La disfida di Pontida

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno X num. 26 del 2/07/2011


Rende, 30/6/2011

L'adunata di cui non si ricorda più nessuno

Da Pontida ci hanno fatto i soliti "maroni", ci è toccato sentirne di tutti i colori, e intanto il Mezzogiorno nell'agenda del Governo non esiste. C'è un Sud abbandonato a se stesso, proprio quel Sud che costituisce il più grande serbatoio di voti della coalizione di maggioranza.

«Per me... la corazzata Kotiomkin ... È una cagata pazzesca!» Il grido di rivolta di Ugo Fantozzi costretto ad assistere all’ennesima proiezione del famoso film di Ejzenštejn “ La corazzata Potëmkin” risuona ancora e ritorna alla memoria ogni qual volta si annuncia un alito di rivolta nella società. La lunga marcia del cittadino medio è iniziata con la svolta referendaria. La rivolta fantozziana è stata accompagnata da un applauso liberatorio di novantadue minuti!

È passata solo una settimana del raduno verde di Pontida, di cui non si ricorda più nessuno per il quale l’adagio fantozziano è fin troppo benevolo. Per anni siamo stati costretti a subire improbabili sceneggiate kitsch in una cornice pseudo culturale costruito su una storia e una mitologia del tutto inventata. La grande adunata ha inizio annualmente con le ampolle riempite d’acqua a Pian del Re, dove ha origine il Po, sotto un grande masso posto ai piedi del Monviso. Il grande fiume dovrebbe costituire il collante della nazione padana. Dei due nomi con i quali è conosciuto (Po ed Eridano), il primo ha una origine latina su base indoeuropea, il secondo è di origine greca. Dei celti nemmeno l’ombra, salvo qualche improbabile ipotesi costruita per una “storia che non c’è” e non è mai esistita. Come si dirà Po nella lingua celta? Il “cerchio magico” – il clan del potere leghista riunito attorno al boss padano - non ha mai voluto svelare il segreto mantenuto più strettamente dei misteri eleusini. Si racconta che tra di loro usino la lingua sacra dei druidi, incomprensibile ai comuni mortali; e anche a loro stessi per la verità, ma fanno finta di non accorgersene annuendo con portamento dottorale alle fini argomentazioni dottrinarie. A sprazzi s’intuisce qualche parola come federalismo, meridionali coglioni, napoletani sporchi, immigrati da accogliere con il cannone, guardie padane, l’ordine della canottiera … Come loro sono sacerdoti del movimento e maghi che hanno stregato un intero paese con le loro castronerie vendute come merce rara nel mercato della politica. Chi è che si è permesso di dire che qualcuno ha fottuto un intero paese? Già era l’ebdomadario comunista Economist che si riferiva non ricordo a chi. Mannaggia la memoria! Certamente si riferiva a un altro unto, un santone, un guru che ci ha stregato per un ventennio. (La soluzione alla prossima puntata).

Ancora più esilarante è la pretesa di voler trasformare i guerrieri celti in baldi e valorosi soldati medievali che combattono per la libertà contro il Barbarossa. Un salto di circa un millennio, in un contesto completamente diverso che nulla ha a che fare con i celti e la loro storia.

Il prato di Pontida era coperto da una folla urlante tra uno svolazzo di bandiere verdi riunitisi per ascoltare il verbo del capo supremo che si accompagnava a una trota per non perdere l’ispirazione e il filo di un grande discorso biascicato, mormorato, rotta da pause e silenzi di riflessione, a tratti incomprensibile, accompagnato da eloquenti gesti osceni e condito con un turpiloquio sempre più greve e volgare. Le uniche parti comprensibili. La folla continuava a urlare “secessione, secessione!”. Ahi! Che mal d’orecchi per la nomenklatura leghista! Lasciare le poltrone e svuotare i portafogli delle prebende di Roma ladrona! I leghisti non rubano, beninteso. Pretendono il giusto. Si tratta di espropri padani. Un risarcimento per il sacrificio imposto ai lombardi e dintorni per sostenere i fannulloni dei meridionali. Si arrangino da soli, questi bastardi puzzolenti. I napoletani possono mangiarsi la loro stessa spazzatura così risolvono questo annoso problema e la smettono di fare le vittime.

“Grande capo, eh!” Il ministro Roberto Maroni si avvicina premuroso al suo padrone. Una pacca sulle spalle per rassicurarlo nel momento di una pausa imbarazzante, quando lo smalto del grande condottiero appare appannato, lo sguardo assente. Un gesto compassionevole, come si usa ai vecchi per consolarli della perdita di memoria, per dargli un po’ di conforto e rassicurarli. Una scena patetica. Ricorda le ultime apparizioni di Brežnev sulla Piazza Rossa, carico di titoli e decorazioni, sostenuto in piedi per mostrarlo alla folla. Un puro simbolo per assicurare la continuità del potere, in attesa di trovare nuovi equilibri.

