Il decennale dell’euro: celebrazione o funerale?

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno X num. 49 del 10/12/2011


Rende, 7/12/2011


Il 1° gennaio 2002 entrò in circolazione la nuova moneta

La moneta europea è un malato grave attorno al quale si affannano i medici finanziari del vecchio continente per accompagnarlo verso una morte assistita. E se si trattasse di una crisi di crescenza? Il rilancio della politica potrebbe dare nuovo vigore a una utopia che non ha ancora perso il suo fascino.


L’associazione culturale Xenia ha organizzato una manifestazione per la celebrazione del decennale dell’euro. Una occasione per qualche riflessione su uno strumento che appare sempre in bilico tra l’invenzione geniale e un clamoroso errore politico.

E’ certo che vi sia bisogno di una celebrazione ma alquanto dubbio che debba trattarsi di una festa per celebrarne i fasti o della predisposizione delle esequie per un funerale annunciato.

Intanto, parlare di decennale è improprio. Abbisogna almeno di qualche precisazione. Dal sito ufficiale della BCE, si legge, infatti, che essa è “la banca centrale responsabile della moneta unica europea, l’euro. Il suo compito principale consiste nel preservarne il potere di acquisto, mantenendo così la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro. Quest’ultima comprende i 17 paesi dell’Unione europea che hanno introdotto la moneta unica a partire dal 1999”.

Il 1º gennaio 1999 è il giorno della nascita ufficiale della moneta unica europea poiché da allora è stato fissato il tasso di conversione tra le monete dei paesi aderenti all’unione monetaria e l’euro e la nuova moneta cominciò ad essere usata come moneta in tutte le transazioni finanziarie che non richiedevano una traslazione fisica di biglietti e monete (bonifici, transazioni borsistiche, transazioni elettroniche, titoli di credito) che, in valore, costituiscono la quota più significative delle transazioni finanziarie. Nella vita quotidiana si continui ad utilizzare le monete nazionali, che costituivano una espressione della moneta unica ad essa legata da un rapporto di conversione non decimale. La situazione si può paragonare alla lingua cinese che usa un linguaggio scritto uniforme basato sui logogrammi, mentre ciascuno continua a parlare nella propria lingua.

Il primo gennaio del 2001 è il giorno d’inizio del “change-over”, l’introduzione materiale dei nuovi biglietti e monete e il ritiro dalla circolazione dei biglietti e delle monete nazionali.

Nei primi tre anni non vi fu alcun effetto misurabile nella struttura dei prezzi e non si registrò alcun fenomeno di sconvolgimento del sistema dei valori. Furono istituiti dei comitati provinciali per dare la necessaria assistenza agli operatori, controllare la fasi di introduzione dell’euro e fornire le delucidazione che si rendevano necessarie per evitare movimenti speculativi.

Il change-over avvenne in un clima completamente diverso. I comitati provinciali furono smantellati, l’esposizione del doppio prezzo fu limitata a qualche mese, non furono effettuati controlli di alcun genere lasciando agli operatori piena libertà di definire i prezzi nella nuova moneta affidandosi al loro senso di responsabilità. Alla fine l’operazione provocò uno stravolgimento della struttura dei prezzi, con un colossale trasferimento di risorse dai percettori di reddito fisso al popolo delle partite IVA, che approfittarono della ghiotta occasione per aumentare i prezzi di vendita fino al doppio e oltre, utilizzando un rapporto di conversione lira/euro di 1000 in luogo di 1936,27 come previsto e stabilito ufficialmente.

Ad essere messo sotto accusa fu proprio il tasso di conversione e la sua quantificazione: una polemica di natura prettamente politica poiché metteva sotto accusa chi aveva condotto le trattative ed accettato quel valore.

Vi è da osservare che il tasso di conversione non fu deciso per legge, ma fu il risultato di un procedimento tecnico introdotto con il trattato di Maastricht del 1992 che imponeva una griglia di oscillazione delle monete che intendevano far parte della Unione Monetaria sempre più stretta fino al valore finale alla data del 31 dicembre 1998 quando sarebbe diventato irrevocabile. Il percorso prevedeva, quindi, la trasformazione del serpente monetario ECU (European Currency Unit) in un “boa costrictor”. E’ sul mercato dei cambi che si è combattuto la battaglia per le parità, e oggi più che mai appare chiara la difficoltà di addomesticarli e ridurli al proprio volere.

Ma sarebbe stato possibile immaginare un sistema diverso? Quale avrebbe dovuto essere il cambio “ideale”? Il punto di forza dell’Italia nel secondo dopoguerra era costituito dalla flessibilità del cambio che consentiva periodiche svalutazioni dette “competitive”, poiché rendevano più economiche le merci italiane all’estero e consentivano quindi un rilancio delle esportazioni. La lira debole aiutava le imprese, ma alimentava un processo inflazionistico il cui peso ricadeva sui lavoratori e pensionati.

