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Intervista impossibile con il dott. Ippocrate
di Oreste Parise
Mezzoeuro Anno XI num. 25 del 23/06/2012
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Rende, 20/06/2012
Il grande
medico greco visita la sanità calabrese
Ha
lasciato gli appestati di Atene per un volo pindarico di due millenni e mezzo
per dare un rapido sguardo al sistema sanitario della regione
Ippocrate è un medico, un illustre professionista che per il nome che porta
non avrebbe potuto sfuggire al suo destino, una reincarnazione del celebre
medico di Coo, che opera nella sanità hic et nunc, con un certo disagio per la
contaminazione subita dalla professione al contatto con il business. In questa
intervista impossibile cerchiamo di cogliere le sue impressioni e le
contraddizioni che lamenta.
- Dottore Ippocrate, quali differenze ha trovato rispetto al tempo e ai
luoghi dove ha svolto la sua professione?
- Vi è sicuramente un approccio più razionale alla medicina, si cercano
le interrelazioni tra causa ed effetto dando nessuna rilevanza agli
interventi divini, anche se il concetto di miracolo non è del tutto
superato. Vi è tuttavia una distorsione più profonda poiché la
professione medica è diventata una occasione di arricchimento. Il
trattamento del malato è legata alle sue capacità economiche e non alla
gravità della sua malattia. Secondo il giuramento antico il medico
dovrebbe ricordare il principio “in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò
per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno
volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle
donne e degli uomini, liberi e schiavi”. Quella del medico dovrebbe
essere una missione piuttosto che una professione. Si doveva assistenza
anche agli schiavi che non avevano niente.
- Sono concetti nobili che appaiono desueti, quella del medico non è più
neanche una professione, è diventata un business.
- Certo il fiume di denaro che ha investito la sanità ha finito per
contaminare lo spirito originario della professione. Non si riesce
neanche a imporre una separazione netta tra attività pubblica al servizio
del malato, e attività privata finalizzata al guadagno. Questo è un mondo
molto complesso dove coesistano affarismo e altruismo. La maggior parte
dei medici sono fedeli al vecchio giuramento e svolgono la professione
con il cuore seguendo il precetto “Regolerò il tenore di vita per il bene
dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar
danno e offesa”. Non si può certo negare che vi siano molti operatori
sanitari che sono mossi unicamente dalla bramosia di denaro.
- Il momento più delicato è quel vasto territorio dove finiscono le
cognizioni scientifiche e si entra nel mondo dell'ignoto, e bisogna
combattere contro l'ineluttabile e il dolore.
- La morte è il nostro destino comune. La medicina ci deve aiutare a
vivere bene e a morire con serenità. Questo è oggi l'aspetto più delicato
della professione che pone problemi etici come l'accanimento terapeutico
e l'eutanasia. Da un punto di vista medico abbiamo due campi che la legge
38 del 2010 ha finalmente separato in Italia, la terapia del dolore e le
cure palliative. In entrambe in Calabria siamo molto indietro.
Tralasciamo la complessa problematica della terapia del dolore per la
quale non vi è ancora un quadro giuridico ben definito che consenta di
agire in maniera diversa. Concentriamo il nostro discorso sulle cure
palliative.
- Credo sia opportuno precisare questo termine che non rende giustizia alla
complessità del problema. Suona come il tentativo di depistare il paziente e
i suoi familiari nascondendogli la cruda realtà di essere arrivati in un
tunnel senza uscita. La cura palliativa suona come un placebo, un trattamento
privo di efficacia terapeutica, ma che alimenta una ultima speranza.
- Quando c'è un paziente arrivato allo stato finale, per il quale non vi
sono più cure, si usano i palliativi, farmaci innocui che non hanno alcun
effetto ma danno una sensazione di benessere per il solo fatto che
qualcuno si occupa di noi. La medicina palliativa è porre il malato sotto
il pallium, il mantello usato nell'antica Roma per proteggersi dai rigori
dell'inverno e dalla calura estiva. La rappresentazione più plastica è il
mantello di San Martino, che il Santo divise con un passante per
difenderlo dal freddo. La cura palliativa mette sotto protezione un
paziente per il quale il medico non può fare più nulla perché la scienza
ha esaurito le sue armi e non ha più strumenti terapeutici efficaci per
quella malattia.
- Si riferisce sostanzialmente ai tumori?
- Non si tratta solo di casi oncologici, ma siamo di fronte a una vasta
gamma di casi clinici: la sclerosi laterale amiotrofica, la sclerosi
multipla, l'AIDS, lo scompenso cardiaco in fase acutizzata, lo scompenso
polmonare, la dialisi in fase terminale, le malattie neurologiche gravi,
i malati in coma vegetativo e persistente, ragazzi, giovani ridotti in
piante che sembrano non avere più alcuna forma di vita, non mostrano
alcuna risposta agli stimoli.
