Cavallerizzo e la disfida di San Giorgiodi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XI num. 17 del 28/03/2012 |
Rende, 24/04/2012
Due messe, due processioni per contendersi un Santo. Da un lato quattro nostalgici a trasportare un totem, dall'altro l'intera collettività riunita a festeggiare la ritrovata unità, costretti a portare in processione un quadro e dentro il cuore una speranza e la voglia di ricominciare
Ci vorrebbe un luminare di diritto canonico per districare la matassa che uno sparuto gruppo di “fedeli” stanno creando in una piccola comunità come Cavallerizzo. Una comunità ferita da una rovinosa frana che l’ha cancellata qualche anno fa. Faticosamente tenta di lasciarsi alle spalle il suo passato e ricostruire una identità, ma continuano a riaffiorare divisioni e ripicche che rischiano di minare lo sforzo di ricucitura dopo la diaspora. I dissidenti sono pochi, ma rumorosi e fantasiosi. A volerli contare sono sufficienti le dita di una mano, per utilizzare l’altra e raggiungere la decina bisogna fare uno sforzo di fantasia e volare oltre gli oceani per includere emigrati che da lunga data hanno perso qualsiasi percezione della realtà. Hanno lasciato alle spalle una realtà che oggi stenterebbero a riconoscere. Bisogna partire da questo dato per raccontare quello che si è verificato in occasione della prima ricorrenza del patrono dopo la consegna del nuovo borgo. San Giorgio martire, venerato fino al fanatismo ha rappresentato non solo un appuntamento annuale, ma una occasione di incontro, uno stimolo alla conservazione dello spirito comunitario. San Giorgio come “genius loci”, che crea la comunità: “nullus locus sine Genio”, asseriva Servio.
In suo onore ogni anno, da secoli, veniva organizzata una festa molto al di là delle possibilità di un piccolo centro, poiché nasceva da una partecipazione corale, un contributo frutto del sacrificio di ciascuna famiglia che consentiva di raccogliere cospicue risorse per strabilianti fuochi di artificio e concerti serali con star nazionali della canzone. La frana aveva interrotto questa tradizione trascinando con se lo spirito comunitario, il senso di appartenenza che ha bisogno di simboli e di riti che devono essere alimentati costantemente come i ceri votivi.
Aria di gran festa per la prima manifestazione realmente unitaria, per richiamare il “genius loci” nel nuovo paese appena consegnato, per ricostruire l’interazione tra il luogo fisico e l’identità comunitaria, trasferire nelle case e nelle vie ricordi e le stratificazioni sociali e culturali che costituiscono gli elementi fondanti della propria specificità storica.
La sera del 22, una folla festante e quasi incredula si è snodato in una lenta processione lungo la via principale del nuovo borgo, sotto le luminarie multicolore, le luci accese nelle case, arazzi e coperte sventolanti nelle finestre. Tutti dietro un “quadro” di San Giorgio, disarcionato ma fiero del suo popolo accorso ad onorarlo.
La comunità come entità collettiva era tutta li quella sera e ancora il giorno dopo a girare di casa in casa, fino ad arrivare nella piazza adornata dalla gente felice di essere di nuovo insieme a cantare nenie arbëresh, a scambiarsi sorrisi e ricordi, a raccontarsi gioia e delusioni nella nuova realtà che si va formando, ad abbracciare i tanti accorsi dai paesi vicini a godere insieme questo momento di rinascita.
Anche ad ascoltare la messa. Anche. Un momento di raccoglimento, di meditazione per godere l’euforia di essere insieme. In attesa del concerto serale della “Spasulati Band”: un connubio tra sacro e profano che coniuga la voglia di passato con l’ansia di un nuovo inizio. La pioggia insistente ha fatto spostare il concerto, ma non è riuscita a interrompere la ieraticità del rito collettivo. Sono stati tutti lì a seguire l’incessante rincorrersi dei colpi di un interminabile sparo di mortaretti. O forse erano esplosioni di gioia repressa per tanti anni, la liberazione di un incubo, la ripresa di un cammino di speranza.
In un altrove lontano, distante quattro nostalgici si affannavano a portare una statua ridotta a trofeo, bottino di una guerra mai combattuta, ma giocata sul piano della furbizia e fantasia istituzionale che ha portato alla creazione di una entità medievale, insignita del riconoscimento del guardasigilli, ma priva di anima. Hanno tentato di rubare la storia, ignorando che ha preso un nuovo corso: un simbolo senza un popolo ritorna un pezzo di legno, un oggetto privo della sua capacità aggregante.
