Antonio Toscano e il terribile 13 giugno 1799di Oreste Parise Mezzoeuro Anno XI num. 25 del 23/06/2012 |
Rende, 20/06/2012
L’eroica impresa della Legione Calabra
Nel piccolo forte di Vigliena, vicino a Portici si combatté una delle più cruente battaglie fratricide tra i sanfedisti del Cardinale Ruffo e i giovani calabresi difensori della Repubblica e della libertà. Preferirono morire tutti piuttosto che arrendersi …
La Repubblica Napoletana venne proclamata il 23 gennaio del 1799 sotto la protezione del generale francese Jean Étienne Championnet. Sul pennone del Castel Sant’Elmo venne issato tricolore giallo, turchino e rosso, simbolo della repubblica. Un mese prima, nell’antivigilia di Natale, il Re e la sua corte era scappata a Palermo sotto la protezione della marina inglese, pubblicando un bando con il quale si incitavano i sudditi a rivoltarsi contro l’invasore francese. Il clero e la polizia tentarono di raccogliere una milizia da mandare a Napoli contro i giacobini.
“Fin dalle Calabrie partirono centinaia di fannulloni che il Bosco, nella sua cronaca, paragona a una carovana di pellegrini, laceri e scalzi e col volto stupido e confuso. N’era stato eletto a comandante il generale Valentini di Dipignano, il quale di lì a poco, fatto prigioniero a tradimento dal commissario Walville, fu moschettato a Roma in piazza Montecitorio. I soldati si sbrancarono, e tornando in Calabria vi sparsero la voce della fuga del re, delle vittorie francesi, rianimando così le speranze e l’ardire dei patriotti”, scrive Vittorio Visalli.
In gran parte delle province si rovesciarono i rappresentanti del governo borbonico, si piantarono alberi della libertà con la costituzione di giunte provvisorie. Già il 25 gennaio, due giorni dopo la proclamazione della Repubblica, il Cardinale Ruffo, il quale aveva seguito i sovrani in Sicilia, riceveva il mandato di organizzare un esercito per la riconquista dei territori del Regno. Il 7 febbraio sbarcava a Pizzo Calabro con pochi uomini e iniziava il reclutamento dei combattenti per la monarchia e per il Papa, che si chiamarono sanfedisti. Il successo fu sorprendente poiché il cardinale fece appello alla massa del popolo facendo leva sul carattere anticlericale del movimento repubblicano che voleva stravolgere leggi consuetudini e equilibri sociali. Il precedente della Cassa Sacra mostrava con chiarezza che l'abolizione degli ordini monacali non avevano portato alcun beneficio ai contadini senza terra, al contrario li aveva privati degli usi civici sui beni ecclesiastici, che finirono nella vorace morsa di una nuova classe di avidi speculatori. Il fenomeno delle chiuse e delle difese, vasti latifondi usurpati dai nuovi ricchi che provvedevano a recintarli e impedirne l'accesso ai contadini per esercitare i loro diritti consuetudinari, aveva creato un vasto malcontento. L'abolizione della manomorta ecclesiastica si era trasformata in una sciagura per i poveri, dando solo occasione di far crescere una nuova classe di proprietari i quali pretendevano un dominio assoluto sui territori. Il cardinale si era altresì rivolto ai banditi e facinorosi di ogni risma promettendo la remissione di ogni pena se fosse stata ripristinata il legittimo governo borbonico.
D'altronde, era evidente come i “patriotti”, come si chiamavano i simpatizzanti con il nuovo governo repubblicano erano le persone più colte, e spesso si trattava di aristocratici convinti che lo spirito rivoluzionario partito dalla Francia non poteva essere fermato e occorreva un nuovo ordine per ripristinare un diverso equilibrio sociale. La propaganda sanfedista ebbe facile gioco a additare i giacobini come i ricchi che volevano assumere il potere per opprimere il popolo, che solo sotto la protezione del sovrano avrebbero trovato pace e giustizia, poiché la monarchia era l'unico difensore dei diritti civici. Per spaventare i popolani in ogni angolo si piantavano croci e cartelli con la scritta “Infame regnum Jacobinorum”.
