Antonio Jerocades e la fede nella libertàdi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XI num. 26 del 30/06/2012 |
Rende, 25/06/2012
La nascita della massoneria in Calabria
Letterato ed economista fu uno dei più insigni illuministi del Regno di Napoli che diffuse le idee di libertà e costituzione. Fu uno dei pochi sopravvissuti alla strage sanfedista e della restaurazione. Ma anch'egli subì processi e conobbe gli orrori delle patrie prigioni.
La biografia di Antonio Jerocades, scritta da Domenico Martuscelli, è contenuta del quarto volume de “Gli Uomini illustri Regno di Napoli, pubblicato nel 1817, dodici anni dopo la sua morte. Le notizie sulla sua vita sono esaustive e raccontano gli episodi più significativi, con l'indicazione delle sue gesta e delle sue opere, molte delle quali andarono perdute nel suo peregrinare.
Restano tuttavia alcune questioni che meritano una riflessione. La prima riguarda la condizione della regione. La Calabria del Settecento appariva come una terra desolata, senza speranza. I numerosi viaggiatori e Giuseppe Maria Galanti, il quale scrisse una vera e propria inchiesta, descrivevano impietosamente l'isolamento dei centri abitati per la pessima condizione delle strade, la miseria diffusa, l'ignoranza che dominava in tutti i ceti sociali. In un simile contesto è difficile immaginare che si possa sprigionare la fantasia e l'intraprendenza di un giovane, lo stimolo a superare i difficili ostacoli che si frappongono a qualsiasi meta e ritrovarsi nel cuore dell'Europa, a dialogare con i più uomini di scienza e di cultura dell'epoca.
Antonio Jerocades lo troviamo peregrino in Europa, a Napoli, Roma, Marsiglia, Venezia. Un mondo che può apparire ristretto oggi abituati all'aereo che frantuma le distanze, ma che allora costituivano viaggi proibitivi per costo e disagi da affrontare, per gli ostacoli naturali e la paura dei briganti che potevano spuntare in qualsiasi gola. Eppure vi era una folta schiera di “clerici vagantes” che costituivano una comunità internazionale e si incontravano nelle capitali europee, come Napoli. Questa universalità dei personaggi appare oggi quasi miracolosa, e ancor di più la partecipazione dei calabresi confinati nella punta estrema della penisola. La Calabria non era tuttavia una realtà omogenea. Vi erano anche delle isole felici, come Parghelia, la patria del nostro personaggio.
Ecco cosa scrive Lorenzo Giustiniani nel suo Dizionario geografico pubblicato nel 1805, anno della morte di Jerocades. “Parghelia era un casale della regia città di Tropea, abitato da circa 2000 individui, che da pochi agricoltori in fuori, tutti gli altri sono addetti alla negoziazione marittima. Essi sono industriosi e commercianti. Vi si fabbricano quantità di coverte di cotone, che un tempo vendeano in Livorno, Genua, Triesti, Venetia etc.”
Deodat De Dolomieu, il grande naturalista francese che ha dato il nome alle Dolomiti, nel 1784 aveva scritto. “Nel mezzo della Piana fertile, che forma la prima gradinata della montagna di Tropea, vi è il piccolo borgo di Parghelia, notevole per l'industriosità dei suoi abitanti, il cui carattere contrasta con quello degli altri calabresi. Essi si dedicano tutti al commercio estero. In primavera partono e si disperdono in Lombardia, in Francia, in Spagna, in Germania. Vi commerciano, non i prodotti della loro terra che fornisce pochi beni di esportazione; ma mercanzie di facile trasporto, come le essenze, sete, coperte di cotone molto ben lavorate, che acquistano in altre parti della Calabria: e in cambio portano oggetti di lusso, che rivendono dopo nella provincia. Il villaggio è deserto durante l'estate. Le donne e i vecchi si occupano del raccolto, e in autunno gli uomini ritornano a depositare presso di loro i profitti della loro industria, e seminare le loro terre. Quasi tutti parlano francese; i loro modi sono meno duri, i loro costumi meno selvaggi di quelli dei loro vicini. Gioiscono delle piccole agiatezze della vita sconosciute ai loro compatrioti. Si deve sottolineare che benché le donne non viaggiano mai, esse risentono in qualche modo dell'esperienza e della frequentazione degli uomini nei paesi stranieri. Gli uomini sono grandi, le donne carine, e hanno una carnagione molto bianca; qualcuno ha gli occhi blu. La bellezza delle donne di questo villaggio è citato in tutti i paesi vicini. Un'altra cosa molto singolare, è che l'esempio di Parghelia non si trasmette alla città di Tropea, che dista non più di mezza lega, e che tutta l'industria della Calabria sia racchiusa in questo piccolo borgo”.
