Leonzio Pilato e il fulminedi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XI num. 16 del 21/03/2012 |
Rende, 16/04/2012
Il miglior grecista del Trecento
Fu il primo traduttore dell'Iliade e dell'Odissea in latino, una versione in prosa attenta più alla fedeltà del testo che alla qualità letteraria e poetica. Per tre anni insegnò il greco a Firenze, fu maestro di Petrarca e Boccaccio dopo la scomparsa di Barlaam di Gerace.
Poche sono le notizie sulla vita di Leonzio Pilato, quasi tutte desunte dalle lettere che si scambiarono Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375), i quali lo ebbero entrambi come maestro di lingua e letteratura greca.
Boccaccio lo considerava “graecarum historiarum atque fabularum archivium inexhaustum”, un archivio vivente ed inesauribile delle storia e della letteratura greca. Egli era certamente più vecchio di loro di qualche anno. Di lui è nota la data di morte, tra il 1365 o il 1366, ma quella di nascita può essere solo desunta, e viene comunemente datata intorno all'inizio del secolo, poiché fu allievo di Barlaam, la cui nascita è anche incerta, ma almeno un decennio precedente intorno al 1290.
Molte sono le notizie inesatte ripetute nel corso dei secoli sulla vita e l'attività di questo grande umanista.
Giambattista Corniani, che nel 1805 scriveva la monumentale “I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento”, sostiene che “il grande crollo dell'Impero d'Oriente corrosa un tempo, e finalmente distrutto dall'invasione dell'armi Ottomane, sospinse varj svegliati ingegni Bisantini a fuggire dalle calamità, e dagl'incendj della lor patria, ed a ripararsi sotto il pacifico cielo d'Italia. … Il primo di questi illustri emigrati fu Leonzio, o Leontino Pilato”.
La stessa notizia viene ripetuta nel Dizionario biografico universale, di Francesco Predari del 1867, dove si legge che egli era “uno de' più dotti greci che nel secolo XIV, fuggendo da Costantinopoli presa da Maometto, si rifuggirono in Occidente”.
Entrambi dimenticano che Costantinopoli cade in mano ai turchi nel 1453, circa un secolo dopo la morte di Leonzio. L'errore nasce dal fatto che dopo la caduta di Costantinopoli vi fu un afflusso di studiosi, letterati, scienziati in Italia che portò a un risveglio d'interesse nei confronti del mondo classico, che diede vita all'Umanesimo. Esso era stato però preceduto nel 1300 proprio dall'attività di Barlaam e Leonzio Pilato, i quali avevano destato l'attenzione dei due maggiori uomini di lettere del loro tempo, Petrarca e Boccaccio. L'influsso di Costantinopoli non era mai cessato nell'Italia meridionale, in particolare in Calabria, dove i monaci basiliani avevano costituito dei veri e centri culturali nei loro monasteri. In questi cenacoli non operavano solo gli amanuensi nella loro indefessa opera di trascrizione dei testi classici, ma era il luogo di un frequente scambio con il mondo greco, che si era andato intensificando negli anni della lunga agonia dell'Impero bizantino. Il declino di Costantinopoli era iniziato molto prima della caduta in mano ai turchi. Il maggiore disastro subito dalla città fu proprio la conquista da parte dei crociati nel 1204, un trauma da cui non riuscì più a risollevarsi e provocò un lento ma intenso movimento migratorio di intellettuali verso l'occidente, che recarono con loro i preziosi volumi degli autori classici. L’arrivo dei turchi fu il compimento di un destino ormai segnato.
Di Leonzio Pilato, resta incerta anche la sua origine. Scrive Boccaccio: “Leo noster vere calaber, sed, ut ipse vult, Thessalus, quasi nobilius sit graecum esse quam italum: idemque tamen, ut apud nos greaecus, sic apud illos, credo, italus: quo scilicet utrebique peregrina nobilitgetur origine”. Egli stesso si dichiarava greco in Italia, e italiano in Grecia, volendo mantenere il segreto sulla sua nascita e della sua vita anteriore, poiché era sempre insoddisfatto di sé stesso, insicuro e voleva nascondere le proprie paure e frustrazione dietro il mistero delle proprie origini.
L'ipotesi più probabile, e generalmente accettata, è che fosse calabrese, come afferma il Boccaccio, poiché tracce del volgare calabrese sono rintracciabili nelle sue opere.
Non era una persona piacente né amabile. Scriveva il Corniani: “Il suo esteriore potea ributtare i più fervorosi amatori di quel dotto idioma. Egli ostentava i cenci, e la sconvenevolezza degli antichi filosofi suoi compatrioti. Il suo aspetto era deforme: la faccia ingombra di neri capelli: la barba lunga, ed incolta, il temperamento burbero, e schizzinoso. (Adspectus horridus, turpi facie, barba prolixa, et capillitio nigro … moribus incultus, nec satis urbanus homo, Boccaccio in Genealog. Deor. L.XV.VII). Egli non sapea amenizzare i discorsi né cogli ornamenti, né colla perspicuità della elocuzione latina. Ma la sua mente era doviziosa dei tesori del Greco sapere, così che venne appellato magazzino inesausto di Greca istoria, e mitologia”.
