Donne di Calabria: martiri, matrone e brigantessedi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XI num. 10 del 9/03/2012 |
Rende, 5/03/2012
La Calabria e le donne
Una terra che non ha memoria delle sue donne, che le nasconde per difenderle dagli oltraggi che hanno dovuto subire nei secoli da padri, mariti e baroni.
Non è facile trovare donne calabresi che abbiano lasciato un segno significativo nella storia. Se si prendono i due volumi dell’Accattatis, ad esempio, vi appaiono centinaia di biografie, nomi illustri come Telesio e Campanella, e personaggi noti a quei tempi (sul finire dell'Ottocento, quando scrisse il suo libro), ma oggi dimenticati. Non vi compare però alcun nome coniugato al femminile. Nè miglior sorte si ottiene dalle numerose altre raccolte biografiche sugli uomini illustri del Regno del Sud redatte nei secoli precedenti. Non vi è nella nostra storia nessuna Cornelia, la matrona romana madre dei Gracchi, né figure assimilabili all'eroina francese Giovanna d'Arco.
Questa cancellazione dell'universo femminile, non significa affatto che il ruolo della donna calabrese sia stato secondario o abbia avuto una funzione puramente riproduttiva. Dietro la facciata di una società disperatamente maschilista si nascondevano figure di donne forti, volitive che hanno giocato ruoli importanti e impresso una forte impronta nella società.
Per tale motivo quando qualcuna di loro esce dal cono d’ombra del proprio uomo, della propria famiglia riceve una attenzione che si può ben considerare esagerata. Com’è il caso di Maria Oliverio, meglio nota come Ciccilla, l’unica brigantessa che abbia assunto un ruolo preponderante nella banda del marito Pietro Monaco. Il suo carisma nasce dal coraggio dimostrato nel difendere il suo onore e il proprio uomo uccidendo “a gacciate” la sorella, amante di suo marito. Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità si è scritto molto su di lei e gli sono stati dedicati convegni e dibattiti. L'aspetto conturbante della vicenda non è solo la sua torbida vicenda personale, la vita avventurosa, gli intrighi e gli intrecci con la politica nel primo momento posto-unitario. Affascina la sua giovane età, essendo nel fiore degli anni, il suo essere donna nell'aspetto e mascolina nel carattere.
L'ultimo convegno in ordine di tempo è stato l'incontro con Peppino Curcio, autore del libro Ciccilla edito da Pellegrino, nel saloncino dell'Associazione Le Muse d'Arte, nel quale sono intervenuti Tonino Verre e Fausto Cozzetto, professore di storia moderna all'Unical. Il tragico racconto della vita della brigantessa ha fornito lo spunto per dare un senso alla tragica vicenda del brigantaggio meridionale subito dopo l'Unità e delineare l'evoluzione della figura femminile. Questo secolo e mezzo ha visto grandi cambiamenti, ma tuttora la donna è affetta da una condizione di minorità evidenziata dalla difficoltà di far esplodere tutte le sue potenzialità. Il bassissimo tasso di occupazione femminile testimonia che la società utilizza marginalmente il loro contributo, che potrebbe risultare determinante per indurre una accelerazione dello sviluppo e della crescita civile e democratica.
Abbondano, però, nel passato le vergini e le sante, emblema di una lotta per la conquista di una coscienza individuale, che necessariamente passa per l'appropriazione della propria sessualità.
La storia di Santa Venerina è particolarmente significativa al riguardo, costretta a combattere una impari lotta contro i Don Rodrigo e il drago che vogliono scipparle l'anima. Non si sa se la ricostruzione della sua storia sia frutto di pura fantasia o si basa su una solida documentazione. Quello che appare è che è ricostruita da Padre Giovanni Fiore con una lividezza e una morbosa attenzione sui particolari più macabri. Si può sopportare tutto da una donna, tranne che voglia avere un completo controllo del proprio corpo, che costituisce un oggetto di desiderio, un mezzo di riproduzione, un simbolo della sottomissione. Il martirio per la donna è prima di tutto una distruzione della sua sessualità. Il racconto di Padre Giovanni da Cropani, un predicatore cappuccino che raccoglie gli exempla da rappresentare dal pulpito nelle sue prediche, che si riporta sotto, è di una truculenza da far impallidire un film horror.
