L'ipocrisia del certificato antimafiadi Oreste Parise Mezzoeuro Anno X num. 39 del 1/10/2011 |
Rende, 30/9/2011
Chiesta l'abolizione, anzi no!
Sembrava che finalmente ci fossimo liberati da uno strumento inutile e dannoso per l'economia meridionale. C'è stato un immediato contrordine. Saremo condannati a vivere nei prossimi anni in un regime speciale, mentre i giovani scappano
Il ministro Brunetta conduce memorabili battaglie per abbattere il muro della burocrazia che frappone ostacoli fastidiosi alla vita quotidiana. Spesso si concludono con vittorie di Pirro e sono vanificate da dichiarazioni che eufemisticamente si possono definire inopportune. Questa volta però l'aveva azzeccata la sua proposta. Peccato che l'abbia subito sporcata con una rapida marcia indietro, sorpreso lui stesso da tanta temerarietà. Ciascuno di noi al bar può sparare parole al vento, tanto non nuocciono né creano aspettative. Si dovrebbe credere che le proposte di un Ministro dovrebbe avere un fondo di maggiore consistenza, uno dossier conoscitivo, una riflessione approfondita e anche una condivisione da parte dei suoi colleghi di governo per non creare confusione e rapide marce indietro.
La proposta di abolizione della caterva di documenti richiesti per la partecipazione a concorsi pubblici, agli appalti e alla gara era una proposta seria che certamente aveva il gradimento della stragrande maggioranza dei cittadini. Compreso il certificato antimafia.
È sicuramente incomprensibile costringere migliaia di persone che vogliono sostenere un esame per tre posti di spazzino a Napoli, a riempire un furgone di documenti, sapendo bene che solo una decina entreranno nella graduatoria finale e solo tre saranno assunti. Toccherà a loro presentare la documentazione di quanto dichiarato nella domanda di partecipazione, pena la decadenza dell'incarico. Ne guadagnano tutti, gli uffici, i partecipanti, la posta e lo stesso ente che bandisce il concorso che non si vede costretto a dedicare una stanza dell'archivio per conservare sine die tutta questa enorme pila di carte inutili. Chi ci rimette è solo lo Stato che tra bolli e bollicine impone una tassa occulta a carico di coloro che rincorrono il miraggio di una occupazione fissa: “nine out of ten” rimarranno delusi, ma avranno però speso un bel po' di denaro nella disperata rincorsa di un sogno.
Di fronte al certificato antimafia, però, c'è stata una rivolta generale, a cominciare dal Ministro degli Interni, Roberto Maroni che lo ha subito dichiarato “indispensabile”. «La certificazione antimafia non può essere modificata perché è uno strumento indispensabile per combattere la criminalità organizzata e, in particolare, per contrastare le infiltrazioni malavitose negli appalti pubblici», ha tuonato con tono grave e fazzoletto verde nel taschino.
Peccato che lo stesso Brunetta abbia fatto un passo indietro. «Il certificato antimafia è indispensabile, ma è indispensabile che a procurarselo siano le pubbliche amministrazioni al loro interno, senza più vessare imprese e cittadini», ha replicato.
Chiunque osa mettere in dubbio l'efficacia delle misure straordinarie per combattere la criminalità organizzata viene subito messo all'indice perché mette in discussione un impianto normativo che costituisce un imponente paravento dietro al quale si nascondono carriere ed interessi.
Alcune utili letture sarebbero illuminanti, come il famoso articolo di Leonardo Sciascia sui professionisti dell'antimafia, o meglio ancora il primo capitolo dei Promessi Sposi. Manzoni non aveva certo un intento polemico nei confronti del Ministro Maroni, considerato che è morto prima che il secondo nascesse.
La vera rivoluzione è poter vivere in un Paese normale, dove ciascuno è un cittadino consapevole che svolge con professionalità e competenza il proprio compito, nel rispetto delle leggi dello Stato.
Ma possiamo pensare di vivere in un Paese normale quando il Ministro degli Interni che dovrebbe rappresentare tutti e ha prestato giuramento, toccata la Carta secondo la solenne formula dei notai antichi, e poi esibisce un simbolo di uno pseudo-stato che vorrebbe far nascere dalla disgregazione dello Stato che rappresenta? Possiamo pensare di vivere in un Paese normale se lo Stato ci chiama a trasformarci in sceriffi per combattere una guerra alla criminalità che non è in grado di sostenere?