Il governo repubblicano dal canto suo era troppo preoccupato della demolizione delle ragioni storiche e sociali del vecchio regime per valutare gli effetti che i suoi provvedimenti provocavano nella fantasia popolare. Cercava il consenso con provvedimenti rivoluzionari senza che avesse né il tempo né l'organizzazione per poterli tradurre in realtà. In soli tre mesi si pervenne all'approvazione della legge di abrogazione della feudalità, con una discussione accesa e appassionata. Si trattava di un grande progetto illuminato e lungimirante approvato il 25 aprile quando ormai gran parte delle province erano nel totale disordine e le truppe sanfediste avanzavano implacabilmente tra nefandezze ed eccidi. È sufficiente riportare il preambolo e i primi articoli di quella legge per rendersi conto si trattava di un provvedimento che anticipava di due secoli la riforma agraria, che al confronto è molto più timida e conservatrice.
“Considerando che in tutte le istituzioni della feudalità, immaginate nell'ignoranza e fondate sull'usurpazione, sono violenze fatte all'umanità e che quindi tutti i diritti giurisdizionali, personali e reali che esercitavano i cosiddetti Baroni sono contrari ai primi diritti dell'uomo e al libero vivere civile, contro il quale non possono opporsi né contratti né prescrizioni, e che nel felice momento della rigenerazione di questa Repubblica è d'uopo restituire al libero Cittadino ogni suo diritto; stabilisce ed ordina quanto segue: Art. 1 Resta abolita qualunque istituzione e qualificazione feudale, egualmente, che tutt'i diritti di feudalità di qualunque natura possano essere. Tutt'i cittadini per lo innanzi denominati principi, duchi, baroni ecc. rientreranno nella classe degli altri cittadini, né potranno assumere altra denominazione … Art. 3 Sono aboliti tutti gli obblighi di servizio personale, come angari, parangari ed ogni altra prestazione proveniente da detta causa”.
“Ma troppo brusco fu il passaggio dalla monarchia assoluta a una forma di governo tanto democratica; ed a renderlo più sentito concorse la fretta dei patriotti che cercarono di rifar tutto a nuovo, cambiando le leggi senza osservare se le ultime fossero in armonia con i costumi del paese” ammoniva Vincenzo Cuoco. Grande scandalo destò, ad esempio, l'introduzione del divorzio che stravolgeva l'istituto familiare.
La Calabria, o le Calabrie poiché il breve periodo rivoluzionario mise in luce le profonde contraddizioni che attraversavano il territorio, diede il maggior contributo alla formazione dell'esercito controrivoluzione sanfedista, ma anche i più strenui e appassionati difensori della libertà e dei valori della rivoluzione.
Secondo il racconto di Pietro Colletta: “Altra milizia si formò col nome di Legione Calabra, senza uniformità d'armi e di vesti, né stanza comuni, né ordini di reggimento; truppe volontarie che ad occasione si univano per combattere sotto bandiera nera con lo scritto: “vincere, vendicarsi, morire”. Erano tre migliaia, Calabresi, la maggior parte, avversi per genio al cardinal Ruffo, da lui vinti e fuggitivi, memori di avuti danni e ferite; incitati per tanti stimoli alla vendetta.
Dell'esercito repubblicano volendo far mostra, fu schierato in più file nella magnifica strada di Toledo e nella piazza nazionale intorno all'albero della libertà, dove si vedevano giungere tra immenso popolo i membri del governo, i generali, il generale supremo Manthoné, quindi le artiglierie e le bandiere del re, tolte nei combattimenti di Castellamare e Salerno; ed un fascio d'immagini della famiglia reale, che la intollerante Polizia aveva prese in argomento di colpa da certe case della città e nelle provincie; chiudevano il convoio due file di prigionieri, soldati e partigiani, i quali, credendo che per pena ed esempio sarebbero stati quel giorno e in quel luogo trucidati, andavano mestissimi e tremanti. Ardeva a fianco dell'albero un rogo, dove si divisava il bruciar bandiere e le immagini”. Nella grande parata militare della repubblica, la Legione Calabra era al centro, la più ammirata e rispettata.