A questa di contrappone la figura di Aurora Sanseverina-Gaetani, una donna aristocratica celebrata per la sua erudizione, del tutto eccezionale in mondo che vuole la donna docile e ignorante poiché come nutrice ha un compito “naturale” che deve svolgere seguendo il suo istinto “animale”.
La dolce figura di Aurora è celebrata perché si erge su tale stereotipo, ed è sopportabile perchè rappresenta un modello non raggiungibile, una figura onirica in grado di infervorare la fantasia, di costituire il soggetto di un sogno riservata a una ristretta aristocrazia.
Avrà realmente scritto qualcosa? Copioso è l'elenco delle sue opere, di cui però non c'è traccia nelle biblioteche.
(tratto da “Della Calabria Illustrata, opera varia istorica del R. P. Giovanni Fiore predicatore cappuccino di Cropani”, 1691)
Vivevano in santo matrimonio nella città di Locri, oggidì Gierace due Santi conjugi, Agatone, e Polita, Romani per origine e Francesi per nascita; onde fu l’errore di credere Venera lor figliola, or Francese, or Romana. Questi adunque lo spazio d’anni 35 vissuti senza prole, e perciò sovvente supplicandone il Cielo, furono finalmente essauditi, e Polita diede alla luce una figliuolina, la quale perché nacque in giorno ch’era Venerdì Santo, le fu posto il nome di Venera, interpretato da alcuni in Parasceve, e da altri in Veneranda; ma il più volgare, e più frequente il primiero di Venera. Cresciuta la nobile fanciulla all’età, ed applicata alle lettere, conforme al costume dell’altre giovinette Locresi, divenne famosa nella Scrittura, che ben potea publicamente, ed interpretarla, e predicarla al popolo. Ministero esercitato da lei nella Patria, e nel Paese all’intorno dall’anno trenta al quaranta di sua vita. Divenuta, intanto, e più matura all’età, e più acconcia alle fatiche, e più ardente nell’essercizio apostolico, uscì fuori di Provincia, in Campagna, e nel rimanente dell’Italia, e scorse fin’ in Francia, tratta forse dall’amore della sua antica origine. Quivi in una Città esercitando l’evangelico impiego, dichiarando la nuova Religione del Crocefisso, ed anatematizando la vecchia del gentilesimo, un tal’Antonino, che v’era Tiranno, se la fe’ condurre d’avanti, sperando di rubarla a Cristo; ma l’infelice rimase preda del suo amore. L’essortò dunque, che lasciate quelle fatiche solo di gente malnata, volessero insieme abbandonarsi alle lascivie, ed al buon tempo. Inorridì la Vergine alla temerità de’ consigli; onde divenuta tutta fuoco di zelo, con maschio ardire lo sgridò, lo minacciò, e sarebbe stato poco il farlo in pezzi. Sdegnato perciò il Tiranno, e cambiate le buone nelle triste, l’amore in furore, commandò che fosse posta a tormenti, che le fosse posta in capo una celada di ferro infocato, che fosse conficcata con grossi chiodi in un legno, che le fosser legate le mammelle; e che dal capo al pie’ fosse crudelmente flagellata. Né perciò contenta la fierezza del barbaro commandò che posto le fosse su del ventre un gran sasso affine che crepi di mezzo. Afflitta da tanta martirj la Santa supplicò d’ajuto il Cielo, il quale non sordo alle sue preghiere, mandò visibile un Angiolo, e la soccorse.