Possiamo pensare di vivere in un Paese normale quando un criminale noto e conosciuto può sfilare in mercedes tra la folla plaudente tra un'ala di carabinieri in alta uniforme?
Possiamo pensare di vivere in un Paese normale quando siamo chiamati individualmente ad additare alle forze dell'ordine i criminali, controllarne la fedina penale, individuare le operazioni sospette e ritrovarsi l'indomani a prendere il caffè gomito a gomito con l'accusato che ti guarda con aria insolente tra l'ironico e il minaccioso?
Ecco cosa scrive il Manzoni dopo l'incontro tra Don Abbondio e i bravi per spiegare il suo stato d'animo. “La forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti … “
Rispetto a quei tempi la situazione è addirittura peggiorata, poiché oggi il cittadino non solo non ha protezione contro i soprusi, ma la legge obbliga coloro che operano nella pubblica amministrazione, nelle banche per le segnalazioni, a combattere la criminalità disarmati e inermi di fronte alla violenza e alla minaccia.
Si arriva all'assurdo dell'autocertificazione antimafia, una attestazione da parte di chi ha al sua attivo qualche centinaio di delitti, e dovrebbe preoccuparsi di una dichiarazione mendace. Ma questo è ormai un caso limite. La legge ignora completamente la realtà, l'evoluzione della stessa criminalità che non è più costituita da killer spietati, ma ha tra i suoi accoliti insospettabili colletti bianchi dalla fedina penale pulita, magari laureati alla Bocconi. Chi dovrebbe scoprirne la vera natura e con quali strumenti? È certamente compito delle forze dell'ordine organizzazione che dispongono di personale e mezzi per effettuare le indagini e valutare se debba esercitare o meno una data attività. Fino a quando si è di fronte a un cittadino che gode di tutti i diritti, regolarmente iscritto negli appositi albi, registri o elenchi perché deve spettare al direttore di banca o al funzionario responsabile di un procedimento individuare la natura criminale delle operazioni? L'aspetto paradossale diventa una patente di intoccabilità, poiché viene esibito dai veri criminali come una dimostrazione della loro invulnerabilità di fronte alla legge. Meglio consentire a un criminale di esercitare liberamente una attività fino a quando non viene individuato e scoperto, piuttosto che lavarsi le mani come Ponzio Pilato e nascondersi dietro un puro espediente burocratico. Quanti criminali sono stati individuati e scoperti grazie al certificato antimafia? Nessuno. Erano noti prima e sono noti dopo alle forze dell'ordine. Se non può essere legalmente impedito di operare, perché chiedere un atto di eroismo a un cittadino qualsiasi?
Vivere in un Paese normale significa che ognuno deve svolgere la propria parte, e ai “bravi” non deve essere consentito di di poter mettere in atto le loro minacce e compiere atti intimidatori. Don Abbondio non era nato con un cuor di leone ma in un paese normale avrebbe avuto la possibilità di adempiere il suo ministero senza sottostare alle minacce dei bravi, sotto la protezione dello Stato.
Da troppo tempo il Sud vive in una condizione di anormalità, nell'assenza dello Stato, che non riesce a garantire i diritti fondamentali dell'individuo, quale la sicurezza. Per questo non c'è bisogno di grida sempre più severe e rigorose, ma di una presenza dello Stato, di una efficienza della Pubblica amministrazione che non perda tempo a rincorrere inutili certificati, ma si dedichi ai bisogni dei cittadini, all'organizzazione dei servizi pubblici.
Con in certificati antimafia e la legislazione speciale abbiamo creato un vuoto e costretto migliaia di giovani a fuggire dal Mezzogiorno. È sufficiente una superficiale lettura dell'ultimo rapporto Svimez per rendersi conto di quanto è profondo il malessere dei giovani, prigionieri di un teorema che vuole il Sud completamente in mano alla criminalità organizzata. Una fuga individuale si sta trasformando in un esodo biblico. Non c'è pericolo di uno spopolamento, ma il Mezzogiorno rivivrà i fasti dell'emirato di Sicilia o di Amantea.
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