Scrive Vittorio Visalli che la legione Calabra rimase in città a presidiare Castelnuovo e la piccola fortezza di Vigliena, di là dai Granili. “Noi scrivevano, vogliamo sangue, noi cerchiamo morte, darla o riceverla è per noi tutt’uno; solo vogliamo che la patria sia libera e noi vendicati. Rispondeva il Manthoné compiacersi nel vedere quei moti generosi degli animi loro, né poter perire la repubblica che eroi, come eglino, aveva per difendersi:
Né mai durante la guerra vennero meno al loro dovere; però che la scritta della bandiera non era i grido d’una collera incostante, ma il solenne meditato giuramento dei due mila guerrieri che offrivano alla salvezza della patria, volenterosi, la vita. Gregorio Muscari, da Sant’Eufemia d’Aspromonte, n’era l’imperterrito duce.
La repubblica durò solo cinque mesi e controllava quasi solo la capitale, mentre il resto del territorio versava nella confusione più totale. Ovunque le bande sanfediste accorrevano per rovesciare i governi delle universitas che avevano aderito alla rivoluzione.
Il 13 giugno, giorno di Sant'Antonio, l'armata sanfedista entrava in Napoli e iniziarono dieci giorni di eccidi e stragi.
Scrive Pietro Colletta. “Al primo raggio del 13 giugno, alzato nel campo l'altare, celebrato il sacrifizio dei cristiani, ed invocato Sant'Antonio Patrono del giorno, fece muovere contro la città tutte le torme della Santa Fede, stando lui a cavallo col decoro della porpora e della spada, in mezzo alla schiera maggiore, intesa a valicare il piccolo Sebeto sul ponte della Maddalena. Alle quali mosse, mossero i repubblicani; prima sparando dal Castelnuovo e tre tiri del cannone per tener le vie della città sgombre di genti, e salve dalle insidie de' nemici interni.
Il generale Bassetti con piccola mano correva il poggio di Capodichina, minacciando, per le viste più che per l'armi, l'ala diritta dell'immensa torma che avanzava ne' fertili giardini della Barra. Il generale Wirtz con quanti poté raccogliere andò sul ponte, vi stabilì poderosa batteria di cannoni, e munì di combattenti e di artiglierie la sponda diritta del fiume: i castelli della città restarono chiusi co' ponti alzati. La legione calabra, divisa in due, guarniva il piccolo Vigliena (in via Marina dei Gigli, ex Stradone Vigliena nel quartiere di San Giovanni a Teduccio), forte o batteria di costa presso l'edifizio de' Granili; e pattugliava nella città per impedire le insidie interne, e per ultimo disperato aiuto alla cadente libertà. I partigiani di repubblica, vecchi e infermi, guardavano i castelli; i giovani e i robusti andavano alla milizia, o formati tumultuarie compagnie, o volontarii e soli a combattere dove li guidava sdegno o fortuna. I russi assalirono Vigliena, ma per grandissima resistenza bisognò atterrare le mura con batteria continua di cannoni; e quindi russi, turchi, borboniani, entrati nel forte a combattere ad armi corte, pativano impediti e stretti dal troppo numero, le offese dei nemici e bramosi di vivere ... ”.
Prosegue Carlo Botta: Ivi avvenne caso stupendo e degno di andare insieme coi fatti immortali di cui favellano le storie degli antichi popoli liberi. Era difeso da centocinquanta calabresi, preti, laici, nobili, tutti uomini amantissimi di libertà, e fermamente risoluti a morire per essa. Il prete Antonio Toscano li comandava, e per grandezza di animo era degno di presiedere a gente che diceva: Noi cerchiam morte: darla o riceverla è per noi tutt'uno: solo vogliamo che la patria sia libera, e noi vendicati.