- Vi sono oggi strumenti che consentono di verificare la capacità di
reazione di questi pazienti?
- Certamente la scienza ha fatto molti progressi. Tuttavia, lo stato
attuale della conoscenza non permette di arrivare a conclusioni
definitive, non si può essere molto precisi. Alcuni sembrano non avere
alcuna percezione, mentre altri reagiscono neurologicamente. Una
risonanza magnetica funzionale consente di verificare se colui che versa
in uno stato comatoso ha delle percezioni, se il cervello è una scatola
vuota e siamo di fronte a uno stato vegetativo. Molto diverso è il coma
persistente che può riservare esiti sorprendenti. L'ultimo caso che posso
testimoniare è quello di un paziente in apparente coma vegetativo. Si è
risvegliato dopo anni e riferiva le conversazioni che avvenivano in sua
presenza. “Sentivo mio fratello che voleva staccare la spina del mio
respiratore perché mi vedeva soffrire. Io non potevo reagire, neanche
muovere le ciglia. Sentivo mia madre piangere che veniva al mio capezzale
e mi accarezzava scongiurando di lasciarmi vivere perché lei era convinto
che ci fosse vita in me e un giorno mi sarei svegliato. Io speravo che
prevalesse la posizione di mamma, volevo in qualche modo ringraziarla, ma
non potevo fare assolutamente nulla”. Non è un caso unico, il miracolo di
Lourdes, ma ve ne sono numerosi attestati nella letteratura
scientifica.
- Si trattava di un coma vegetativo apparente, perché aveva una forma di
attività cerebrale.
- Le nomenclature scientifiche nascono spesso quando la conoscenza di
quel fenomeno non è ancora completo. La successiva sperimentazione e la
ricerca dimostrano in seguito l'insufficienza di quella classificazione.
Il coma vegetativo presenta una casistica molto diversificata. Gli
americani parlano ad esempio di soggetti “locked-in”, che sono chiusi al
loro interno e non riescono a interagire con il monto esterno, ma sono
vivi, percepiscono le sensazioni, sono vigili ma non riescono a dare
alcun segno della loro sensibilità. Quando quel paziente si è svegliato è
stato in grado di ricostruire la propria storia, riferire le fasi, i
momenti diversi, le conversazioni che avvenivano in sua presenza e i
lunghi silenzi che riempivano la sua solitudine.
- Quali risposte ha la scienza per questi casi estremi?
- Molti di questi pazienti non hanno più la possibilità di recuperare la
guarigione, ma hanno la necessità di essere curati. Gli inglesi
distinguono tra “to cure”, adottare le terapie necessarie per il
ripristino delle funzionalità e “to care”, prendersi cura di coloro che
sono prossimi al traguardo. Ecco prendersi cura di questi pazienti, per
dare loro una dignità, una capacità di arrivare serenamente alla fine del
viaggio, è l'essenza della terapia palliativa. Per questo è necessaria
una rete, un insieme di nodi in grado di dare delle risposte in questi
momenti difficili.
- Possiamo descrivere brevemente cosa bisognerebbe fare?
- Partiamo dal medico di base, il quale non può certo ignorare la
condizione del proprio assistito e deve attivare la l'assistenza
domiciliare integrata, la quale si rivolge a uno specialista, il quale a
sua volta può attivare una struttura specializzata che è l'hospice.
- Cos'è un hospice e qual'è la sua funzione?
- È una struttura sanitaria dovuta a Dame Cicely Saunders, un medico
inglese, che è diventata successivamente infermiera per stare accanto ai
malati, assistendoli nel modo più confortevole possibile. Il malato
terminale non è un rottame da conferire in discarica, ma un essere umano
che attraversa una difficile fase della sua esistenza e bisogna
prendersene cura per accompagnarlo fino alla fine. L'hospice non deve e
non vuole essere un lazzaretto, ma una struttura di ausilio. La medicina
palliativa prevede che ognuno debba morire a casa propria tra l'affetto
dei propri cari, con la migliore assistenza domiciliare possibile.
- A cosa serve allora un hospice?
- I casi di cui discutiamo presentano situazioni complesse che vanno
affrontate con strumenti e strutture adeguate, un luogo dove si forma
anche il personale specializzato in grado di intervenire nei momenti
critici: si stabilisce un trattamento per il dolore, si curano le piaghe
più difficili, si ripristinano le funzionalità degli organi. Sono sempre
permanenze temporanee. La stessa legge, infatti, prevede che il ricovero
in un hospice non può superare i sessanta giorni di degenza. Serve a
spezzare il pesante carico che le famiglie devono affrontare in queste
situazioni difficili. Lo staff medico, nel quale è compreso pure lo
psicologo, deve aiutare il paziente a riconciliarsi con la vita, a vivere
la propria condizione come un momento di distacco, dargli lo stimolo per
vivere attivamente ogni attimo. L'intera famiglia viene coinvolta e deve
essere aiutata a superare il senso di angoscia, convivere con la malattia
e con il lutto.