Qui nasce Antonio Jeorcades e la sua “patria” si imprimerà in maniera indelebile nella sua memoria. Quanto lascia Tropea nel 1765 e si reca a Napoli frequenta le lezioni di A. Genovesi, ma si ricorda dei suoi compatrioti e pubblica il "Saggio dell'Umano Sapere ad uso de’ giovanotti di Paralia", che contiene l'esposizione del suo pensiero pedagogico.
La seconda questione riguarda il suo ruolo nella diffusione della massoneria, che conosce nel suo esili marsigliese e lo portò in Calabria, dove fondò logge di «liberi muratori» cui aderirono gran parte degli intellettuali della regione a partire da Pasquale Baffi. A Napoli si formò il nucleo più importante, costituito da tutti i protagonisti della Repubblica Napoletana come Domenico Cirillo, Mario Pagano, Gaetano Filangieri e tanti altri. Nella corte napoletano era diffusa la voce che la stessa regina Maria Carolina, che aveva sposato Ferdinando I nel 1768, avesse simpatie massoniche. A Napoli il metastasianesimo era molto diffuso e l'Accademia dell'Arcadia era tenuta in altissima considerazione. La stessa regina volle che Antonio Jerocades ne fosse nominato capo, ed egli se ne servì per diffondere i suoi principi massonici, tanto che l'Arcadia si riteneva fosse la copertura di una loggia. Egli si fece propugnatore e propagatore fervido delle idee repubblicane, anticuriali e democratiche, che diede origine al movimento giacobino nel Regno di Napoli, e in seguito alla costituzione della Carboneria.
In essa si sperimentava la prima forma di autogoverno costituzionale con l'elezione democratica dei rappresentanti. Jurgen Habermas sostiene che proprio in quelle sedi iniziò a crearsi la “sfera pubblica borghese” che avrebbe portato alla diffusione del costituzionalismo in tutta Europa. Sotto l'influsso di questo gruppo di intellettuali si costituì il «Comune di S. Leucio», l'unico esperimento politico-sociale riuscito di comunità "socialista", il cui modello si tentò in seguito di riprodurre nella Repubblica Partenopea. Secondo una corrente di pensiero, la rivoluzione napoletana fu portatrice di “idealità”, mentre la rivoluzione francese fu portatrice di interessi concreti della borghesia. Questa astrattezza fu criticata aspramente da Vincenzo Cuoco che la considerava una delle cause del fallimento dell'esperienza rivoluzionaria, e le impedì di realizzare i suoi obiettivi, poiché agiva su un piano troppo distante dai sentimenti popolari.
«Formarono il comune sentimento della nazione italiana, fondandolo non più, come prima, sulla comune lingua e letteratura e sulle comuni memorie di Roma, ma sopra un sentimento politico comune», sostiene Benedetto Croce. Un processo che sarà bruscamente interrotto con l'Unità, quando si volle una omogeneizzazione forzata di tutte le diversità politico-sociali della penisola.
Ecco come Benedetto Croce ricostruisce la nascita del movimento massonico a Napoli nel 1792.