Appena si presentarono le torme del Cardinale, le batterie di Vigliena risposero con un fuoco vivissimo, e arrestavano la marcia dei nemici verso la capitale. Ruffo ordinò ad una banda de' suoi calabresi più prodi che pigliassero il forte. Allora si vide uno spettacolo orribile. Calabresi da una parte e dall'altra gareggiarono di coraggio in una battaglia fratricida. Gli assalitori fecero l'estremo di loro possa, e dopo sforzi stupendi furono costretti a ritirarsi e chieder soccorso. Il Cardinale spedì loro un cento di Russi con batterie di cannoni per mezzo dei quali si ricominciò battaglia più micidiale. Gli assalitori fulminando incessantemente aprirono lunghe brecce e quasi distrussero le mura del forte, e poi intimarono la resa, la quale negata dai difensori, salirono all'assalto. Per due volte furono respinti, e alla terza salirono nel forte, e presero a combattere ad armi corte: ma il piccolo spazio impediva loro la battaglia, si ferivano tra se è stessi senza poter nuocere quanto volevano agli avversari i quali combattevano da veri leoni. Molti degli assalitori perirono: caddero la più parte degli assaliti, ma niuno discorreva di arrendersi, niuno osava di sopravvivere alla libertà. Erano ridotti a meno di sessanta, e si tenevano stretti in un angolo facendo eroica difesa. Il numero si diminuiva ad ogni istante, ma il coraggio si accresceva e alle intimazioni di arrendersi rispondevano con disperate ferite: l'ora estrema si avvicinava: quegli eroi vedevano vicina la morte, e la guardavano con viso ridente. Tutti si accorsero essere impossibile resistenza più lunga, tutti aborrivano di darsi in mano a uno scellerato nemico.
Perciò il comandante Antonio Toscano interpretando il volere dei suoi prodi compatrioti, trascinandosi ferito com'era al magazzino della polvere vi messe fuoco invocando Dio e la libertà, e fece di sé e de' suoi solenne vendetta. Con scoppio terribilissimo saltarono all'aria i vinti coi vincitori: più centinaia morirono oppressi dall'immensa rovina che agli abitanti della vicina città parve scoppio di tuono o di vulcano. Solamente uno dei difensori di Vigliena si salvò: si appellava Fabiani. Egli accortosi del disperato disegno del duce, prima che lo recasse ad effetto si gettò nel mare, e nuotando si ridusse al Castel Nuovo ove raccontò le particolarità del mirabile fatto dei valorosi martiri di Vigliena.
Chi guardando le rovine di Vigliena, scrive Francesco Lomonaco, non sarà preso di ammirazione, è un uomo a cui la schiavitù ha tolta la facoltà di pensare e di sentire. Io farei imprimere sui rottami di quel forte l'iscrizione: Passeggero! Annunzia a tutti i nemici della tirannide, a tutte le anime libere, che imitino il nostro esempio, anziché vegetare all'ombra del dispotismo”.
Secondo altre versioni furono Bernardo Pontari e Francesco Martelli, che appartenevano alla compagnia reggina della Legione, si erano offerti a eseguire il terribile disegno.
Atto Vannucci racconta come la sera dello stesso giorno “ mentre tali cose di buona guerra di operavano, due fratelli Baker, e tre altri prigioni già condannati dal tribunale rivoluzionario furono archibugiati, come in secreto, sotto un arco di scala del Castelnuovo: supplizio crudele, perché nelle ultime ore del governo, senza utilità e sicurezza o di esempio. Non bastò il tempo, e fu ventura, a più estesi giudizi contro a' congiurati col Baker.”
Negli ultimi giorni di giugno Napoli fu sconvolta. Racconta Carlo De Nicola nel suo diario. “Sarebbe un quadro da dar terrore se tutto potesse mettersi sotto l'occhio del lettore quanto è accaduto in Napoli da dieci giorni. Io non ho accennata che la menoma parte. Per Napoli si sono veduti trascinare a centinaia ogni giorno gli arrestati del popolo, e il trascinar sarebbe stato niente, ma dilaniati, feriti, mutilati, e morti, portandone le teste sulle aste. E chi sa se tutti erano rei”.
Chi era Antonio Toscano? Giuseppe Amato, nella sua “Cronistoria di Corigliano Calabro” (pubblicata nel 1884, i brani riportati sono presi dal Visalli) scrive:
“Questo eroe del 1799 aprì le luci in Corigliano, in questa terra visse e respirò la pura sua ria per 20 anni, ed in questa patria ebbe la sua educazione. Antonio Maria Toscano nacque in Corigliano Calabro il 22 gennaio 1777, dal molto magnifico Pasquale Toscano e dalla nobilissima Geltrude Passavanti; fu battezzato in questo Arcipretile Chiesa di Santa Maria della Platea ai 29 dello stesso mese ed anno, e gli fu dalli mie proprie mani somministrato il Sacramento del Battesimo, e gli furono imposti i nomi di Antonio Maria Giuseppe (atto di battesimo a firma dell'arciprete Montera).