“Il suo carattere era al pari dei suoi portamenti singolare e capriccioso. Uomo discontento degli altri, e di se medesimo mostravasi sempre annojato delle cose che l'attorniavano, e la sua immaginazione vagheggiava soltanto gli oggetti lontani. Egli in Italia era un Tessalo, in Grecia un Italiano. Vivendo tra gli italiani ei dispregiava e vituperava il linguaggio, la religione, e i costumi di essi” .
“Leonzio regalò all'Italia una discreta versione in latino dell'Iliade, e dell'Odissea d'Omero, di cui si pretende, che siasi posteriormente approfittato Lorenzo Valla attribuendola a se medesimo.
I primi passi verso il sapere riescono sempre deboli, e faticosi. Non era Leonzio dotato di opportuna pazienza, onde renderli vigorosi e durevoli. Quindi i semi ch'egli qui sparse rimasero inariditi, finché a ravvivarli non giunse una migliore fortuna”, così Corniani.
Il suo spirito irrequieto e l'insoddisfazione che lo accompagnava in tutte le sue attività lo portava a frequenti viaggi da e verso Costantinopoli, senza trovare requie. Di ritorno da uno di essi fu colpito da un fulmine nell’Adriatico durante un terribile fortunale, che fece naufragare la nave sulla quale viaggiava. Egli si aggrappò all'albero maestro seguendo l'esempio di Ulisse nel naufragio tra Scilla e Cariddi, come narrato nell'Odissea, con esito del tutto diverso. L'eroe omerico si salva, mentre Leonzio diventa facile bersaglio del fulmine. “Perché la sua morte fosse singolare egualmente che la sua vita“ annotava il Corniani.
[…] la chiglia e l'albero legai, tutti e due insieme:(Odissea, canto XII, vv. 424-5, trad. di Vincenzo Di Benedetto)
La sua maggiore fatica letteraria fu la traduzione in latino dei due poemi omerici, che per la prima volta dopo secoli di oblio furono nuovamente conosciuti e apprezzati in Occidente. La prima traduzione latina dell'Odissea in versi saturni ad opera di Livio Andronico, un poeta latino del III secolo a.C., era andata perduta. L'Iliade, al contrario, non era mai stata tradotta ed era conosciuta nell'età classica per l'ampia diffusione a Roma del greco. Lo stesso Dante Alighieri, che mostrava una venerazione per il vate greco, ne conosceva le opere solo attraverso le citazioni frequenti degli autori classici e medioevali.
La traduzione dell’opera omerica fu molto criticata, poiché letterale, priva di qualità poetica e della tecnica di versificazione. Seguiva pedissequamente la tradizione medioevale che privilegiava il contenuto rispetto alla forma. Ebbe una enorme diffusione e fu presa a base di tutte le successive traduzioni per la sua fedeltà al testo originario greco.
Gli sono attribuite molte altre opere di cui non sono rimaste copie, forse andate perdute nell'ultimo suo viaggio. Secondo Bernardino Tafuri, nella sua Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli del 1760 “tradusse anche sedici Dialoghi di Platone, siccome a tenore dell’antiche testimonianze ce n’assicura l’eloquentissimo, ed eruditissimo Anton Maria Salvini nel Tomo 3 dei suoi discorsi accademici. (OP)
La storia letteraria del nostro Regno ci presenta una nebbia di errori, e di lagrimevole ignoranza dalla caduta degli svevi fino alle conquiste gloriose di Alfonso. Carlo I, chiamato a stringere uno scettro, che non gli spettava, entrato nel Regno con l'orgoglio di vincitore rivolse tutte le cure a stabilirsi sul Trono. Quindi leggi severe, proscrizioni de' grandi che furono fedeli a' discendenti di Federigo, nuovi titoli e novelli onori a' seguaci del monarca francese. Le lettere perciò furono poche curate, e più di tutte le greche ne risentirono irreparabile danno. Gli arabi dall'altra parte avvolgeano le scienze, e la Filosofia in tenebre oscurissime, senza risparmiare bestemmie ed insulti alla Religione degli avi nostri. Il Petrarca ce ne rende chiara testimonianza, ed egli stesso con coraggio eroico non dubitò di scagliarsi contro le dottrine, e contro il pazzo furore di Averoè, che n'era il Capo, ed il sostegno più forte. Ma ad onta di tali sfavorevoli circostanze, ad onta che tutte le forze cospirassero per estinguere i sensi della coltura tra noi, pure nelle feraci Calabrie più che in altre Provincie si conservarono luminose scintille di umano sapere, le quali a poco a poco si dilatarono, e finalmente dietro Erculee fatiche diffusero da per tutto la sapienza greca e latina, nonché i principii delle scienze fondate sulla vera, e retta ragione. Grazie perciò a quei pochi, che in tanta rovina seppero guardarsi dalla corruzione generale! Grazie a' loro sforzi, che custodirono il sacro fuoco dell'Intelletto, e fedeli l tramandarono ai più lontani nepoti! È giusto dunque, che