Il dilemma era allora che un euro a mille lire si sarebbe risolto in un grande vantaggio per i possessori di patrimoni immobiliari, di risparmio e percettori di reddito fisso, mentre un euro a tremila lire sarebbe stato un forte fattore di rilancio dell’economia: l’ultima importante svalutazione competitiva. Questa seconda ipotesi era fortemente osteggiata dagli altri paesi europei, che temevano la perdita di competitività, per cui sarebbe stato più facile provocare artificiosamente una rivalutazione della lira piuttosto che il contrario. Una soluzione assolutamente non gradita dal sistema imprenditoriale italiano.

Un aspetto sottovalutato è l’effetto territoriale, la divaricazione che si è prodotta tra le due Italie. Il Sud è terra di risparmi e patrimoni immobiliari, il Nord è imprenditoria e finanza. Il change-over è stata una vera e propria rapina, l’ennesima, ai danni del Mezzogiorno.

L’altra occasione che merita una citazione, in particolare in quest’anno dedicato al 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è l’unificazione monetaria della penisola. All’atto dell’unità, il deficit complessivo di tutti gli stati era di 468 milioni di cui 434 erano del Piemonte, Lombardia e Emilia 14 della Toscana e 28 della Sicilia, mentre il Regno di Napoli mostrava un avanzo di 9 milioni. Il 24 agosto 1862 si procedette all’unificazione monetaria e la lira divenne l’unica moneta del nuovo stato, che si addosso anche il debito pubblico, il cui rimborso fu addossato all’intero paese. Per affrontare il costo dell’unificazione si attua la politica di deficit spending, tanto che nel 1866 su necessario imporre il corso forzoso. Il tesoro napoletano, il risparmio dei grandi proprietari terrieri del Mezzogiorno si trasformò in cartelle di debito pubblico irredimibile.

Per la seconda volta nella sua storia unitaria il Mezzogiorno ha pagato il prezzo più elevato per un aggancio con la modernità, l’Italia prima e l’Europa dopo. Questo sarebbe stato accettabile se in cambio avesse ottenuto una politica di sostegno per un ammodernamento e di rilancio economico, ma in entrambe le circostanze si è semplicemente tradotto in programmi e progetti in gran parte non realizzati. Non manca chi s’interroga se per il Sud non sarebbe stato preferibile mantenere la sua competitività nei confronti dei mercati emergenti piuttosto che sforzarsi di raggiungere il livello di produttività della Germania e del Nord Europa, una sfida persa in partenza. Oggi tutto questo appare anacronistico poiché un ritorno indietro sarebbe una ulteriore beffa per il Mezzogiorno e per i paesi del Mediterraneo, come la Grecia e la Spagna, che non sono nelle condizioni di poter riguadagnare il terreno perduto. Per dirla con una colorita espressione calabrese, si troverebbero “cu culu ruttu e senza cirasi”.

Per il sistema Italia l’ingresso nell’Unione Monetaria è stata la più importante e imponente manovra strutturale mai realizzata, poiché ha consentito una spettacolare riduzione del servizio del debito pubblico, vale a dire ha permesso una riduzione del monte interessi pagati dallo stato per un ammontare annuo prossimo agli 80-100 miliardi di euro. L’allarme spread è costituito dalla possibilità che il vantaggio acquisito venga d’un tratto annullato per effetto della speculazione di mercato.

Ma cos’è l’euro oggi? Secondo il Forex, essa è oggi la valuta oltre che nei diciassette paesi dell’Unione monetaria, anche di altri 5 stati europei. E’ utilizzata giornalmente da più di 327 milioni di persone e in miliardi di transazioni finanziarie in tutto il pianeta. Inoltre, l'euro è “la seconda riserva mondiale e la seconda valuta maggiormente scambiata nel mondo dopo il dollaro USA. Ci sono più di 570 miliardi di € in circolazione, questo valore supera quello dei dollari USA”.

Bastano questi dati a confermare la correttezza di una intuizione. Come era negli auspici dei padri fondatori, si è realmente creata un’aria monetaria e un diretto concorrente del dollaro come moneta internazionale.

La crisi attuale ha evidenziato i difetti di origine, che si possono ridurre all’assenza di politica, di una classe politica che sia all’altezza o nelle condizioni di prendere le necessarie decisioni per il governo effettivo della vasta area monetaria che si è creata. A dispetto di tutte le Cassandre e i Tiresia, l’euro non può morire perché è funzionale alle esigenze di paesi come la Germania e la Francia che rischierebbero di essere entrambe travolte dall’onda speculativa.

I primordi della costruzione dell’unificazione economica europea, tempi che oggi appaiono mitici con le sperimentazioni della CEE ed Euratom, hanno fatto registrare momenti di tensione e di crisi giunti al limite della rottura. La risposta è stata sempre quella di un rilancio politico dell’alleanza con la scoperta di sempre nuove frontiere di integrazione ed è questa la strada da perseguire ancora oggi.