Bisogna però riconoscere che riescono a fare un gran rumore e gestire egregiamente i media. Ottengono memorabili vittorie come la dichiarazione di nullità della conferenza dei servizi per un vizio di forma prontamente sanato. Ci sono voluti TAR, TIR, Consiglio di Stato e l’Associazione dei clerici vagantes, ma alla fine ce l’hanno fatta: una memorabile vittoria di Pirro. Chapeau!
Ora che il nuovo paese, la “new town”, è stata consegnata si sono inventati un altro espediente retorico per tenere viva la fiammella della polemica, della spaccatura delle comunità, la costituzione di una rettoria. Idea geniale, non c’è dubbio partorita dalla fantasia dell’ex parroco, che da paladino della ricostruzione si è trasformato nell’agitprop per alimentare qualsiasi ipotesi di spaccatura e di divisione. In questo spalleggiato dalla Curia Arcivescovile di San Marco Argentano dove svolge una funzione importante. Sulla Gazzetta Ufficiale dell’11 gennaio 2012 l’ambito “Riconoscimento della personalita’ giuridica della Rettoria «San Giorgio Martire», in Cerzeto. Chapeau!
Cos’è questo oggetto misterioso costituito shehura, “alla mucciuna”, alla chetichella per dirla alla toscana. Bisogna ricorrere a un codice diocesano, come quello di Paolo Moneta, per scoprire che la rettoria è un ente destinato a gestire una Chiesa destinata al culto pubblico per i fedeli della diocesi, secondo una finalità pastorale specifica determinata dal Vescovo. Il rettore viene nominato liberamente dal Vescovo diocesano, a meno che a qualcuno competa legittimamente il diritto di elezione o di presentazione.
Per poterla istituire è necessario avere una chiesa senza parrocchia, senza popolo e, pertanto, si è reso necessario trasferire la parrocchia nel nuovo centro abitato, indicando come sede la canonica prevista progettualmente, ma non ancora terminata perché tutto questo avveniva nel 2010. In tal modo la chiesa di San Giorgio è rimasta senza un responsabile ed è stata devoluta alla Rettoria costituita ad hoc, che è diventata proprietaria di tutti i beni ecclesiastici dell’ex parrocchia. Con questo espediente degno di un azzeccagarbugli la statua di San Giorgio è stata sottratta alla comunità e posta nella disponibilità dei pochi “fedeli” della Rettoria.
Sotto il profilo della legittimità, ancora chapeau. Ma sotto il profilo logico, etico, morale, storico, sociale molti sono i dubbi e le perplessità. La Chiesa è stata costruita dai fedeli, pietra su pietra, con sacrifici personali, la statua è stata acquistata alla fine del Settecento dalla Universitas di Cavallerizzo, che ha mandato una delegazione di tre persone a Lecce in un lungo e faticoso viaggio durato quindici giorni. Più che a un busillis sarebbe stato necessario cercare una soluzione condivisa con la comunità e con i legittimi rappresentanti, come il sindaco ad esempio. Non è una figura qualsiasi, ma il custode diretto del vecchio sito, su cui ricade la responsabilità penale della sua agibilità e dell’incolumità delle persone che lo frequentano.
Dov’è l’ecclesia, intesa come comunità di fedeli? Qual è il gregge e quali le pecorelle smarrite? Dov’è la vita pulsante delle famiglie, dove sono i ragazzi e i giovani con i loro turbamenti? Dove si annida lo sparuto gruppetto che giova a rincorrere le farfalle, che ricerca nel latinorum la realtà perduta, negli arzigogoli delle regole canoniche una via di scampo per uscire dal cul-de-sac in cui si è rifugiato, una situazione disperante senza prospettive e senza futuro?
