Storie di pirati e rinnegatidi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XI num. 13 del 31/03/2012 |
Rende, 28/03/2012
Luca Galeni, un misero contadino calabrese viene rapito dai saraceni, si converte all'islamismo si riscatta dalla sua condizione di schiavitù fino a sposare la figlia del sultano e diventare Pascià di Tripoli, Algeri e Tunisi.
Nella sua vita avventurosa incontra i più famigerati pirati della sua epoca: Dragut, Cicala e Sinan Pasha ...
Ulucci Alì, Uluç Alì, Louk Alì, o il pirata Occhialì, è una figura singolare del Cinquecento. Viene rapito dal pirata Barbarossa mentre era in campagna a Licastalli, o Castelli nelle vicinanze di Crotone.
Khair ed Din, detto "il Barbarossa", era uno dei numerosi rinnegati al servizio del Sultano. Greco terrone era diventato il terrore del Mediterraneo e per il suo coraggio e la sua bravura divenne Kapudan della flotta ottomana, vale a dire ammiraglio. In tutto l'impero ottomano, dalla Turchia al nord Africa, numerosi erano i “giaurri”, cristiani rapiti e ridotti in schiavitù, costretti a vivere in condizioni spaventose in campi che emanavano un fetore insopportabile ed esposti al rischio di infezione per l'assenza di qualsiasi precauzione igienica. I turchi non insistevano molto per indurli alla conversione all'islam, poiché i “retagliati”, così chiamati dopo la circoncisione, diventavano cittadini che godevano degli stessi diritti dei sudditi musulmani e così si perdevano braccia preziose. Molti furono coloro che abbracciavano la fede islamica per liberarsi dalla loro sfortunata e spaventosa condizione e a loro fu imposto un nome islamico, rendendo difficile la loro identificazione e una valutazione della reale estensione del fenomeno.
Luca Galeni, questo sembra fosse il nome di Ulucci Alì, decise di mettersi al servizio del sultano, rinunciando completamente al suo passato, non molto diverso dalla condizione di schiavitù in cui si ritrovava. Il giogo feudale, la miseria e la totale mancanza di libertà caratterizzavano il mondo che aveva lasciato. Molti erano i calabresi “retagliati”, come Carascosa, un altro famoso pirata tanto che a Costantinopoli vi era persino un intero rione chiamato "Calabria Nuova"; vi era anche il quartiere genovese di Pera.
Il Barbarossa che lo aveva rapito era stato un ottimo maestro per lui, ne seguì le orme e lo superò: anch'egli divenne kapudan e addirittura Pashà di Tripoli, Algeri e Tunisi. Il suo protettore fu il sultano Selim II, figlio del grande Solimano e della mitica Rosellana, che sembra fosse la nobildonna Margherita Marsili rapita dal Barbarossa in Toscana, e diventata la favorita di questi. Nella corte e nell'harem del sultano erano numerosi gli “italiani” e il nostro riuscì a farsi benvolere salendo rapidamente nella considerazione della corte.
Occhialì prese parte alla battaglia di Lepanto, e fu l'unico comandante turco che non si arrese ai cristiani, ma ritornò dal sultano accompagnato dalla fama di invincibile. “Selim dopo la rotta non si sbigotì punto, e attese a difendere le marine, e sotto Uchialì havendo 160 galee, e quattro maone
e di minor legni infino a 200 vele, con li quali tre volte fu per venir a battaglia con christiani, e con diverse maniere, difese le fortezze della Morea, e non hebbe male d'importanza”, scrive Francesco Sansovino della Istoria universale dell'origine et imperio dei Turchi pubblicata a Venezia nel 1600.
La sua storia diventò una specie di leggenda e la si volle adornare dalla figura della madre, che difende la sua fede e la cristianità arrivando a rinnegare il figlio.
Il colloquio riferito dal Grossi è del tutto inventato, ed ha uno scopo didattico e un carattere didascalico, poiché della sua famiglia, della sua infanzia non si hanno notizie. Persino il nome dei suoi genitori è ignoto. La storia di Occhialì fu molto popolare nell'Ottocento; costituiva una telenovela da declinare nelle prediche e la madre un simbolo edificante da esibire negli exampla.
Anche il riferimento a Cicala è errato. Questi – Vincenzo Cicala - era un pirata genovese, grande avversario del comandante turco Dragut succeduto al Barbarossa nel comando della marina turca. Sembra sia stato catturato proprio da Occhialì nel 1560 e condotto a Tripoli con il figlio Scipione, il quale si converte all'islam cambiando il nome in Sinan Pascia, succedendo a Dragut come ammiraglio in capo della flotta turca.