Soccorse la Santa. Ma fe’ un grande acquisto alla Fede, convertendo alla sua legge una moltitudine di Circostanti, a’ quali perché non manchi l’acqua per il battesimo, oprò il secondo miracolo, facendo scendere su di quelli una rugiadosa nuvola, qual poi si sciolse in pioggia; così restando battezzati li novelli Cristiani, de’ quali l’infuriato Giudice ordinò sanguinosa tagliata, forse per ribattezzarli nel proprio sangue. Risoluto il Barbaro d’uccider la Santa, ed in lei la Cristiana Fede, la fe’ porre dentro una caldaja di pece, ed olio bollente, ov’ella entrata vi continuò senza lesioni per sette giorni, a capo de’ quali andato in persona il Tiranno per vedere quella meraviglia, tosto che la Santa se’l vide da presso, preso in mano di quella mistura glie la spruzzò in faccia, e l’acciecò. Felice cecità! Poiché gli partorì il lume dell’intelletto, e della Fede; mentre veggendosi l’infelice così cieco alzò le grida, che s’ella gli restituirebbe la vista, egli si renderebbe veggente nella luce del Vangelo. Accettato il partito, Antonino segnato dalla Santa con la Croce, ed applicato a’ suoi occhi un loto, fatto di terra, e sputo, ricuperò la luce degli occhi della fronte, quale penetrando agli altri della mente, il rese doppiamente veggente. Tratta perciò la Santa dal tormento, venne licenziata, che predicasse ovunque volesse la Croce del Salvatore. Quindi ella oltre più scorrendo s’incontrò con un altro Tiranno per nome Timeo: questi infuriato per la nuova Religione, che Venera andava disseminando nel suo dominio, le propose, o che abbandoni il Crocefisso, o che s’apparecchi alla morte, data a divorare ad un poco distante, ma fierissimo Dragone. Si rise la Santa, e disse, che nulla temeva, perché averebbe avuto dalla sua per liberarla l’Angiolo del Signore. Or su, risolse Timeo, quando tu scamperai dalla bestia, io mi renderò Cristiano. Se ne contentò Venera, e condotta al Dragone, tosto, che se’l vide venire arrabbiato addosso, elle vibrandogli contro il sagro segno della Croce, l’arrestò, l’uccise; onde e Timeo, e quel suo popolo resi Cristiani, col sagro Battesimo, si sottrassero al doppio veleno, e temporale del Dragone ucciso, ed eterno del Dragone infernale. Intenta Venera a nuovi acquisti, oltre passando in quei Regni, venne ove signoreggiava Asceplio, o Asclepiade per detto del Baronio, se non più tosto Tarasio, giusto il sentono altri, se non forse un solo, ed il medesimo per Asclepio il nome, Tarasio di cognome. Dispiaceva a quel Tiranno la predicazione della Santa; onde la minacciò, che più non publicasse quella Fede, qual’era in odio del gentilesimo; in altro caso le recarebbe quanto più fosse possibile ignominiosa la morte. Ma la Santa nulla stimando li suoi ordini, qual’erano contro la sovranità del Cielo, e perciò continuando la predicazione, venne posta ad ardere dentro una caldaja di pece, e di resina con altre misture; ma tanto mancò, ch’ella mancasse, o nelle parole, predicando Cristo, o nella vita, cessando di più vivere, che anzi rese tutta allegra, prese a cantar Inni, e Salmi al suo Signore. Il Tiranno ostinato di volerla morta, per estinguere in lei la vita della Fede, commandò che le fosse troncò il capo, come fu il 28 luglio del 163. Ma se vivendo fe’ tanti acquisti al Cielo, non fe’ di meno morendo acciò la morte si corrispondesse con la vita.
Prima di esser decapitata supplicò il Cielo, che soccorra quelli avessero supplicato il suo nome, ed essendole con voce sensibile risposto col si, fu cagione, che di una gran moltitudine concorsa a quello spettacolo, novecento e diece si convertissero a Cristo. Il suo corpo tenuto nascosto molti mesi, da un Cristiano per nome Autimo, lo sepellì con molta pompa il marzo seguente. Operò in vita, ed opera dopo morte fin a questi giorni molti miracoli, de’ quali fe’ catalogo singolarmente Simone dello Spirito Santo. La sua festa variamente si celebra; poiché altri la sollennizzano il giorno di Venerdì Santo per memoria della sua nascita; altri il 28 luglio, giorno della sua morte; ed altri il 14 marzo, quando il suo corpo venne dato alla sepoltura.