“L'agitazione rivoluzionaria cominciò a Napoli da quando vennero nel golfo le navi francesi comandate dal Latouche. Molti napoletani si recarono a banchetto a bordo della nave ammiraglia; ed ivi sorse l'idea di una società o club, sul genere di quelli di Marsiglia, che fu infatti, subito dopo, costituito in Napoli. Degli intervenuti il Rossi può indicare con sicurezza due soli nomi: Carlo Lauberg e Giovanni Pecher. Dal libercolo pubblicato nel 1799 da Giuseppe Albarelli col titolo “Il Decennio”, si ricava che un altro di quegli iniziatori fu l'abate e poeta Antonio Jerocades. L'Albarelli aveva composto un inno per l'uccisione del “Tiranno dei Goti”, ossia di Gustavo di Svezia accaduta allora per mano dell'Ankarstrom: “Quest'inno, egli dice, fu cantato tante volte sull'armonica lira del già savio Ierocades, nel vascello francese Languedoc, comandato dal cittadino Latouche”. Il Ierocades era massone come il Lauberg; e a riconferma dell'essere sorta la Società patriottica napoletana sul tronco dell'antica massoneria del regno, si possono citare queste parole dell'Albarelli: “Chi più di me era a giorno di tutti gl'intrighi patriottici di Napoli, ch'eran tanti derivati della grande unione massonica che un tempo esisteva in casa Naselli-Aragona?” Sulle relazioni dei congiurati col ministro francese Mackau, nello stesso libercolo è detto: “Il cittadino Laubert è vivo; egli può contestare quanto io dico, e può aggiungere che mi comunicava gran parte delle sue confidenze con quel ministro francese Mackau, cui presentommi anche una mattina, allorchè nella camera della vedova Basserville ne prese egli a tradurre in italiano quel manifesto, che valse di smentita al bugiardo foglio ponteficio fatto nella tragica avventura dello stesso sventurato Basseville”.
Il suo fervore democratico gli procurò guai con la giustizia. Fu processato e imprigionato dalla Giunta di Stato e poi liberato nel 1795, per indulto, ma costretto a ritornare in esilio a Marsiglia. Antonio Jerocades non fu solo un letterato - insegnò filologia all'Università di Napoli – ma anche un economista cui fu affidata la cattedra di economia e commercio (1793), dove avevano insegnato Ferdinando Galiani e Antonio Genovesi.
Nel primo giorno di settembre dell'anno 1738, nacque questo fervidissimo ed originale ingegno in Parghelia, picciola terra nella Calabria Ulteriore, in distanza di men di due miglia dalla città di Tropea. I sui oniesti e buoni genitori il destinarono al sacerdozio. Il giovane Jerocades ebbe maestro in filologia il modestissimo e dotto D. Francesco Ungaro, sotto del quale fece rapidi ed eminenti progressi. Fu messo indi nel seminario di Tropea, e molto si distinse negli studj di eloquenza e di filosofia. Ancor giovanetto scrisse varj panegirici, e componimenti in verso latino ed italiano, i quali fecero l'ammirazione di Monsignor lo vescovo; e la fama ne giunse fino in Napoli al chiarissimo abate Genovesi, con cui ebbe letteraria corrispondenza.
Nel 1759 per deferire alle brame di molti onesti suoi concittadini aprì nella sua patria, ove erasi ritirato, una fiorente scuola, cui portò il lume delle più belle letterarie e scientifiche cognizioni, insegnando, oltre il latino e l'italiano, anche il francese, il greco e l'ebreo, ed il più metodico corso di filosofia e di matematiche. In quella scuola dettò ai suoi discepoli un Saggio dell'umano sapere, che diè poi in luce in Napoli, dove recossi nel 1765 essendo già sacerdote. Avea già egli fatto stampare in Messina un componimento drammatico, intitolato “La partenza delle Muse”.
Giunto in Napoli fu orrevolmente accolto da tutti i dotti, de' quali allora doviziosamente abbondava questa capitale. L'abate Genovesi volle albergarlo, e trattollo con distinzione. Conosciutolo a fondo, il propose per maestro d'ideologia nel Collegio Tiziano di Sora. Jerocades vi andò, e somma gloria in quel Collegio acquistossi. Ne' ritagli di tempo che lasciavagli il suo infaticabile travaglio della scuola, ei compose il dramma, intitolato Sofronia ed Olindo, che fece dagli stessi suoi discepoli per lor divertimento rappresentare nelle ferie del Carnasciale. Nel seguente anno, a richiesta del Rettore per una farsa bernesca, e più analoga all'allegria di quei giorni, ei scrisse Il Pulcinella fatto principe. Questa comedia fu indi da lui trasformata nel Pulcinella fatto Quacchero, nella quale alla scena X introduce il Quacchero esponente la dottrina della sua setta. Colà qualche geloso della di lui gloria gli rapì lo scritto, e cominciò a screditarlo presso Monsignor Sisto, vescovo di Sora. Egli avvertito di ciò, congedossi dalla scuola, e ritornò in Napoli.