Dragut fu un comandante spietato. Nel 1554, insieme a Sinan Pascià, sterminò 5000 persone a Vieste decapitandoli sulla "Chianca Amara", una roccia posta ai piedi della Cattedrale. Il 2 luglio 1555 la sua furia si abbatté su Paola, dove fece una strage depredando il Convento dei frati Minimi. (OP)
S’ignora il vero nome di costui, ed è conosciuto il solo suo cognome di Cicala. Nacque nella terra dei Castelli in Calabria Ultra, da miserabili contadini, de’ quali, pure se ne ignora il nome. Scorrendo Barbarossa pei nostri mari, e spesso infestando colle sue orde le costiere del regno, lo fe’ prigioniero, in atto che trovatasi in campagna a coglier erba. Posto alla catena e al remo, giovane di spirito e di coraggio, crede’ fare la sua fortuna dichiarandosi seguace della setta di Maometto; e prese il nome di Ulucci-Alì.
Si mise egli a servire nella milizia turca marittima, ed avendo dato controsegni indubitati di destrezza, di sagacità e di valore, giunse da grado in grado nei posti più sublimi, e in credito grandissimo. Egli diede in tutti i rincontri le prove più sicure nell’arte marinaresca, nella esperienza delle armi, nell’ardire degli assalti, e nell’artificio di espugnare. Famoso per gli saccomanni, non vi era giorno, che condotto non avesse nei porti ottomani gran numero di prede, di legni e di schiavi. Il Gran Signore Selim diede a lui il comando di una squadra marittima, e alla testa di essa continuò le sue fortunate scorrerie.
Fra i suoi fatti d’armi in mare, si conta l’attacco che ebbe nel canale di Malta ai 15 luglio 1570, con quattro galee di quella mobilissima Religione, comandate dal Generale San Clement. Dopo di un ostinato combattimento, dopo la strage di molti cavalieri, e della maggior parte degli armati, Ulucci-Alì die’ il rampaggio, le vinse, e le condusse in trionfo in Bisanzio. Riuscì molto dolorosa la perdita, anche perché eran quelle destinate per l’isola di Cipro, onde recarle ajuto nel momento che assediata da turchi, in quell’anno dovette rendersi.
Uluci-Alì continuò le sue prodezze nella impresa delle Gerbe, nell’assedio di Malta; nell’invasione dell’Africa; nel corseggiare la Dalmazia, l’Isole dell’Arcipelago, e tutte le spiagge cristiane nei reami di Sicilia e Napoli, fino allo stretto di Gibilterra. Si rese cotanto formidabile il suo nome, che in tanti rincontri i più celebri comandanti cristiani gli cedettero il campo sul mare, e si ritirano impauriti nei porti.
Intanto si armarono quasi tutte le potenze cristiane per ricuperare l’Isola di Cipro, sotto al comando del famoso D. Giovanni d’Austria, figliuolo naturale dell’Imperatore Carlo V. Guidava Ulucci-Alì il corno sinistro di novantatre galee, ed era a fronte del famoso capitano Gio. Antonio Doria. Alì Bascià, e Portaùt Bascià guidavano gli altri due corni dell’armata navale de’ turchi. Essi furono pienamente disfatti. Alì vi rimase morto, e Portaùt appena si potè salvare colla fuga- Ma il solo Ulucci-Alì con tanta arte, maestria, e giudizio seppe regolare i suoi movimenti; e seppe al bisogno, con sì feroce vigorìa, or incontrare, or resistere, ora isfuggire il furore nemico, che quel gran capitano del Doria, con tutta la sua esperienza, e con tutto il suo coraggio poco o nulla potè ottenere da quella banda.
Qui non finisce. Ulucci-Alì non contento di aver lungamente schernito il Doria, all’improvviso lanciassi con tal furore sopra la squadra delle galee di Malta, guidate dal Prior Giustiniani, che postele in confusione, non ne disperava la conquista. Soccorse però a tempo da altre molte, scansarono il pericolo, ma non potettero evitare, che in mano di Ulucci-Alì caduto non fosse lo stendardo generale della loro religione.
Con impeto somigliante urtando poi in un’altra squadra di galee venete, sì bruttamente le maltrattò, che vi morirono alla difesa di esse non meno che otto nobili Veneziani, lor capitani: fu fatto prigioniero il Capirò capitano di un’altra galea: rimase arsa quella del Soranzo: presa l’altra Buà di Corfù; ed altre dieci fatte prigioniere, e poi lasciate; e non prima si partì da quel conflitto, che conducendo seco un corpo intatto di quaranta e più legni, si ridusse salvo in Costantinopoli.