i loro nomi siano considerati, e distinti; è giusto, che riscuotano la nostra, e la universale ammirazione! Ora tra costoro è da riporsi senza dubbio il famoso monaco Leonzio Pilato, che gran fama ottenne in quei tempi nella Greca Letteratura, e più ancora per l'originalità del suo carattere intollerante, che lo ridusse a menar quasi sempre una vita povera, e meschina. Egli era nato calabrese checché ne abbiano detto il Boccaccio e l'abate De Sade, i quali lo chiamano il Tessalonicense; vero è che quel primo padre della nostra Toscana favella debba far peso con la sua autorità, perché fu discepolo di Leonzio, ma il Petrarca, che del pari ascoltò le sue greche lezioni, lo dice assolutamente Calabrese, ed aggiunge, che facevasi chiamare Tessalo, a solo fine di averne maggior gloria, e rinomanza, quasi sdegnando di esser nato Italiano. Leo noster vere Calaber: sed ut ipse vult Thessalus, quasi nobilius sit graechum esse quam Italum. Fu Leonzio discepolo del rinomato monaco Barlaamo, egualmente calabrese, e su di questo particolare io porto opinione, ch'egli n'abbia appresa la dottrina sul principio del XIV secolo, imperciocché nel 1327 il Barlaamo insegnava in Costantinopoli, e prima aveva di già viaggiato nell'Italia, ed erasi anche qualche tempo fermato in Solonicchi; molto più in là poscia fu vescovo di Gerace, ed allora Leonzio trovavasi di età avanzata, che perciò naturalmente essere dovea in quelle condizioni più che perito, e versato. Nel 1360 veggiamo Leonzio in Venezia, dove erasi recato per passare in Avignone,ma dietro le grande premure del Boccaccio si recò in Firenze, e quivi aprì pubblica scuola di Greca Letteratura, e questa troviamo essere stata la più antica d'Italia, e forse anche dell'intero occidente; avvenimento al certo marcabile nella Storia Letteraria, perché mediante la sapienza di costui s'incominciarono a sgombrare le tenebre che occupavano il nostro bel cielo, e s'incominciarono a concepire fondate speranze di una più felice avvenire.
>ci reca perciò meraviglia, come il Signorelli scrittore accuratissimo delle patrie cose non abbia rilevata questa circostanza nel breve cenno, che fa del nostro Italo Greco. Circa tre anni il Leonzio insegnò le Greche lettere dalla cattedra, la quale essere dovette frequentatissima, perché lo stesso gran Boccaccio, non volle perdere nemmeno una delle sue lezioni in tutto il tempo prodotto; ed allora egualmente la frequentò forse il Petrarca imperciocchè sappiamo, che questo altro portentoso Genio Italiano, fu pure suo discepolo, e cercò sempre di persuaderlo a non abbandonare Firenze. Quanto vantaggio egli infatti avrebbe recato all'Italia se si fosse lasciato vincere dalle premure de' suoi dotti amici, e discepoli! Ma sfortunatamente non pochi si trovano di genio verso al ben fare contentandosi più tosto di acquistar nome per la loro volubilità stravagante, che per essersi prestati alla pubblica, e privata istruzione de' loro concittadini. Passò egli dunque di bel nuovo in Venezia, e quindi fe' ritorno in Grecia, al qual proposito il mentovato Petrarca ne scrisse con leggiadria al suo amicissimo Boccaccio. Instabile, a buon conto, nelle sue determinazioni ora vagava per la Grecia, or ritornava in Italia, della quale recavasi a scorno essere chiamato figlio: ma conoscendo il Petrarca istesso tutte le sue stravaganze scrisse nuovamente al Boccaccio mostrandosi risoluto di abbandonarlo al suo destino, ed al luogo dove insolentemente erasi portato. Leonzio però impaziente di rimanere in Grecia, perché forse colà inviso a cagione de' suoi rozzi procedimenti, s'imbarcò la seconda volta per l'Italia sulla certezza che il Petrarca lo avrebbe accolto col solito affetto, e colla solita stima. La fortuna però gli fu contraria; appena egli era vicino a toccare le coste dell'Adriatico, una furiosa tempesta sconvolse il mare minacciando a tutti i naviganti una disperata, ed inevitabile morte: fra tutti però, il solo Leonzio ebbe la sventura di perirvi essendo stato colpito da un fulmine, mentre tenevasi fortemente abbracciato all'albero del fracassato naviglio. Il Petrarca più di ogni altro fu afflitto per così terribile accidente, e con lettera scritta al cennato Boccaccio, ne pianse con dolore la perdita. E così finì di vivere infelicemente questo profondo letterato, lasciando un gran vuoto nella Greca erudizione, nella quale era così versato, che a giusta ragione veniva stimato, come un portento, anziché della stessa mediocre, e volgare conoscitore. (Filippo de Jorio da Paterno in Accattatis, Biografia degli uomini illustri, Cosenza 1869)
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