Qui poco tempo si trattenne, e trovato un imbarco per Marsiglia, colà recossi, e molti amici subito si acquistò. Annojato di Marsiglia, volea andare in Roma, ma i di lui buoni amici il consigliarono di ritornare in Sora presso Monsignor Sisto, il quale era rimasto dispiaciuto della bruscheria, colla quale Jerocades erasene partito. Arrendevole ai buoni consigli degli amici, ei ritornò in Sora, e Monsignor lo Vescovo per un altro biennio il ritenne come in correzione, e quasi in carcere. In questo secondo soggiorno colà, ei tutto diessi alla lettura de' SS Padri. Scrisse la sua apologia, che volea pubblicar per le stampe; ma l'ottimo Ministro di Stato Signor Marchese de Marco l'esortò a non farlo. Scrisse altresì un dotto poemetto intitolato il tempio della Virtù, che indirizzò al chiarissimo signor Giuseppe Glinni.
Ritornato in Napoli scrisse il Quacchero rapito, che dopo alcuni anni fe' stampare in Marsiglia. Qui cominciossi ad esercitare nel canto improvviso, e faceasi ammirare per la copia e leggiadria de' sentimenti ch'esponea. Era egli desiderato nelle più cospicue e brillanti società, nelle quali i più felici ingegni studiavansi a dargli de' temi difficili, e scabrosi, per improvvisare. Una sera del dì primo di Quaresima, un magistrato ritrovandosi in una di dette società, curioso d'investigare il modo di pensare di Jerocades su gli articoli di religione, diegli per tema il “Memento homo quia pulvis es etc”. Sul qual soggetto egli dottamente cantò: e due amici inosservati scrissero con estrema rapidità i di lui versi, a misura ch'ei li pronunziava. Così conservato questo pezzo di poesia, non sia discaro inserirlo qui alla fine.
Nel 1775, gli venne il pensiere di rivedere il suo paese natio. Colà tutto dedito allo studio amenissimo della poesia, compose la maggior parte di quelle canzoni, che poi formarono la Lira Focese; il Quaresimale poetico, e quasi tutte le canzonette, le quali indi riunite formarono l'opera intitolata Fileno e Nice. Dopo un anno ritornò in Napoli ed aprì scuola privata di Filosofia, ed Archeologia, la quale fu frequentatissima e celebre per i progressi de' auoi allievi.
Verso quel tempo fece tutte le traduzioni, che indi furon date a stampa, cioè di Fedro, di Orazio, di Pindaro, di Orfeo, degl'Inni della Chiesa, delle parabole del Vangelo. Scrisse anche molte cantate, e drammi, tra i quali la Sammitide, il Figliuol Prodigo, la Gelosia Vendicata, molte orazioni funebri, una inaugurazione agli studj, un discorso analitico su la Scienza Nuova di Vico, il suo prediletto poema intitolato IL Paolo, e moltissime altre dotte e profonde composizioni, riccamente sparse della più recondita e peregrina erudizione.
Nel 1783 flagellata la Calabria Ulteriore da orribili tremuoti, volle Jerocades andar colà per rivedere i suoi. Non guari tempo con essi si trattenne, ed imbarcossi nuovamente per Marsiglia, ove stampare il Codice delle leggi focensi, scritto in quel breve spazio che in Parghelia erasi rimasto. Da Marsiglia ritornò in Calabria, e dopo un anno venne in Napoli, dove die' alle stampe la Gigantomachia, per risposta all'antilira del Signor Spadea di Catanzaro, e pubblicò ancora il poemetto bernesco intitolato il Terremoto del Capo, il famoso Esopo alla moda, ed il poema che porta il titolo I guai di Orfeo.