Il Doria, ed il Bassano invano si sforzarono di raggiungerlo. Il Cardona, che fattosi più da vicino volle seco lui venire al cimento, rimase non poco offeso.
Selim si rallegrò moltissimo di veder Ulucci-Alì se non vincitore, almeno non vinto. Destinò al comando delle isole dell’Arcipelago Carlo Cicala fratello di Ulucci-Alì. Diede a quest’ultimo per moglie una sua figliuola; ed in luogo del morto Alì Bascià, lo innalzò al grado di generalissimo delle sue armate. E lo fece appunto per le prove di sì valorosa e prudente condotta, mostrata in quella fiera battaglia; e tutte in lui collocò le sue speranze per l’anno avvenire. Difatti il Gran Signore temeva, che sì per la segnalata vittoria riportata dai cristiani, come per lo spavento de’ turchi, dovesse l’impero ottomano rimanere spento nell’Arcipelago. Quindi tutta la sua fiducia era riposta alla destrezza e valore del suo novello Generalissimo, che per meglio attaccarlo a sé, lo aveva reso genero suo.
Tali speranze non andarono fallite. Si fervorosa ed indefessa fu la vigilanza, e l’attività di Ulucci-Alì in Costantinopoli, e nei porti vicini, che collo sua presenza proccurò un nuovo armamento, con cui in pochi mesi si trovò sul mare con 250 legni; e prima degli stessi collegati, scorse depredando le riviere dell’isole cristiane.
Si avanzò di poi verso la Morea, ove parea doversi dalla Lega portare la forza delle sue armi, ed ove i popoli atterriti, e confusi abbandonato del tutto aveano quelle spiagge. Da Negroponte adunque si diresse in quelle vicinanze, e all’apparir delle vele, tosto i popoli stessi deposero il pallore dello spavento.
Qui, egli a fronte di tutta l’armata cristiana, con tanta saggezza e perizia seppe regolare i suoi movimenti, che tutte le speranze, da cristiani concepite, andaron fallite. Fuori di una lusinghiera apparenza, con sui si vide l’armata cristiana dominare quel mare, senza aperto contrasto, non colse altro frutto, se non quello di aver fatto, per puro caso, prigioniera una galea turca. Egli prima all’isola de’ Cerri, poi a Capo Metapane, indi a Mondone, a Navarrino, e Corone tenne a bada i Comandanti cattolici (che speravano trarlo alla battaglia) con tal’eccellenza di artificiose industrie, che solo allora si avvidero di essere stati ingannati, quando col terminarsi la stagione, non potea più quel mare essere il teatro della battaglia.
Intanto il Principe di Parma, col più scelto fiore della milizia, e nobiltà ventriera cinse di assedio Navarrino, per l’ultima pruova di qualche conquista. Quivi Ulucci-Alì si diede a conoscere non meno accorto, ed indefesso. Egli soccorse così bene quella piazza, che l’aver tentato siffatta impresa servì solamente a rendere nella storia illustre l’oscuro nome di quel luogo, e più celebre la condotta militare di Ulucci-Alì anche negli affari di guerra.
Tali operazioni resero il nostro calabrese terribile nella generale oppinione, e il suo ingegno ammirabile al confronto di tutti i guerrieri di quel tempo più grandi di Europa. Su di lui solo poggiava la sorte del grande impero ottomano. Difatti quando i cristiani credevano ricuperata Cipro, o soggiogata la Morea, o atterrati i torrioni dei Dardanelli, in danno del turco, la sagacità, il valore, e la destrezza del calabrese perder non gli fece un palmo di terra.
Giovanni d’Austria ebbe la sorte d’invadere Tunisi, e ‘l suo regno, e conquistarlo a Carlo V. Vi rimase alla difesa il gran Portocarrero. Ulucci-Alì ebbe il coraggio di riporglielo, e alle di lui forze fu troppo debole la resistenza del generale spagnuolo. Allo il Gran Signore lo dichiarò Re o sia Bei dei regni di Algieri, Tripoli, e Tunisi.
