La brigantessa Ciccilla

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno X num. 46 del 19/11/2011


Rende, 17/11/2011


Peppino Curcio, Ciccilla. La Storia della brigantessa Maria Oliverio del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva, Longo Editore, Cosenza 2010


Ancora un altro libro sull'unità d'Italia? Mai come nella ricorrenza del 150 anniversario vi è stata una fioritura di saggi, romanzi, riflessioni sull'argomento. Questo riflette un desiderio insoddisfatto e inappagato di conoscere il proprio passato, che ancora dopo tanto tempo presenta numerose e vistose lacune.

CiccillaNonostante tutto non abbiamo ancora una conoscenza obiettiva di quello che è realmente accaduto in quel ormai lontano 1861.

Qui si narra una storia che ha origine con l'epopea garibaldina con il cumulo di aspettative speranze che aveva suscitato. Se si ritorna a quei giorni si può immaginare che in pochi tra il popolo avevano percepito quello che stava avvenendo. Garibaldi e il suo esercito non hanno dovuto combattere per conquistare la Calabria, le si è consegnata spontaneamente autorità , esercito, contadini. Il generale e le sue camicie rosse l'hanno solo attraversata senza fermarsi e lungo il cammino molti correvano a rinforzare i volontari, formando un esercito spontaneo che si aggregava per entusiasmo e aspettative di cambiamento, nell'ingenua pretesa di un mondo migliore, più equo.

In quei giorni convulsi molte carceri erano state aperti e i prigionieri avevano approfittato della confusione per unirsi ai garibaldini o ritornare tra i boschi per correre la campagna.

La sosta a Rogliano era obbligata perché non si poteva attraversarla in un giorno la lunga e montuosa regione. Una sosta, un comizio, un editto. Grande entusiasmo, grande disperazione. La percezione di un tradimento. Una esplosione di gioia, una repressione feroce e l'esplodere di una violenza sanguinaria: al di fuori della legge i briganti, al di sopra della legge i gendarmi, che combattevano i rivoltosi con l'arbitrio e la prepotenza del potere. Non era ancora trascorso un mese dal passaggio di Garibaldi e già scorazzava nelle montagna la truppe di Pietro Fumel, il maggiore scelto personalmente da Cavour regalandogli un codice con la preghiera di leggerlo e tenerlo in conto nella sua azione. Non ne ebbe né il tempo né la voglia, poiché non voleva intralci.

I nostri “eroi” sono giovani, ancora ventenne Ciccilla, solo qualche anno in più Pietro Monaco, ma già avvezzi ad affrontare le asperità di una vita di stenti e di miseria, sottoposti alle angherie e ai soprusi dei baroni. La feudalità era stata abolita cinquant'anni prima dai francesi, dal biondo Murat, ma ingiustizie e soprusi continuavano senza sosta.

Una storia emblematica quella dei due coniugi che ancora oggi accende la fantasia popolare, poiché la loro memoria è rimasta indelebile nell'epopea popolare. All'atto dell'Unità non erano briganti, non avevano problemi con la giustizia, ma sicuramente erano delle anime inquiete, costretti a vivere in un epoca drammatica quando ogni errore si trasformava in una tragedia.

Pietro Monaco si unisce ai garibaldini per essere poi rimandato a casa senza alcun benservito e richiamato alle armi dopo qualche mese per la coscrizione obbligatoria subito introdotta dai piemontesi.

Vulimu a Garibaldi però senza la leva,
e s'iddu fa la leva, cangiuamu la bannera.

Così recitava un canzone popolare dell'epoca riflettendo la profonda avversione popolare per un atto d'imperio imposto dal nuovo governo, che non trovava riscontro nelle prassi e nella legislazione borbonica. Pietro Monaco era stato soldato sotto i Borboni per arruolamento volontario, poiché costituiva uno dei pochi mezzi per tentare una elevazione sociale. Anni lunghi e difficili, che gli avevano consentito di aprire una finestra sul mondo, di entrare in contatto con le nuove correnti d'idee, gli aveva consentito di entrare in contatto con la nuova intellighenzia che si andava formando nella capitale del Regno.