Il modello europeo è scosso dalle fondamenta da questa crisi, ma non sono venute meno le ragioni dell’unità, poiché questa più che una crisi monetaria è una crisi politica dell’unione per l’assenza di uomini in grado di guardare avanti e proporre audaci progetti di rilancio delle ragioni dell’unione.

L’illusione che sarebbe stata sufficiente una istituzione, per quanto prestigiosa ed autorevole come la Banca Centrale Europea, a consentire il governo dell’Unione Monetaria è venuta a cadere. Un euro forte necessita di una Europa forte, in grado di contrapporre la sua politica e la capacità di intervento agli attacchi della speculazione. Nessun paese da solo è in grado di arginare questi gnomi della finanza nascosti nel sottobosco del mondo bancario e finanziario internazionale.

E’ stato un macroscopico errore quello di consentire e favorire la formazione di banche gigantesche che operano al di fuori e al di sopra del controllo di qualsiasi organo istituzionale. La stessa procedura di concertazione messa a punto dagli istituti di Vigilanza dei principali paesi industrializzati che ha dato origine agli accordi di Basilea (1e 2 già introdotti e la terza versione entrati nella fase di transizione) sfugge al controllo di un’autorità pubblica. Secondo calcoli approssimati ma che trovano largo consenso, la ricchezza finanziaria mondiale è otto volte più grande della ricchezza reale, gran parte della quale è nelle mani di pochi speculatori, in grado di mettere in crisi qualsiasi istituto bancario o finanziario. Questa è una distorsione inaccettabile che va corrette con disposizioni severe e il ritorno all’economia reale.

La mancata neutralizzazione dei paradisi fiscali ha prodotto l’insorgere di operatori finanziari con risorse illimitate, i cui patrimoni sono di provenienza quanto meno sospetta di natura criminale o illegale.

La stessa importanza attribuita a degli operatori privati, come sono le società di rating, non è ulteriormente giustificabile. Intanto, il loro è spesso un giudizio prettamente politico e quindi moto opinabile. Ma soprattutto, non sono state in grado di prevedere, avvertire o denunciare nessuno delle crisi che hanno colpito i grandi fallimenti internazionali, come a Lehman Brothers, la Parmalat e i tanti altri fallimenti miliardari che si sono succeduti negli anni. L’Unione Europea dovrebbe immediatamente assumere un ruolo attivo con l’istituzione di una Authority pubblica in grado di monitore e controllare le grandi banche, le multinazionali e gli stati.

Le politiche di rigore ispirate alla scuola di Chicago, hanno prodotto disastri in tutto il mondo, poiché provocano recessioni profonde e la distruzione del “welfare”, che è degenerato in un indebitamento senza limiti proprio per l’assenza di controllo.

Il vincolo di zero budgeting imposto agli stati nazionali deve essere compensato da politiche espansive dell’UE finanziate con l’emissione di eurobond. Il rigore crea stabilità e contenimento dell’inflazione, ma della stabilità nessuno saprà che farsene quando saremo tutti morti.

Il vero nodo è però costituito dalla capacità di governo della quantità di moneta da immettere sui mercati. Il fondo salva stati o istituti simili hanno il loro limite nella determinatezza dell’ammontare delle somme a disposizione della banca centrale e questo genera attacchi speculativi. Le limitate capacità di intervento della BCE possono illudere gli operatori di poter controllare e pilotare i prezzi de titoli e il livello degli scambi.

La Goldman Sachs sostiene che vi sono tre condizioni che possono salvare l’euro: la sistemazione dei bilanci nazionali, il patto paneuropeo di convergenza fiscale e l’intervento della Bce. Il punto fondamentale è che la BCE non deve essere limitata e condizionata nella sua possibilità di intervento, ma deve agire come un vero ente sovrano adottando qualsiasi provvedimento ritenga idoneo a stroncare la speculazione. L’esempio della Svizzera è illuminante. Riesce a battere la speculazione con la minaccia di aumentare "ad libitum" la circolazione monetaria del franco riducendo in polvere i vantaggi degli operatori. La minaccia è un formidabile deterrente per la creazione di una liquidità eccessiva poiché i detentori di franchi svizzeri sono terrorizzati dall’idea di poter rimanere con un pugno di mosche in mano.

L’unico sistema per calmierare e governare i mercati è dargli la certezza che in caso di necessità si può intervenire senza limiti per poter spegnere qualsiasi incendio. L’horror infiniti, l’idea che la BCE possa servirsi di questa eventualità terrorizza la Germania, per le possibili ricadute inflazionistiche. Intanto, però sarebbe un formidabile freno alla speculazione. E poi non è la mannaia a uccidere ma il boia che la usa. Nelle mani di un boscaiolo è solo uno strumento di lavoro. E’ evidente che a sorvegliare la moneta comune devono essere chiamati i migliori economisti europei.


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