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Mezzoeuro

Il federalismo di Trimalcione

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XI num. 40 del 6/10/2012


Rende, 4/10/2012


Lombardia, Lazio, Sicilia sono un caso esemplare di buone amministrazioni alle quali accodare la Campania e la Calabria

Per una volta i primati non si fermano sul Garigliano ma interessano in maniera equanime tutta la Penisola

Faceva quasi tenerezza ascoltare il senatore leghista interpellato sul caso Polverini. Tentava timidamente di addebitare lo sfascio politico-morale alla mancata attuazione del federalismo.

Quanto sono lontani i tempi del celodurismo, dell’orgoglio celtico, della devolution. Non si ricorda il suo nome e non ha molta importanza perché ormai tutto ciò che sa di leghista è entrato nel cono d’ombra dell’oblio e dell’indifferenza. Una giusta legge del contrappasso dopo una fulgida stagione passata sul palcoscenico politico nazionale a raccontare cazzate.

Eppure soltanto pochi mesi fa, la Lega minacciava la crisi di governo se non fosse stata completata la “Grande riforma” con l’approvazione dei decreti attuativi del federalismo. Oggi quell’arroganza si è trasformata in un balbettio indistinto alla ricerca di qualche argomentazione per difendere una azione di governo fallimentare che ha portato il Paese sull’orlo del baratro.

Sarebbe un errore pensare che la Lega sia stata affondata dal Trota e dal “Circo magico”, che ha scialato a sbafo sulle spalle dei contribuenti italiani irridendo e deridendo un terzo di essi, definiti “merdaccia levantina e mediterranea” dall’ineffabile Mario Borghezio, e prendendo per i fondelli il rimanente con la creazione del mito celtico,

l’esaltazione di un popolo padano e le buffonate rituali utili a riempire i vuoti culturali del movimento fondato su di un populismo becero e cafonal.

A seppellirla è stata la presa di coscienza dell’inconsistenza del suo impianto ideologico, l’evidenza di un disastro economico, morale, etico di un intero ventennio giocato su proposte politiche di un devastante vuoto programmatico.

La principale preoccupazione del governo Monti è stata quella di demolire il mostruoso impianto “federalista” che stava per abbattersi su di un paese già prostrato dalla crisi e il cui impatto avrebbe provocato un disastro senza precedenti nei conti pubblici e nella moltiplicazione dei poteri e privilegi della casta.

Della “Grande riforma” non ne parla più nessuno. Gli stessi leghisti hanno cambiato il tiro e cercano di nascondere il loro disastro ideologico nascondendosi dietro il rinnovato richiamo alla secessione.

“Per colpire la casta e i costi esagerati del settore pubblico manca il coraggio civile e radicale di abolire le Regioni. Lo scrivo da tempo. Sono la vergogna d’Italia, persino più del Parlamento (da dimezzare). Il marcio emerso ora è solo la cresta, il costo vero è il raddoppio di tutto: ci permettiamo il lusso di mantenere un doppio Stato, uno centrale e uno federale”. Lo ha scritto Marcello Veneziani su Il Giornale del 20 settembre.

“Le Regioni costano l’ira di Dio, moltiplicano il ceto politico e il finanziamento pubblico ai partiti, dispongono di poteri esagerati, divorano risorse, duplicano la burocrazia statale. Anziché accanirsi con gli spiccioli delle Province, è lì che bisogna tagliare”, continua Veneziani, addebitando alla loro creazione nel 1970, “l’inizio del declino italiano, del suo indebitamento e della crescita vertiginosa della partitocrazia”.

Una analisi lucida e condivisibile, che però provoca qualche perplessità per il pulpito da cui viene la predica. Il suo giornale, in coppia con Libero, sono stati gli alfieri del berlusconismo, i difensori dell’incrollabile alleanza che ci ha governati che aveva nella Lega Nord uno dei pilastri fondamentali.

In tutti questi anni il vento soffiava unicamente nella direzione della disgregazione dello Stato centrale, della devoluzione sempre più spinta di funzioni e poteri agli enti locali fino a trasformarli in veri e propri staterelli autarchici e autonomi nella loro organizzazione e nella gestione di una massa sempre più imponente di risorse.

I grandi giornali di famiglia hanno avuto una funzione devastante in tutti questi anni nell’alimentare un clima di tensione, una contrapposizione tra rivali piuttosto che una dialettica tra avversari politici. Il carcere comminato ad Alessandro Sallusti è certamente una aberrazione perché nessuno deve essere arrestato per le proprie opinioni, ma è certo che molto spesso i toni usati sono stati truculenti, tali da fomentare l’odio. Chi semina vento raccoglie tempesta.

Solo pochi mesi fa il ritornello era sempre lo stesso: «vogliamo la costruzione della nuova Italia, unita e federale» come ha dichiarato il sindaco Gianni Alemanno, esaltando i valori dell’autonomia, fino all’inverecondo spettacolo delle cene di Trimalcione organizzate autorchicamente.

Una rievocazione della Roma imperiale da contrapporre alle sceneggiate celtiche. Si è scelta la celebrazione dell’atmosfera di fine impero come rappresentazione della romanità “de noantri” che ben rappresenta il nuovo ventennio di cui gli ex aennini ne rappresentano l’animo più autentico e convinto, con la famelica voglia di soddisfare una fame atavica di potere e denaro e colmare il vuoto di una lunga astinenza. Si è disinvoltamente passati dalla tragedia del fascismo con i suoi miti marziali alla farsa del berlusconismo con i suoi festini carnascialeschi.