La coscrizione no, non poteva sopportarla. Trova nell'antica pratica di scorrere la campagna una via di fuga, diventa renitente alla leva: un fuorilegge, un bandito. In mezzo ai boschi lo raggiunge sua moglie, al giovane, bella e affascinante Ciccilla, che nel frattempo aveva consumata la sua vendetta lavando nel sangue il tradimento: più di cinquanta colpi di accetta per punire sua sorella che aveva intrecciato una tresca con suo marito.

Vi sono vari elementi emblematici in questa storia:

•l'impatto brutale di una legislazione del tutto estranea al sentire popolare senza alcun periodo transitorio per consentire di metabolizzare le nuove norme;

•la delusione di aver combattuto inutilmente, essendo stati rifiutati nel contribuire alla costruzione della nuova società con lo scioglimento dell'esercito garibaldino e poi costretti a subire le ingiunzioni di un nuovo potere lontano e distante;

•la disperazione della condizione giovanile che non vede altri sbocchi che il rifiuto della società: il correr la campagna diventa un atto di protesta sociale, un estremo tentativo di conquistare una dignità, quando tutti tentano di calpestarla;

•il disagio della condizione femminile.

Cosa vuol dire essere donna in una società ancora feudale qual'è la Calabria all'atto dell'unità? Sembrano lontano i tempi, ma ancora nel 1810, lo Winspeare annotava che tra i diritti feudali vi era ancora lo jus foeminarum. Nel feudo di Romagnano in Principato Citra v'è stato l'esercizio del jus foeminarum, il diritto del signore del feudo di godere a suo piacimento delle donne, che poteva essere “riscattato” con il pagamento di una somma di denaro. A volte si trattava dello jus primae noctis, come nel caso del comune di Castiglione in Otranto. Il barone esigeva una somma “a sponso quolibet asses quinquaginta si prima nuptiarum nocte in Castilione cum sponsa sua non commoratus fuerit”. In altri casi, il diritto era assoluto e valeva in qualsiasi momento. Nel comune di Russano, ad esempio, nell'inventario dei diritti di un feudo di legge: “Possiede ancora la baronal camera suddetta il jus del vassallaggio detto della cunnatica, per il quale è solito il barone esigere da ciascheduno de' vassalli casato, e con moglie vivente annui carlini quattro, o che siano stati casati, o che in atto abitano in detta Terra, e dalla vedove annui carlini due, e tenendo ciascheduna di queste il figlio maschio, paga detti due carlini l'anno fintanto che detto suo figlio giunge alla maggiore età, da qual tempo in avanti non è più tenuta la madre ad un tal pagamento, ma devesi quello fare dal detto suo figlio, siccome pagavasi da suo padre.” Per chi non aveva soldi da pagarsi la dignità e l'onore non restare che mettersi a disposizione del suo padrone. Si ripete nei secoli il mito del Minotauro al quale doveva essere sacrificata ogni anno una vergine.

Questo provocava violenze e ferocie inaudite, come il caso di Galeazzo di Tarsia, feudatario di Belmonte, che si rese colpevole di insulti, violentie et homicidi nei confronti della popolazione del suo feudo e di Amantea. “Ebbe cuore aspro e feroce. È sempre presente dove si tratta di infierire e di ferire il diritto della gente umile, semplice, da sempre in ginocchio”, come scrive Pasquino Crupi in un cenno biografico posto.

“Sesto barone di Belmonte, esercitò la sua autorità con prepotenza, tanto che, a causa delle violenze e dei soprusi verso i sudditi di Belmonte e di Amantea, nel 1547 fu processato alla Corte della Vicaria, condannato alla perdita delle prerogative feudali e, dopo un periodo di detenzione a Castel Capuano, confinato a Lipari dove rimase per lo meno fino al 1551. Mentre era in prigione, morì la moglie Camilla Carafa. Graziato dal Viceré Don Pedro de Toledo, nel 1553 Galeazzo di Tarsia partecipò a una spedizione contro Siena”, si legge in Wikipedia.

Dopo il suo ritorno continuò la sua triste e turpe opera, poiché amava soprattutto esercitare lo jus foeminarum e per questo su ferocemente assassinato. Ricordato come fine poeta, nella vita fu un essere spregevole ed odiato.