Quando avranno vinto una battaglia si ritroveranno con un pugno di mosche in mano, perché il mondo sta correndo da un’altra parte. Se la tenessero quella statua che la universitas ha pagato con tanti sacrifici. Se la tenessero quella chiesa che hanno voluto trasformare in un simbolo di discordia e disunione, un motivo di contrasto e di ripicca servendosi di un trabocchetto medioevale. Si tratta di un furto legale perpetrato ai danni della collettività, poiché ad essa appartengono per ragioni di carattere storico, spirituale, morale, culturale perché sono dei simboli molto più che degli oggetti di culto, un attentato al buon senso, una azione di destabilizzazione della coesione sociale, un cuneo conficcato nel cuore di una comunità ferita per mantenerla aperta e provocare un continuo sanguinamento. Non c’è dubbio che una operazione complessa come quella del trasferimento di una collettività crea malumori e malcontenti, recriminazioni e valutazioni contrastanti sui vantaggi e gli svantaggi di ciascuno, sulla giustizia e l’equità della nuova distribuzione degli spazi abitativi. Difficoltà che possono e devono essere superate con una paziente opera di persuasione, di convincimento per rinsaldare i legami, ricreare uno spirito di collaborazione e di convivenza interrotto bruscamente. Un organismo sano sa produrre gli anticorpi, ricostruire il tessuto urbano, l’ordito delle relazioni sociali, l’ordinato disordine del tessuto urbano.
Il sindaco Giuseppe Rizzo ha dimostrato di avere il senso della comunità, ha visto chiaramente la differenza tra la realtà e la mistificazione, tra la volontà autentica di voler celebrare un momento di unione e contrastare l’azione di chi vuole servirsi di espedienti per impedire l’opera di coesione sociale.
E’ interesse di tutti e dell’amministrazione comunale in primis, di cercare una soluzione per un luogo abbandonato come il vecchio paese, e per la chiesa che ha resistito al trauma della frana. Questo si può tentare con uno sforzo congiunto ed è comunque una operazione molto difficile. Quanti sono i luoghi abbandonati, oggetto di culto per qualche anno e poi caduti nell’oblio? E’ del tutto impossibile farlo in un clima di contrapposizione.
Il Vescovo, la Curia si è lasciata intrappolare in una querelle paesana, dal sapore stantio, in una logica familistico-personale dimenticando la sua funzione ecumenica, la missione di ricostruire lo spirito comunitario, di raccogliere ed accogliere, non di separare e di dividere, di tenere aperte le ferite.
Non c’era alcun bisogno di scomodare il diritto canonico, ma seguire la logica, la razionalità, conformarsi ai voleri della stragrande maggioranza con la quale costruire una ipotesi di utilizzazione del vecchio patrimonio ecclesiale. Piuttosto che la rettoria sarebbe stato sufficiente il buon senso.
Pubblico volentieri le due email ricevute a seguito della pubblicazione dell'articolo.
Chapeau! Oreste, chapeau!
Ripeto due volte la locuzione usata da te, forse in senso ironico, ma rivolta a te è veramente sentita.
Finalmente un faro si è acceso per illuminare, timidamente ed ancora fiocamente, una zona molto oscura e tutta da indagare intorno alla vicenda di Cavallerizzo. Tu, ovviamente, rifletti a voce alta e con cognizione di causa sull’aspetto dei legami sociali, affettivi, storici e culturali della tua comunità; io non possiedo il tuo retroterra affettivo/culturale e spesso mi sono limitato all’aspetto concreto e realistico di operare per allontanare l’incubo (per molti) della provvisoria ma eterna baraccopoli che, per alcuni, sarebbe stata materia di perenni promesse/proteste politiche e, per altri, materia di indagini socio-psicologiche. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, mi sembra unico e irripetibile nonostante i latrati rabbiosi di chi ripete mille volte la stessa menzogna illudendosi che diventi verità. Rifletto oggi sul tuo intervento perché la sollecitazione che ti ha spinto a farlo io la provai già il 22 Aprile del 2008, giorno in cui si inaugurò, almeno pubblicamente, il nuovo corso della missione ecclesiastica a Cavallerizzo con la celebrazione di una “festa” di San Giorgio per pochi intimi prediletti nella vecchia chiesa della allora Parrocchia (oggi Rettoria). A proposito ti sei chiesto che fretta c’era di trasferire la Parrocchia di San Giorgio Martire nella Nuova Cavallerizzo prima ancora che venisse assegnata la prima casa e in locali inesistenti? Misteri inesplorabili delle procedure shehura. Guarda caso la data del 22 Aprile mi ha fatto sobbalzare sulla sedia leggendo gli insulti e le risa di scherno buttate in faccia al Sindaco Rizzo che, con pacatezza ed estrema pazienza, aveva cercato di ragionare su un percorso di riconciliazione proponendo una Messa da celebrare il 22 Aprile nel vecchio sito e il giorno seguente la festa nel nuovo Paese tutti assieme. Sembrava quasi che avesse compiuto atto di blasfemia! Eppure solo 4 (Quattro!) anni fa chi lo accusa di peccato capitale, per la proposta del 22, nemmeno se lo è posto il problema della data!! Come è corta la memoria e come è difficile vedere i propri passi per chi cammina su percorsi tortuosi e non illuminati! Ma stai certo che anche questa assurdità comportamentale troverà un critico, un Bertoncelli o un prete a… che ne giustificherà le diverse circostanze con qualche capitolo di un canone alto-medievale.