Se vi è una responsabilità diretta e indiscutibile della destra di governo, si deve sottolineare che i guasti maggiori sono la conseguenza della sciagurata riforma del Titolo Vdella Costituzione ardentemente voluta dal centrosinistra che l’ha approvata a colpi di maggioranza alla fine della legislatura.

Le successive elezioni diedero il potere a un trionfante Berlusconi, affiancato da un raggiante Bossi che si preparava alla grande devolution con una cessione di potere ancora più spinto alle regioni. Il referendum che si svolse in un clima surreale poneva questo grande interrogativo: volete una riforma “in senso federale” o la devolution? Una domanda che assomiglia alla scelta tra la ghigliottina e la forca. L’esito non scontentò nessuno, i vincitori perchè la considerarono come una sorta di premio di consolazione per la cocente sconfitta elettorali e i leghisti che alla fine si resero conto che avevano ricevuto in eredità lo strumento idoneo a mandare in frantumi lo stato nazionale.

Vi è una affannosa ricerca in questi giorni degli abusi più fantasiosi e originali perpetrati nei consigli regionali di tutt’Italia, auto blu, telepass gratuiti, cene luculliane, vacanze da sogno e così via. Si è calcolato che per tenere in vita i consigli delle venti regioni italiani si spende più di un miliardo di euro l’anno, una cifra enorme che ha creato una casta parassitaria di privilegiati famelici.

I due guasti principali introdotti nell’ordinamento sono però la frantumazione del potere legislativo e abolizione dei controlli.

Il vero problema italiano era la costruzione di uno stato efficiente che fosse in grado di dare delle risposte ai cittadini, in un quadro normativo coerente e unitario. Sarebbe stato necessario, come emerge oggi con chiarezza, decentrare la gestione nel territorio, l’amministrazione delle funzioni ma i cittadini devono essere uguali davanti alla legge.

Non sono ammissibili differenze nel diritto alla salute, nell’istruzione obbligatoria, nell’assistenza sociale, né rappresentanze diplomatiche regionali.

La legislazione deve essere unitaria, mentre la gestione affidata a organismi territoriali.

Né è in alcun modo giustificabile un trattamento così diverso tra i componenti dei consigli regionali, un aspetto che si potrebbe correggere definendo un criterio unico nazionale.

Quello che è urgente è un riordino amministrativo dell’intero sistema dei poteri locali, cui affidare la gestione delle funzioni. Bisogna decidere cosa fare di Regioni, Province, Comuni, Comunità montane, Asp, Asi, Consorzi di bonifica, Distretti scolastici, e tutti gli altri enti intermedi che costituiscono un apparato burocratico mastodontico ed inefficiente. Il problema non è se abolire l’uno a l’altro di questi enti, ma di procedere a una riforma organica che risponda razionalmente alle domande dei cittadini. Ve ne sono alcuni, come le Comunità montane che non servono a niente e fanno semplicemente aboliti, altri come i comuni che sono la prima interfaccia tra i cittadini e il potere vanno ripensati poiché è anacronistico mantenere ancora in vita comuni di poche decine o anche centinaia di abitanti.

Dopo decenni passati a introdurre riforme a tappe forzate è difficile immaginare una controrivoluzione attuata in poco tempo, poiché vi sono potenti forze più o meno occulte (o per meglio dire interessate) che si opporrebbero oggi come ieri a una semplificazione che restringa l’area del privilegio. Forse un approccio più graduale e meno traumatico potrebbe rivelarsi più efficace.

Quello che è certo è il bilancio fallimentare dell’esperienza regionalistica. Persino i padri putativi dell’ultima grande e sciagurata riforma in senso federale stanno timidamente iniziando un processo di abiura del loro apparato ideologico, con un autodafé riconoscendo i limiti di quella costruzione istituzionale che ha provocato infiniti guasti con la paralisi delle decisioni strategiche, come è il caso dei rifiuti, la lievitazione del debito pubblico, l’uso spregiudicato della potestà legislativa, la paralisi nella programmazione dei grandi interventi.

Il regionalismo immaginato dai padri costituenti aveva il suo riferimento culturale nel dibattito sulla costruzione di una Italia federale che doveva nascere dalla creazione di un quadro unitario partendo dalla diversità esistente dai vari stati esistenti sulla penisola. Ciascuno stato aveva una lunga tradizione storica, nonché un ordinamento giuridico e amministrativo ben consolidato, al quale nessuno voleva rinunciare.

La strada intrapresa fu molto diversa, ma la nostalgia dei vecchi stati non si è ancora completamente assopita, alimentata esclusivamente da un sentimento nostalgico, ma che non trova reale riscontro nell’agenda politica.

La politica è un continuo divenire e non si raggiungerà mai un assetto definitivo, poiché bisogna sempre adattarsi alle nuove sfide, cercare soluzioni in sintonia con i tempi e l’evoluzione tecnica Mentre si cerca faticosamente di creare uno spazio europeo comune, appare quanto meno anacronistico questa rincorsa alla difesa delle proprie radici e dei propri egoismi. Nel caso di Sallustri si lamenta il mancato adeguamento della legislazione italiana alla direttiva europea che obbliga gli stati nazionali facenti parte dell’Unione di abolire la condanna al carcere per i reati di opinione.

Il rispetto dei poteri locali non può trasformarsi nella completa autarchia, nell'arbitrio totale.


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