(in “Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata de' loro rispettivi ritratti compilata da diversi letterati nazionali”, Vol. 2 Napoli MDCCCXIV (1814), Presso Nicola Gervasi calcografo, Strada Gigante, n. 23)
Aurora Sanseverina-Gaetani in Saponara feudo di sua famiglia nella Calabria Citeriore ebbe i natali nel 1669. D. Carlo principe di Bisignano, conte di Chiaromonte e della Saponara fu il padre di lei, e la madre D. Maria Fardella principessa di Pacecco di nobilissima famiglia Trapanese.
Indole non ordinaria ed indizj di sublime intendimento scorsero essi nella loro figliuola sin da' più teneri anni. Posero quindi ogni lor cura ed ogni sollecitudine adoperarono, onde allevarla conformemente all'alto suo grado, e coltivare in lei sì felici disposizioni. Con la guida di ottimi precettori apprender le fecero da prima le lettere latine con ogni accuratezza. Maravigliosamente elle in sì fatto studio riuscì, e per sua particolare esercitazione molti capilavori dettati in quella lingua immortale volse ella nella propria. S'inoltrò quindi nello studio delle filosofiche facoltà, nelle quali acume d'intelletto e sottigliezza d'ingegno mostrò all'età ed al sesso superiori.
Si volse poscia a quello della storia e della musica; ma il gusto di lei per la poesia prevalse sugli altri tutti. Dell'età di anni tredici prese a marito D. Girolamo Acquaviva conte di Conversano, del quale rimase vedova indi a poco. Dopo tale avvenimento in Palermo fu dal padre condotta, là dove spiccò non meno per la sua bellezza e per le sue grazie, che per le doti dello spirito e per le facoltà dell'ingegno. Tornata in Napoli si legò in seconde nozze con Niccolò Gaetani d'Aragona conte di Alife, che fu poi Duca di Laurenzana, cavaliere di tutti quei pregi fornito, che nobiltà rendon più adorna, e del quale abbiamo a stampa opere non dispregievoli di prosa e di verso.
In ogni maniera di letterarie discipline Napoli a quei tempi maravigliosamente fioriva, e valentissimi uomini non ad altro intendeano che a renderle a tutto il loro splendore. Vedeasi allora la filosofia, sgombre le nebbie scolastiche ed il peripatetico squallore, ricever nuova luce dai Cornelj, dai Capoa, dai Caropresi, e dai loro eguali la giurisprudenza, scossa la rugine forense, nel più florido stato risplendea per opera degli Andrea, de' Biscardi, degli Aulisj, degli Argento, e soprattutto del Gravina, uomo oltre di ogni altro degno d'immortal lode. Al tempo stesso l'incomparabil Vico, applicando la più sublime metafisica alle filologiche erudizioni, apriva il campo a novelle cognizioni sul corso politico delle nazioni, sulla scienza del civil governo, e sull'origine dell'universal ragione delle genti. Né gli studj dell'eloquenza e della poesia si rimanevano a dietro; dappoichè, sbandite le arguzie marinaresche e le ridicole ampollosità del seicento mercè le cure de' Severini, degli Schettini, de' Buragna, de' Pascali, valenti scrittori di verso e di prosa sorgevan fra noi, oltre quelli di sopra divisati, quale erano i Capassi, gli Amenta, i Mondo, il matematico Ariani, e tutta quella nobile schiera, che le adunanze di D. Luigi della Cerda, allora vicerè di Napoli, frequentava; mentre i Savastani ed i Giannettasj trattando le muse latine, i soavi numeri dei Pontani, degli Altilj, de' Sannazzari faceano ai nostri risovvenire.