Una fine fantozziana per il duo delle meraviglie che vede sbriciolarsi lentamente i presupposti sui quali hanno costruito la loro favola. Entrambi si trovano a dover affrontare la fine di un ciclo, la perdita della capacità di fascinazione che ha consentito loro di alimentare sogni e promesse mirabolanti, di rappresentare una realtà alterata.

Perché occuparsi allora di questa cagata pazzesca? A essi abbiamo affidato il nostro futuro, e la fine dell’era berlusconiana si preannuncia carica d’incognite. Soprattutto per il Sud, che costituisce il più formidabile serbatoio di voti della coalizione di governo. Con una piccola differenza. La Lega si preoccupa e cura gli interessi del Nord, anche inventandosi delle cagate. Il Pdl anche. Il Sud non ha alcuna rappresentazione concreta, non ha una classe politica che sia in grado di portare le sue istanze a livello nazionale. Non ha una classe imprenditoriale che sia in grado di portarla sui mercati internazionali per superare la crisi.

La questione diventa addirittura drammatica se, volgendo lo sguardo sull’altra riva, è evidente che neanche la possibile alternativa esprime una opzione meridionalista. Il Mezzogiorno è semplicemente assente dall’agenda politica e nessuno ha il coraggio, il carisma o l’auctoritas di imporre i suoi bisogni e le sue esigenze. L’unica questione è quella settentrionale e dei suoi mal di pancia. In un momento di crisi è normale che vi sia una certa sofferenza nella parte più industrializzata del paese. Loro piangono per una industria in crisi, che faticosamente sta riprendendo il suo cammino. Al Sud lamentiamo uno sviluppo che non abbiamo mai avuto, poiché gli investimenti nel sud sono stati sempre sacrificati alle esigenze, sempre considerate prioritarie, del Settentrione. Senza voler ricordare la favola dell’intervento straordinario, che storicamente non è riuscito neanche a colmare il divario di quanto “ordinariamente” veniva destinato al Nord. Una rete idrica al Nord, è un investimento ordinario, al Sud diventa un miracolo. Abbiamo avuto bisogno di inventare la Cassa per il Mezzogiorno per costruire le fogne e gli acquedotti al Sud.

La vicenda della manovra sono un esempio paradigmatico della considerazione in cui questo governo tiene il Sud.

Non vi è un solo rigo dedicato al Mezzogiorno, che appare nei mirabolanti messaggi televisivi con fantomatici piani, e scompare nella concretezza dei provvedimenti. Le parole sono tante, i fatti nulli poiché predomina lo spirito di Pontida e della sceneggiata leghista, l’egoismo territoriale fa leva su una equa ed equilibrata distribuzione delle risorse.

Poche sono le voci che si preoccupano di valutare gli effetti dei provvedimenti proposti dal governo, con l’ottica di un cittadino elettore del Sud, cedendo spesso alla demagogia degli enunciati. I nostri rappresentanti si dimostrano incapaci di difendere la propria terra. Vengono subito zittiti dai loro colleghi del Nord. Non si tratta certo di una disattenzione, ma di una precisa scelta politica. La secessione dovrebbe pretenderla il Sud, per riequilibrare finalmente il peso di scelte territorialmente sbilanciate, in cui al Sud sono destinati gli avanzi della crapula.

Prendiamo il caso eclatante della riforma fiscale. Tutti la cercano, tutti la vogliono e sono favorevoli alla riduzione del carico fiscale. In effetti, solo un pazzo potrebbe augurarsi un ulteriore inasprimento delle imposte, per cui è un gioco facile trovare la quasi unanimità su un principio. Tuttavia, il problema va considerato in rapporto agli effetti che si producono in termini comparativi. Il risultato della politica economica degli ultimi lustri ha prodotto un significativo spostamento di ricchezza dal reddito fisso al popolo delle partite IVA, dai redditi più bassi a quelli più elevati con un drammatico allargamento delle sperequazioni sociali, e delle diseguaglianze territoriali. In termini più chiari l’evoluzione economico-sociale del paese si può riassumere in pochi concetti. I poveri sono diventati più poveri. I ricchi hanno aumentato a dismisura il loro potere d’acquisto. La classe media ha visto falcidiati i propri redditi e le capacità di consumo e risparmio. I salari si sono appiattati e il differenziale con dirigenti e manager ha assunto valori non più tollerabili. A questo bisogna aggiungere gli effetti distorsivi sul territorio. Il Sud ha visto un peggioramento molto significativo, con un allargamento della forbice di sviluppo, una divaricazione della ricchezza e dei redditi. A tutto questo si risponde con una proposta indecente come quello dell’ulteriore riduzione della progressività fiscale. Un provvedimento che acuisce la divaricazione sociale, approfondisce le differenze, aumenta il grado d’iniquità del sistema. Ogni centesimo di diminuzione delle tasse deve essere destinato ai redditi più bassi, alle famiglie. Sarebbe opportuna l’introduzione di un’aliquota più elevata per i redditi superiori a centocinquantamila euro, l’elevamento degli scaglioni di reddito, ma soprattutto lo splitting, che significa dividere il reddito delle famiglie per il numero dei componenti ai fini della determinazione delle aliquote da applicare. Un provvedimento che avrebbe un effetto immediato sulle famiglie monoreddito e su quelle numerose. Un investimento per il futuro, se si considera che l’attuale sistema scoraggia in tutti i modi la formazione delle famiglie. Eravamo un popolo “proletario”, nel senso letterale della parola. Non avevano né arte né parte, ma una grande capacità riproduttiva – la prole: producevano braccia per l’industria. Oggi non abbiamo neanche quello, stiamo diventando un popolo sterile, incapace di generare il proprio futuro. Nel mondo degli anni Cinquanta la Francia era il paese con il tasso di natalità più basso e una prospettiva di un inesorabile declino demografico: l’hanno salvata gli immigrati, ma soprattutto la politica a favore delle famiglie.