Torno al tuo appassionato intervento chiedendoti di ospitare, come ulteriore contributo sul tema, un mio articolo del 23 Aprile 2008, scritto di getto dopo il rumore dei botti della festa “privata”, destinato alla pubblicazione, ma che non trovò spazio forse perché ancora prematuro. Di seguito te lo ricopio integralmente scusandomi con te perché, per quanto mi sforzi, non possiedo il tuo Zugehörigkeitsgefühl e forse si vede.
San Giorgio non ha più lacrime. Dal cielo qualche aiuto gli viene, ma non è sufficiente.
Oggi non è il suo compleanno ma forse qualcuno gli ha preparato il funerale. Mai nella sua lunga storia come patrono di Cavallerizzo ha avuto l’onore della partecipazione di tre sindaci, avvolti nel tricolore, alla sua festa. Festa?! Ma che festa può essere la “festa di S. Giorgio” a Cavallerizzo senza bambini, senza anziani, senza il cuore, senza amore, senza gli amici da invitare, senza la banda , senza le bancarelle, senza gli scherzi, senza l’agnello a tavola, senza le case, senza la piazza addobbata, senza le luci, ma, soprattutto, senza S. Giorgio.
La giornata inizia con una fitta nel cuore quando alle nove si sentono i primi botti. Ma allora è vero i propositi di blasfemia si concretizzano. Dov’è S. Giorgio? E’ possibile che sia vero? Passano i minuti prima di riprendersi dallo stupore. Si è vero. Tre fasce tricolori accompagnano un piccolo corteo muto composto da persone semplicemente devote che camminano spaurite in un insieme indistinto e senz’anima, ma al cui interno non tutti gli spiriti sono liberi e candidi. Volteggia una folata di vento da Ku Klux Klan, nel senso eufemistico del termine, ma senza cappuccio; un’aria di sfida e di missione punitiva, con visi ammantati da sorrisi e parole mielose invocanti fratellanza, ma che nascondono, nei fatti, esattamente il contrario.
Dov’era la gioia? Dov’era la serenità il 22 Aprile del 2008?
Nessun bambino, accompagnato dai genitori, era andato a Cosenza nei giorni precedenti a comprarsi il vestito nuovo; dal 7 Marzo 2005 ormai nessuno vive con gioia ostentata le manifestazioni esteriori e l’attesa della festa; ed allora che significato assume questa processione di sfida?
E la messa senza solennità, e la messa senza canti, e la messa senza S. Giorgio, e la messa senza interruzione di bambini vocianti e neonati strillanti, e la messa, oserei dire, senza messa? Gli scoppi di spari con pistole giocattolo dei bambini davanti al portone in piazza, la folla stipata che non consentiva l’accesso a tutti, e i molti uomini appoggiati alla balaustra della piazza avvolti nel loro vestito di festa con le cravatte sgargianti e sbottonate al collo che, nell’attesa dell’uscita del Santo, si raccontano, con discorsi interrotti e inframmezzati di tutto, delle ultime lavorazioni agricole, dei problemi con gli animali o l’andamento dell’ultimo raccolto e le intricate vicissitudini parentali. Tutto con estrema serenità, senza angoscia senza alcuna tensione.
Dov’era tutto ciò il 22 Aprile 2008?
Alla fine della Processione si ritornava nelle case , tra effluvi di odori che saturavano l’aria, per consumare, in ognuna e in tutte, un pasto abbondante a base di agnello (alla “genuisa”) innaffiato da abbondante vino rosso, insieme ad amici e parenti venuti da fuori per l’occasione; in alcune famiglie, a rotazione, si ospitavano anche gli elementi della banda in segno di riconoscenza e amicizia.
Dov’era tutto ciò il 22 Aprile del 2008?