Nel 1791 fu nominato in Napoli Professore ordinario alla cattedra di filologia; indi nel 1793 fu dato per sostituire al Signor Trojano Odazj nella cattedra di economia e commercio. In quell'epoca, per alcune canzonette composte all'occasione della flotta francese giunta in Napoli, fu mandato per correzione nella Casa de' PP di San Pietro a Cesarano in diocesi di Nola. In quel ritiro scrisse varie operette ascetiche, e tradusse i salmi in verso libero italiano.
Quasi due anni fu, pel turbine politico, ristretto nel Castel dell'Ovo; ed anche colà non seppe tacersi la sua musa. Avvenuta in quel tempo la morte di due rispettabili personaggi Niccolò Angelio e Girolamo Vecchietti, ed il signor Alessandro Petrucci, oggidì ottimo consigliere nella corte d'Appello di Napoli, suo dotto e caldissimo amico, avendo scritto un elegante sonetto in onor del primo, ed avendoglielo recitato, Jerocades rispose immediatamente per le rime in lode del secondo, con un sonetto che non si risente affatto dalla squallidezza del luogo, ove fu scritto; che anzi contiene nella chiusura un'epifonema pareggiabile al più sublime dell'Alighieri, e del casto lodator di Laura.
Nel 1799 fu mandato in Francia, e disbarcato a Marsiglia si trattenne presso i suoi amici. Colà scrisse e diede in luce molte elegie, le dieci giornate, e l'orazion funebre con varie inscrizioni sepolcrali per Vincenzio suo fratello, fra le quali ei ne inserì una elegantissima del signor Giuseppe Castaldi, ornatissimo Consigliere nella Corte di Appello di Napoli. Indi in agosto del 1801, dopo la pace di Firenze s'imbarcò su di un brigantino per ritornare nel regno. Nel viaggio, il capitano temendo di esser visitato dagli inglesi, obbligò i passeggeri a gittare in mare tutti i loro scritti, sull'idea che questi potessero ritardare la visita. Così furon perdute tutte le mentovate composizioni. Disbarcato a Civitavecchia, recossi a Roma per terra, dove mortalmente infermossi. Riavutosi, venne in Napoli, e quindi immediatamente ritornò nella patria, dove giunse il di 4 novembre dello stesso anno. Da colà dopo dieci mesi fu mandato nella casa de' PP Liguoriani di Tropea, e dissesi che ciò fu per corregerlo di quanto avea scritto nel detto elogio funebre di Vincenzio suo fratello. IN quel soggiorno molto s'indebolì la sua salute; e pur nondimeno colà molte cantate e sonetti scrisse, or per suo, or per genio altrui. Scrisse anche molte orazioni sacre, e novene di alcuni santi.
Essendosi perduta la sua traduzione dei Salmi, fatta in S. Pier Casarano, a sollecitazione di amici ei di bel nuovo li tradusse, con i Cantici della Chiesa, e non nello stesso metro del verso libero, ma in anacreontiche quartetti, terzine, ed ottave, secondo il vario argomento del Salmo.
Quest'opera fu intitolata il Salterio, perchè ha molta similitudine colla Lira Focense. Finalmente logoro dai disagi, e dalla improba applicazione allo studio, munito dei SS Sacramenti, e nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio nella medesima casa de' PP Giurani, il dì 18 novembre 1805; e da colà fu il suo corpo trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura de' Sacerdoti.
Antonio Jerocades riuniva eminentemente tutte le virtù che caratterizzano il perfetto filantropo. Modesto, benefico, sincero, generoso, affabile, fu caro, desiderato e pianto da chiunque avealo conosciuto. Frugale quanto altro mai, e riducendo a ben pochi i suoi bisogni, o non sentì giammai il pungiglione della miseria, anche in mezzo alle sciagure, o filosoficamente il sofferiva. Tutti i suoi onesti lucri erano impiegati a vicenda, or per far acquisto di libri, or per sollevare l'indigente amico. In tutto il tempo che in Napoli si trattenne, indivisibili suoi compagni furono Genovesi, Longano, Cavallaro, Malarbì, Pagano, Conforti, Cirillo e tutti gl'illustri letterati di quel tempo, i quali l'ebbero in grandissima stima.
(Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata de' loro rispettivi ritratti, a cura di Nicola Morelli, e Pasquale Panvini, Presso Nicola Gervasi Calcografo, Napoli, 1817)
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