OP

Mezzoeuro

Why not. Io so. Ma non ho le prove

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XI num. 31 del 04/08/2012


Rende, 31/07/2012


Finita una stagione di speranza

Un processo dimenticato. Qualche colpevole di terzo piano, tanto per gradire. Resta irrisolto il giallo della Calabria del malaffare, dell’intreccio malavita-politica. Che ci sia ciascun lo dice. Dove sia nessun lo sa.

“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero”. Lo scriveva Pier Paolo Pasolini negli ormai lontani anni ’60, denunciando l’intreccio tra malaffare e politica di cui era testimone senza avere la possibilità di trasformare le sue intuizioni in prove giuridicamente valide da produrre in tribunale. Ci sono voluti trent’anni perché quel velo si squarciasse e lasciasse intravedere il marciume che si nascondeva dietro i salotti buoni della politica e dell’economia.

A ripensare a quelle vicende oggi si resta sorpresi come la Calabria, e tutto il Meridione, siano rimasti sostanzialmente fuori da quel processo che ha “certificato” il candore e l’immacolatezza della nostra classe politica. Solo qualche big è stato sfiorato da qualche sospetto tra la sorpresa e l’indignazione di tutto l’establishment economico-finanziario pronto a schierarsi compatto a difesa dell’onore macchiato da una tale infamia alimentata solo da qualche sospetto. I processi sono stati accompagnati da lamentele e contumelie nei confronti dei giudici che avevano osato guardare dal buco della serratura dei potenti.

Certo i giudici avevano sbagliato tutto. Forse. Ma vi sono due elementi che fanno insorgere qualche dubbio. In primo luogo il comportamento degli elettori che per tutta la seconda repubblica sono andati alla ricerca di una soluzione, punendo in maniera clamorosa ed evidente il governatore uscente, con un’alternanza che non si è verificata in nessun’altra regione italiana. In quasi tutte si è premiata la continuità di potere che garantisse una governabilità per la competenza e l’esperienza maturata.

Il secondo, che è una conseguenza del primo, sono i risutati che hanno portato la Calabria sull’orlo della disperazione come dimostrato da tutti gli indicatori e testimoniato da tutti gli osservatori attenti della condizione economico-sociale della regione. Vi è una chiara e diffusa percezione di un fallimento sempre più grave ed evidente di cui sono tutti consapevoli.

In questo quadro di disperazione mancano solo i delitti e i colpevoli perché nessuno ha avuto il coraggio e la forza di costruire un impianto accusatorio in grado di individuarli e condannarli. Vi è un giudizio politico, ma in sede giudiziaria vi è un fuoco di sbarramento che impedisce da sempre l’accertamento della verità.

Non magistratura e forze inquirenti non facciano la loro parte. Le cronache sono piene d’inchieste, di operazioni dai nomi fantasiosi che coinvolgono centinaia d’indagati a vario titolo. Servono a riempire le pagine dei giornali, ma sfiorano soltanto la superficie del problema e gran parte si risolve in una bolla di sapone, contribuendo a rafforzare la criminalità che può vantare di farsi beffe della legge e dei magistrati.

L’unico che aveva osato tentare un affondo è stato Luigi De Magistris, oggi sindaco di Napoli. Forse svolgeva il ruolo di un Masaniello togato, o forse di un Don Chisciotte armata di una lancia di latta. Ma aveva acceso una speranza, la percezione che anche in Calabria era possibile usare la ramazza giudiziaria per pulire i corridoi del potere ingombri della spazzatura del clientelismo, nepotismo, soprusi, illegalità diffusa, distribuzione di favori e prebende, mazzettismo a perdifiato, incarichi e comandi di sconosciuti ed inutili consulenti. E via continuando con ogni nefandezza burocratica, amministrativa sotto la cui copertura si nascondono comportamenti malavitosi e criminali. Le tre principali inchieste entravano nel cuore del sistema politico, ne mettevano a nudo gli intrecci più inconfessabili.

“Why not” ha rappresentato una epoca poiché osato osservare i meccanismi di distribuzione delle prebende, il sistema di coltivazione delle clientele, l’allegra utilizzazione delle procedure per comportamenti arbitrari a beneficio degli assistiti. L’intreccio affaristico-clientelare è una evidenza nota a tutti e non c’è alcun bisogno di alcun accertamento giudiziario per verificare l’esattezza di quella intuizione. E’ rimasta nella storia recente la manifestazione organizzata a Cosenza a suo favore, che ha visto una partecipazione massiccia e spontanea di migliaia di persone, che non osannavano un capo, ma credevano fermamente che anche in Calabria potesse iniziare una stagione di moralizzazione della vita pubblica.

Invece di distruggere il sistema, di bonificare la politica si è distrutto chi aveva osato metterlo sotto accusa. L’indigesto spezzatino prodotto dalla suddivisione in mille rivoli di quelle inchieste costituisce uno stillicidio che inquina l’aria politica della regione senza alcun risultato. Alla fine saranno tutti colpevoli e non colpevoli poiché ogni reato trova una sua giustificazione o cavillo giuridico che impedisce di irrorare sanzioni.

Alla fine quello che non cambia è il sistema e la classe politica che continua a riciclarsi. La società “Why not” non esiste più. Il sistema è stato riprodotto tale e quale, con qualche affinamento, nella fondazione Field, uscita dal cilindro del governatore uscente e diventato un fiore all’occhiello del giovane e rampante Don Peppino.

Qualche condanna qua e là, tanto per dare l’impressione di non aver voluto insabbiare tutto, ha un sapore effimero, perché sar‡ sicuramente cancellata nei successivi gradi di giudizio, e di semplice assaggio perché colpisce terze e quarte linee, gregari e comprimari costretti a fare da scudo per sdebitarsi dei piaceri ricevuti.


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