I pochi predestinati o autopredestinati per questa giornata si sono radunati nei locali dell’ex asilo, già Chiesa del Carmine, di Motticella sotto il cui pavimento giacciono le ossa degli antenati Cavallerizzioti, per concludere la loro festa.
La bocca sollevò dal fiero pasto.
Ci vuole il Poeta per descrivere e sintetizzare efficacemente il sommovimento delle viscere scatenato dalle sensazioni percepite per questo rito consumato nell’ex Chiesa del Carmine. Già l’ex asilo! Un edificio pieno di ricordi e sensazioni positive per tante generazioni di giovani e meno giovani e all’interno del quale sono, anche, contenuti sudore e pensieri dell’autore che è stato artefice dell’ultima sistemazione. Oggi si trova, rispetto al fronte frana, come uno sciatore al cancelletto di partenza di una discesa libera eppure è stato profanato lo stesso per consumare l’ultimo oltraggio alla festa di S. Giorgio.
La bocca sollevò dal fiero pasto.
A qualche chilometro di distanza i bambini, gli anziani, le donne, gli uomini esclusi o autoesclusi da tutto ciò subivano, tra atroci sofferenze, questo stupro di massa della loro identità, della loro innocenza, della loro serenità; stupro nemmeno paragonabile allo scempio subito il 7 Marzo 2005 poiché quello fu in qualche modo accettato come ineludibile, ma questo è stato preparato nei mesi precedenti e consumato senza alcuna pietà con violenza indescrivibile. Ogni colpo di mortaio degli spari era una coltellata inflitta nelle carni ancora sanguinanti e mai più rimarginate dopo la tragedia del 7 Marzo.
E’ stata questa la festa di S. Giorgio 2008?
L’autore invoca il perdono della gente di Cavallerizzo nei confronti di quanti a vario titolo prepararono e consumarono in modo attivo e/o passivo questo misfatto.
La bocca sollevò dal fiero pasto.
Concludo con una locuzione che descrive pienamente il mio stato d’animo, senza che sia diretta ad alcuno: “Shitheel” , mille volte “Shitheel”.
Ing. Giuseppe Giunta
Assessore alla Ricostruzione del Comune di Cerzeto
Già Vice-Presidente del Comitato per Cavallerizzo
Buona sera sig. ORESTE.
Vorrei cogratularmi con lei per l'attaccamento, la passione e per l'articolo scritto per Cavallerizzo nuova.
E' meraviglioso pensare che esistano persone che hanno tanta voglia di lottare per riavere diritti e tradizioni che la natura e la cattiveria dell'uomo hanno tentato di toglierci.
Tutti uniti ci riorganizzeremo in modo tale da trasferire la nostra particolare ed unica cultura nel nuovo paese.
Non permetteremo a nessuno di ostacolarci o di cambiare il destino che ci appartiene nonostante i tentativi, prove e riprove di queste menti contorte cerchino di mettere in atto ( TRUCCHI MEDIEVALI è stato bellissimo l'accostamento ).
Io penso che sia arrivato il momento di toglierci tutti i sassolini dalle scarpe e di dargli la stoccata finale cioe :
Lottiamo tutti insieme per ridare serenità e pace al nuovo borgo.
Le auguro una buona serata.
WALTER PARISE
Caro Walter, grazie per i complimenti, ma il mio scopo era quello di esprimere il mio disappunto per una frattura che mi sembra assurda che crea sconcerto in una comunità che faticosamente tenta di ritrovare un equilibrio. Ho letto il tuo articolo sul Quotidiano e anche tu esprimi lo stesso stato d'animo con argomentazioni puntuali e documentate. Non condivido soltanto la contrapposizione frontale, che pur sarebbe giustificata dagli atteggiamenti assunti da pochi dissidenti. Credo tuttavia che bisogna tentare una ricomposizione e convincere il vescovo che bisogna agire per e con la comunità e non contro di essa, perché solo così si fa l'interesse collettivo e non assecondare i "chiuriti". D'altronde quello è un territorio affidato alla responsabilità personale del sindaco, senza il cui consenso possono pensare di farci qualsiasi cosa, ma devono arrivarci ... dal cielo! Per chi è abituato a parlare con il "Cielo" potrebbe essere una operazione facile, ma su questa povera terra le cose sono un po' ... diverse.
Mi auguro che il sindaco colga la palla al balzo per affrontare la questione a muso duro. Oreste
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