal ristabilimento dl governo borbonico, Cerzeto e i paesi circostanti erano battuti da una schiera di rei di stato, capeggiati dal prete albanese D. Ercole Mayerà e da un suo nipote.

Nella “Cronistoria di San Marco Argentano”, Salvatore Cristofaro afferma che in questi paesi la repubblica resistette tredici mesi, un vero miracolo se si pensa che essa durò non più di sei mesi in tutto il resto del Regno: fu proclamata il 23 gennaio del 1799 e dichiarata decaduta il 13 giugno. Scrive, infatti Cristofaro. “I democratici, anche nei piccoli centri come S. Marco, venivano esaltati dalla presenza dei giacobini che dovunque spadroneggiavano: tredici mesi di Repubblica furono tredici mesi di gulloria invereconda, quell'aura di libertà produceva sedizione, non rivoluzione. La rivoluzione è l'idea e l'aspirazione di una epoca e quell'epoca nei nostri luoghi non era matura a potere esprimere idee che non aveva. Mentre da un lato si profittava del nome di Repubblica per cessare ogni obbedienza e ad usare il potere in vendette, prepotenze, indebite appropriazioni ed invidie, onde a scopo di far sparire i titoli, censi dovuti alle Chiese, bruciaronsi, e fu cosa nefasta, gli archivi della Cattedrale, prezioso tesoro di documenti della città e chiesa di S. Marco.

Questo fu possibile grazie al contributo delle logge massoniche, che si radicarono saldamente in Cerzeto, dove nel corso del Settecento si era andata formando una borghesia agraria, le famiglie Mayerà, Franzese, Messinetti, Petrassi. Divenne uno dei centri di aggregazione della lotta antiborbonica che culminò nella rivolta del 1844. Un ruolo fondamentale ebbe Pasquale Baffa, membro del governo rivoluzionario e uno dei fondatori della loggia massonica insieme ad Antonio Jerocades.

Tutta la Calabria partecipò a quei tragici eventi, dividendosi tra giacobini e sanfedisti, che si fronteggiarono violentemente. Pasquale Baffi, Giuseppe Logoteta e Vincenzo De Filippis ebbero un importante ruolo nel Direttorio della Repubblica. Il primo era un arbëresh di Santa Sofia d'Epiro, considerato il miglior grecista di Europa. Finirono tutti e tre sulla forca, ma il loro esempio e le loro idee rimasero. Scrive Clodomiro Perrone: “il miglior aiuto che ebbe il governo rivoluzionario circa l'esercito furono le due legioni Sacra e Calabria, perché valorosissime e di niun costo. La Sacra fu formata con quasi tutti gli studenti di medicina degli Incurabili; la Legione Calabra, poi, ordinata per cura di Pasquale Salerno di Castrovillari, è degna di stare a lato della famosa legione tebana, componevasi di circa 2.000 giovani calabresi all'incirca, rifuggiti a Napoli dopo che la Santafede devastò la loro patria. Avrà una bandiera nera con motto in lettere tricolore “vincere, vendicare, morire”.

La Legione Calabra sostenne un cruentissimo scontro con il Reggimento Real Macedone, costituito da albanesi lealisti al servizio di Ferdinando IV.

La repubblica finì in un bagno di sangue e le migliori menti meridionali furono massacrate. Non si ebbero molti cambiamenti concreti poiché l'esperimento durò pochi mesi minacciata da tutte le parti. Fu soprattutto una fucina di idee: la predisposizione della carta costituzionale che conteneva tanti elementi di novità e sarebbe ancora oggi una utile fonte per riformare l'assetto istituzionale e costituzionale dello stato; l'abolizione della feudalità che non poté essere attuata, ma fu un germe che produsse qualche anno dopo all'approvazione della legge di eversione della feudalità da parte di Gioacchino Murat. Si introdusse il divorzio, e proprio a Napoli si ebbe la prima concreta applicazione in Italia.

La rivoluzione del 1799 coinvolge le migliori menti, intellettuali e poeti, economisti e scrittori e costituisce un punto rottura tra il vecchio mondo feudale e l'inizio dell'era moderna nel Sud.

L’olmo che si è voluto piantare nel giorno della ricostruzione vuole ricordare che questa comunità ha un passato da difendere e un futuro da ricostruire.

L'olmo è un albero forte e longevo, che si salda con il terreno, si erge possente con la sua chioma maestosa. Bisogna sapere aspettare con pazienza la lenta penetrazione nella terra delle radici e la formazione del suo manto arboreo, che regala riparo e frescura. Possente e longevo si salda con la terra. Rappresenta la forza, che riesce a trasmettere ai bambini che dormono su un materasso riempito con le sue foglie. Nel rituale magico è capace di allontanare la confusione, dà la forza di affrontare le situazioni difficili nei momenti di incertezza e di dubbio, aiutando gli indecisi a prendere decisioni difficili. Con questo gesto simbolico, il sindaco e tutta l'amministrazione comunale hanno voluto oggi ricordare uno dei momenti più esaltanti vissuti da queste piccole comunità, quella partecipazione corale alla rivoluzione del 1799 che le ha viste protagoniste. L'augurio è che la comunità che si sta ricomponendo possa crescere e irrobustirsi come questo piccolo albero.


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