“La famiglia Toscano, ora estinta, era originaria di Corigliano, e lo dimostrano i libri battesimali e quelli di decesso della Chiesa di Santa Maria, ove sono registrati atti di nascita e di morte di molti di questa famiglia, fin dal 1600. Sul libro dei Sacerdoti, che comincia dal 1500, fino ai giorni nostri, esistente nella detta Chiesa, si trovano varii preti della casa Toscano, che io tralascio di enumerare per non dar tedio, e solo registro il reverendo Giovanni Toscano, fratello di Pasquale padre di Antonio, che fu rettore della Colleggiata Chiesa di S. Pietro, e poi Abate della Schiavonia, e morì il 26 marzo 1768 di anni 76. Il fu Carlo Maria Morgia, in un suo scritto , così dipinge il Toscano: “Egli era, come lo ricordano i vecchi coriglianesi, di pelo biondo, occhi cerulei, di bello aspetto, di sensi vivacissimi, di modi cortesi, ma cogitabondo”. I vecchi della nostra città, fra' quali, il dottore Tommaso Otranto di anni 85, ricorda benissimo che il padre suo recavasi in società la sera, in casa di Gertrude Passavanti, madre di Antonio, a conversare”.
In un'altra lettera, si racconta la breve vita di Antonio. Rimasto orfano di padre, fu con ogni cura educato dalla virtuosa sua genitrice, e fu vestito da prete, chè al sacerdozio lo voleva la madre avviare. Fu affidato alle cure del dotto Luigi Rossi da Palma, allora Governatore per parte del duca Saluzzi, in Corigliano, celebre poeta ed efferato repubblicano. Rossi, visto che il giovane Antonio abborriva il regime feudale della sua patria, come l'abborriva il padre Pasquale, svolse in quell'animo vergine potentemente il sentimento dell'indipendenza e della libertà, ed educandolo a forti e santi principii, in breve vide crescerlo fiero repubblicano. Morta la madre Geltrude, ed il Rossi andato via da Corigliano, il fratello maggiore Alessandro, a cui non talentava il predominante sentimento del giovinetto Antonio, per deviarlo e per compire la sua istruzione, lo menò in Cosenza. Giunto colà il nostro eroe trovò maggior fomento alle sue idee, ed in breve legossi in amicizia col Salfi, il quale presto l'ammise nella società di Jerocades e di altri patrioti della nobilissima Cosenza, ed andò man mano a vieppiù infiammarsi ai discorsi di quegli illustri uomini, in modo che pose in non cale lo studio, e sempre meditava come sollevare la Patria di Telesio, e formava a desolazione del fratello Alessandro. Nei rivolgimenti del 1799 all'insaputa del fratello, com'era vestito, cioè da prete, partì con molti alla volta di Napoli; ed ecco perché il Pepe, il Colletta ed il Cuoco lo chiamano giovane prete di Cosenza”. Il municipio di Corigliano diede il nome del Toscano alla via dove sorge la casa in cui nacque l'eroe.
Antonio Toscano si immolò il giorno del suo onomastico all'età di 22 anni e cinque mesi, vestito da prete, anche se non aveva ancora ricevuto gli ordini sacerdotali. Del suo gesto e del sacrificio dei suoi compagni se n'è persa la memoria. La Calabria è ricordata come la Vandea della Rivoluzione Napoletana, dimenticando le migliaia di giovani che hanno sacrificato la propria vita per la libertà e l'abolizione del giogo feudale.
“La stessa perfidia”, scrive Lomonaco, “condanna all'oblio quei prodi del forte di Vigliena, i quali, sopraffatti dal torrente delle forze nemiche, diedero fuoco alla polvere, contenti piuttosto di essere divorati dalle fiamme, e restar seppelliti sotto le rovine della patria, che cadere nelle mani della schiavitù.”
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