Nella società semifeudale di fine Ottocento le donne non avevano alcun diritto. Solo le nobildonne avevano un'anima. Tutte le altre era un semplice oggetto di piacere a disposizione del padrone, una preda di guerra come era avvenuto sempre nel corso di millenni. Lo ricordava Omero. Per Elena si combatte una guerra. Ma la schiava Criseide era a disposizione del capo supremo Agamennone che per consegnarla al padre, il sacerdote Crise, pretende Briseide, la schiava di Achille anch'essa bottino di guerra. Questo baratto sul corpo delle donne provoca la funesta ira d'Achille.

Non è cambiato molto nell'Ottocento. Basta leggere le gesta della armata sanfedista che dovunque passa ha diritto al bottino e allo stupro. La stessa brutalità omerica usano i francesi di François Mahès nel reprimere il brigantaggio: una lotta spietata, crudele, con saccheggi ed incendi di interi paesi, violenze e stupri per ingenerare il terrore e costringerli alla rese, alla delazione dei propri congiunti. I Piemontesi hanno scelto quel modello che nella mente delle popolazioni meridionali e calabresi in particolare incuteva ancora terrore. “Atterrite quelle popolazioni”, era il motto che animava i militari venuti per combattere la vasta rivolta sociale subito bollata come brigantaggio.

“Il brigantaggio non è un volgare istinto del male, ma il prodotto di una natura forte e rigogliosa, la quale, diretta al bene, potrebbe essere capace di grandi azioni”, scriveva Nicola Misasi. Vennero trattati come bruti. Cesare Lombroso cerco nei calabresi la dimostrazione scientifica dell’esistenza della razza criminale, i cui caratteri potevano essere studiati e descritti. Con il brigante Giuseppe Villella iniziò le misurazioni antropometriche che dovevano dimostrare la sua teoria e trovare la formula genetica di identificazione del delinquente.

Ciccilla opera in questo scenario, una giovanissima donna che lotta per un destino disperato, senza futuro, ma con la forza di voler dimostrare a sé stessa la possibilità di potersi riscattare con l'impavidità e il coraggio, combattendo accanto il proprio uomo. È consapevole che in una società sessista sarebbe condannata al ludibrio e alla vergogna, come tutte le donne rimaste sole. L'unica sua risorsa è di stare accanto al marito.

Il libro ricostruisce nei dettagli la vicenda umana dei due presentando una grande mole di documentazione inedita che mette in luce il particolare scenario della tragedia.

Pietro Monaco muore tradito dai suoi. Ciccilla gli fa tagliare e bruciare la testa, per evitare che venga esibita come trofeo nel rito barbarico dei soldati di Pietro Fumel e impedire alla Guardia Nazionale di poter riscuotere il premio che veniva elargito a chiunque spedisse a Torino una testa di brigante. Catturata subito dopo, viene condannata alla pena di morte, che il Re Vittorio Emanuele tramuta in carcere a vita nel lager di Fenestrelle.

Nessuno sai cosa è stato di lei in quel terribile carcere posta ai piedi delle Alpi, in un freddo glaciale lontana dai suoi e dalla sua terra. In tanti vi furono deportati in quella orribile prigione e ne hanno assaggiato il rigore, ma vi è una scarsa documentazione su di esso. Nessuno ha mai raccontato la vita all’interno poiché non si conoscono nomi di prigionieri che siano usciti vivi da quell’inferno. La sopravvivenza non superava qualche mese tra stenti e torture. Meglio una morte subitanea che un supplizio lento e atroce.

La sconfitta del brigantaggio è la sconfitta della speranza e si conclude con l’emigrazione in massa oltre oceano. “Ieri il contadino, che si sentiva esuberante di vita e di forza, pigliava il bosco e pagava con la vita il diritto di viver bene, perocché divenir brigante per lui, povero, volea dire divenir ricco, per lui, vilipeso, divenir stimato e temuto: lo schiavo si mutava in padrone, il suddito in re, il bue si mutava in toro; oggi il contadino non piglia più il bosco, ma vende il suo poveretto ed emigra per lontani paesi, ove spesso muore di nostalgia, quando non muore di fame”, concludeva amaramente Nicola Misasi.

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