In tempi per le lettere sì avventurosi, essendo Aurora di tante e sì nobili cognizioni fornita, cercò di formare il suo gusto prendendo a modello i nostri più grandi autori, e s'ingegnò di rappresentare nelle sue rime la robusta maniera del Casa condita della Petrarchesca soavità.
Queste leggersi possono nella raccolta dell'Acampora, ed in altre di quei tempi, nonché in quelle degli Arcadi, fra i quali fu denominata Lucinda Coritesia, sin dalla fondazione di quella famosa adunanza. Nella suddetta raccolta leggersi può un'egloga, ch'ella inviò al Crescimbeni, che n'era allora il general custode, dettata con tanta grazia, candore e semplicità di stile, che riscosse le lodi universali.
A noi basta dare un saggio del suo poetare nel sonetto seguente.
Che fai, alma, che pensi? Avrà mai pace
De' tuoi stanchi pensier l'acerba guerra,
che in dubbia lance il viver mio disserra
Tra gelo ardente e tra gelata face?
S'io miro al ben, che sì mi alletta e piace,
Dice, chi più di me felice in terra,
Ma il geloso tormento, che mi atterra
Ogni mia gioja poi turba e disface.
Così muovon fra lor fiera tempesta
Contrari venti, e il timido nocchiero
Si aggira indarno in quella parte e in questa.
Lassa e ben calco io pur dubbio sentiero,
E la speme or si affretta ed or si arresta,
E mi attrista egualmente il falso e il vero.
Ella alle grazie del volto, all'altezza dell'ingegno, la modestia e 'l decoro e la pietà accoppiava, ed un nobile contegno da amabile affabilità temperato. Presso di lei le persone di lettere frequentemente convenivano, ed ella ne ricercava fra noi ed altrove, siccome fè di molti sagri oratori, de' quali si servì per la predicazione nelle sue terre ed in altre parti. Essendo, come si è detto, assai della musica invaghita, suonava maestrevolmente, con leggiadria, e cantava, ed i professori di quella in ogni genere favoriva. Molte cantate ancora compose, le quali furono dai più rinomati maestri di quella età messi in nota. Della caccia fu vaga oltre modo, ed in Napoli vedeansi spesso giungere cinghiali coronati di alloro uccisi da questa novella Atalanta. Di lei il P. Guinizio della Compagnia di Gesù fece nel seguente epigramma una vaga dipintura.
Comis amanilitas, facilis reverentia vultus
Semper et in facili fronte modestus honor.
Eloqui gravitas, in tempore gratia linguae
Multa, joci faciles, ingenuique sales.
Ille juvandi ardor, studium sine fraude metendi,
Et sibi, quam reliquis meos nocitura prius.
Consilio devota manus, prudentia falli
Nescia, nec docilis fallere simplicitas.
Religio, pietas, rectitenor, ardor honesti
Tum loquturi pectoris ante Deum.
Avventurosa fu ella non meno per le doti dello spirito, che per gli avvenimenti di sua vita, e per la prole che ella ebbe, avendo data in isposa al suo maggior figliuolo il conte di Alife la principessa Maria Maddalena di Croix de' Duchi d'Aure. Le splendide pompe e quasi reali, onde si festeggiarono sì nobili sposalizie furono descritte in una lettera indirizzata al Signor Silvio Stampiglia in Vienna nel Dicembre del 1711, e queste medesime vennero da illustri poeti in Napoli ed altrove celebrate. Oltre di essere stata Aurora annoverata fra gli Arcadi lo fu ancora tra gli accademici spensierati di Rossano ed ascritta ad altre letterarie adunanze.
Cessò di vivere questa virtuosissima dama, celebrata dai più colti spiriti de' suoi tempi, dopo il 1730 lasciando alle nobili matrone uno splendido esempio di ogni più bel pregio ad imitare.
Andrea Mazzarella da Cerreto
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