- La realtà calabrese è però ben lontana da questa condizione. Non risulta
che vi siano strutture assimilabili a un hospice, come ben sa chi vive questo
dramma.
- Questo è il punto. Vi è una vistosa carenza, a dispetto di una legge
che esiste già da anni, che stabilisce che in ogni regione vi devono
essere degli hospice in proporzione al numero degli abitanti. Fino al
2005 in Calabria vi era solo un hospice privato a Reggio Calabria, una
vecchia sede dell'AVIS. Con il consolidamento del debito sanitario, la
struttura è stata resa pubblica nelle prestazioni poiché l'immobile è
rimasto nella disponibilità dei vecchi proprietari.
- Nel resto della regione non vi è più niente?
- A Cassano vi era un ospedale in costruzioni da quarant'anni, inaugurato
quattro volte e mai entrato in funzione, nonostante fossero stati
acquistati persino tutti gli strumenti medicali, rimasti ben imballati
negli scatoloni di legno. Un paradossale caso di spreco, diventato
altresì ricettacolo della delinquenza organizzata. Si era tentato di
trasformarlo in un hospice, ma poi gli sono mancati i sostegni adeguati.
Si tratta di una struttura mastodontica eccessiva rispetto allo scopo,
con spazi molto più ampi di quanto sarebbero necessari per questo tipo di
servizio. Nonostante tutto svolge una funzione essenziale in un
territorio molto carente sotto questo profilo, accoglie malati anche da
altra regioni, come la Puglia ad esempio.
- Probabilmente si è trattato di un problema economico-finanziario.
- Piuttosto bisognerebbe parlare di una miopia politica, di insensibilità
nei confronti di una casistica che viene considerata marginale e poco
significativa fino a quando non si ha la sventura di incorrere in una
odissea familiare. In quel momento ci si rende conto che la situazione è
gravissima. Il problema finanziario non esiste nel caso in specie. A
Cassano, ad esempio, si sono utilizzati fondi statali previsti proprio
per la riconversione delle strutture ospedaliere inutilizzate. Si è reso
un servizio senza aggravio di spese per i cittadini. In Calabria la vera
spesa sanitaria è costituito dallo spreco, risiede nell'inadeguatezza
delle strutture che costringe al pellegrinaggio sanitario in tutta
Italia, i cui costi sono addossati alla Regione e vanno a formare quel
mostruoso debito che condizione l'organizzazione sanitaria.
- Il vincolo di bilancio però impedisce di realizzare altre strutture.
- Questo non è vero, perché per queste strutture non vi è solo la legge,
ma vi sono fondi dedicati che non vengono utilizzati. Non solo abbiamo
una carenza nei servizi, ma sprechiamo opportunità di sviluppo,
possibilità di creare occasioni d'impiego altamente specializzate. La
riposta politica è stata di una sufficienza e di una supponenza
incredibile. “Lasciateli morire in pace”, questa è la filosofia, il loro
destino è segnato ed è inutile sprecare risorse. Un assurdo thatcherismo,
peraltro mal interpretato.
Due sole strutture per le cure palliative in Calabria sono assolutamente
insufficienti per i bisogni della regione, e la gran parte dei malati, e
delle loro famiglie, è costretta a sacrifici incredibili per affrontare
questi momenti poiché spesso risulta difficile se non impossibile
sottoporsi a lunghi viaggi per la precaria condizione dei pazienti.
- Cosa bisognerebbe fare allora?
- La Legge n. 38 del 2010 ha disciplinato l'intera materia, ed ha
previsto l'istituzione della rete delle cure palliative che deve essere
realizzata attraverso l'integrazione tra l'hospice e l'assistenza
domiciliare che fa da tramite con le famiglie dandogli il supporto
tecnico ed economico necessario. A Cosenza è già prevista l'apertura di
un hospice, poiché vi sono tutti i requisiti richiesti dalla legge, ma
nessuno se ne interessa. Nei convegni medici si contesta la nostra
incapacità di sfruttare le occasioni, di utilizzare le risorse che
vengono messe a disposizione.
- Le stesse carenze si manifestano anche nella terapia del dolore?
- In termini quantitativi la condizione può definirsi soddisfacente,
poiché non si registrano grandi problemi. Le deficienze semmai riguardano
l'aspetto organizzativo, la dotazione strumentale, la qualità delle
prestazioni. Vi sono validi professionisti, i quali inseriti in un
contesto scarsamente “produttivo” finiscono per degradare anche le
proprie capacità. Bisognerebbe superare alcuni pregiudizi sull'uso delle
droghe come gli oppiacei o la cannabis, poiché non vi è alcuna ragione
logica per non utilizzare tutti gli strumenti che la natura ci mette a
disposizione per lenire il dolore. Qui non si tratta di utilizzo di
stupefacenti, ma di rendere sopportabili gli ultimi giorni di vita
rispettando la dignità degli individui.
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