I sommi Pontefici Pio V, e Gregorio XIII, e il Re di Spagna Filippo II proccurarono con ampie offerte di ricchezze, di titoli, e di feudi di togliere un tal capitano ai turchi, e a renderlo ai cristiani. Più di ogni altro si avanzò in queste speranze Marco Antonio Colonna, allorché dopo la vittoria di Lepanto, trovandosi vicerè di Sicilia, a nome del re di Spagna, v’impegnò tutte le risorse del suo ingegno, ed era vicino a sperarlo. Ma il Cardinal de Granuela, invidioso di tal gloria del Colonna, con quale non era in buon’armonia, occultò quei trattati al Sovrano, tolse al Re Filippo tanto vantaggio, e fe’ rimanere alla Porta il suo più grande generale, che avrebbe dato alla Spagna il dominio de’ tre regni barbareschi.
Tanto dalla fedeltà di un Ministro dipende e nelle perdite, e nei guadagni l’interesse del Principe.
Per la pace poi fatta dai Veneziani col turco, rimase Ulucci-Alì per qualche tempo inoperoso; ma il suo genio attivo, intraprendente, ed irrequieto lo portava alla guerra. Fece quindi di tutto con Selim per riaccenderla. Morto costui continuò le sue insistenze presso del suo successore Amurath; ma la guerra mossa dai Persiani rese inutili i suoi maneggi.
Fra questo tempo Ulucci-Alì si ricordò della madre che meschinamente vivea avvilita nella Calabria. Si condusse in quella rada per rivederla. Fattala chiamare, le presentò ampj tesori, e superbi arredi, dicendole, che non conveniva quello stato sì misero alla madre di un Bascià de’ turchi, di un genero di Selim, e di un re di tre corone. Ma la generosa vecchia, dato un calcio a quei ricchi donativi, gli disse, che tenevasi ella nella sua povertà più ricca per la fede di Cristo, che professava, di quello ch’egli era con tutti gli erarj del turco, e lo fece arrossire. Disse pure, che lo avrebbe riconosciuto per figlio, ed avrebbe il dono accettato, qualora ritornato fosse in grembo di sua vera religione, che con tanta infamia del suo nome, del suo sangue, e della sua nazione avea rinegata. Soggiunse che quando egli non fosse figlio della fede cristiana, essa non era, non poteva, ne voleva esser sua madre. Ella mise in opera tutte le tenerezze materne per richiamarlo alla vera credenza. Ma riusciti inutili tutti i tentativi, gli voltò le spalle, e lo fe’ partire pien di vergogna: Vanne, pur disse, maledetto per sempre da Dio, e da me.
Ed ecco come lo spirito di religione vincendo l’affezione materna, e la turpe miseria potè rigettare quel figlio, che era stato a fronte di tante armate, e vincere se stessa, e le grandi offerte di lui. Ella col suo esempio insegnò, che i beni più lusinghieri di questa terra non sono agli occhi di un cristiano che oggetti vili e spregevoli, anzi abbominevoli, quando sono essi preferiti ai beni veri ed immanchevoli della vita futura: e che la povertà cristiana è quindi più gloriosa delle corone, e dei scettri mondani.
Ci rincresce di non sapersi il nome glorioso di questa eroina, la quale per la sua risoluzione illustrerebbe non solo il di lei oscuro carattere; ma la storia ancora del cristianesimo. Che ne’ fasti di Roma è celebre il nome di Veturia, che colla tenerezza materna dissarmò il braccio di Coriolano suo figliuolo, armato di vendetta contro la patria; quanto più illustre negli annali della religione ci sembra questa donna, la quale a riflesso unicamente della pietà verso Dio, sacrificò l’amor materno, e i commodi della vita; e contentossi di rimaner senza figlio, in mezzo alle più grandi miserie.
Il Remondo assicura, che Ulucci-Alì trafitto da stimuli mortali di coscienza avea qualche volta meditato di scuotere il turbante da testa: di dare a’ Cristiani il governo di Algieri, e degli altri due regni; e tornare così in seno di sua religione. Vorrà forse egli alludere al trattato del Colonna, che non fu eseguito per le manovre del Cardinal di Granuele.
Per un certo conto prudenziale può fissarsi la nascita di Ulucci-Alì circa l’anno 1535, e la sua morte che seguì in Costantinopoli verso il 1600.
Noi abbiamo creduto di esporre le avventure di questo capitano ai nostri leggitori, tanto perché si conosca, che da’ nostri luoghi anche dal ceto più vile ed ignoto sono usciti grandi Generali1 quanto per render pubblico un esempio memorando di trionfo di nostra sacrosanta religione, in persona di una vil vecchiarella oppressa dalla miseri, e dagli anni2.
(Giambattista Gennaro Grossi in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli compilata dal Sig. Martuscelli, tomo I, Napoli presso Nicola Gervasi calcografo, Strade Gigante, n. 23, 1822)
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