Famiglie e Mezzogiorno sono i grandi assenti nella manovra del governo. E la voglia di un rinvio elettorale delle scelte più impopolari per riuscire ad arrivare alla fine della legislatura. Meraviglia che non vi sia nessuno a sinistra abbia voglia di dire qualcosa di sinistra, di denunciare l’imbroglio, di evidenziare il carattere classiste delle scelte governative.

Eppure è il territorio che presenta le opportunità più ghiotte, dalle potenzialità inespresse. Nessuno parla in questo momento di una politica mediterranea, un’area in subbuglio, dinamica, dove sono sorti movimenti di cui non si sospettava l’esistenza. La Tunisia, l’Egitto, la Libia. Ma cos’è successo e perché? Non è un paradosso che nessuno ha avuto un benché minimo sentore di quanto andava maturando in quell’area? Abbiamo università vetuste e famose, come Palermo e Napoli, o nuove e aggressive come il Core di Enna o l’Unical. Viviamo porta a porta con i vicini africani e non risulta che vi siano stati studi o ricerche sul comportamento di quelle società, sulle aspirazioni dei giovani, la rivoluzione dei nuovi media. Abbiamo costruito la nostra politica nei confronti del Nord Africana sulla paura dell’integralismo, e la necessità di servirsi di improbabili dittatori per garantire la nostra libertà, negandola agli altri.

L’Unical sarebbe dovuto diventare il centro culturale del Mediterraneo, aprirsi alle classi dirigenti magrebine, attrarre gli studiosi islamici. Si è ridotta a una università di provincia, con una presenza risibile di studenti stranieri e nessuna capacità di auscultare i territori circostanti.

Non vi è traccia di una politica alta, con una programmazione a lungo termine e ad ampio respiro, ma difettiamo anche nella costruzione di una politica più concreta, d’immediata difesa territoriale. A fronte del raduno di Pontida, non siamo stati capaci di rispondere con la disfida di Barletta, la riscoperta dell’orgoglio meridionale.

I movimenti meridionali, come l’MPA confinato nella Sicilia lombardiana, Ulixes ristretto alla dimensione catanzarese o l’Assud che stenta a trovare una collocazione politica, restano a uno stato larvale, un bozzolo che non riesce a schiudersi impedito dai vincoli nepotistici, clientelari e dalle ragnatele della grande criminalità che impedisce libertà di movimento.

Le consultazioni elettorali di mid-term hanno dato un segnale inequivocabile di stanchezza dell’elettorato, una sonora bocciatura politica del berlusconismo. È già successo un’altra volta, nella prima governo di legislatura del Cavaliere, che si era bruciato di fronte all’opinione pubblica acculando un divario nei sondaggi elettorali che sembrava incolmabile, sperperato con scelte scellerate che hanno disperso quel patrimonio di consenso attorno a una ipotesi di rinnovamento.

Ancora una volta si sono create le premesse per un cambiamento radicale e chiudere il capitolo dello sciovinismo berlusconiano. S’intravedono movimenti occulti per dare nuova vita a un cavaliere decotto. Non si tratta solo di Scilipoti e dei responsabili.

Il pericolo maggiore è costituito dagli irresponsabili che approfittano del vento favorevole per circoscrivere il proprio orticello, incuranti dell’interesse generale. Capi e capetti che ieri hanno fatto cadere Prodi e si preparano a qualche altro scellerato agguato per un ridare il paese nelle mani del tycoon.


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