Gian Vincenzo Gravina: un genio dimenticatodi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XI num. 39 del 29/09/2012 |
Rende, 25/09/2012
Precursore della riforma della legislazione
Poeta letterato, ma soprattutto giureconsulto illuminato che diede un impulso decisivo al rinnovamento della cultura e della nascita dello Stato moderno, la cui opera è stata presa come modello da Gaetano Filangieri e Montesquieu
“Nel primo libro de “Lo spirito delle leggi, Montesquieu ha scelto di parafrasare in maniera evidente l'Origines Juris Civilis di Gravina nella sua descrizione iniziale dello Stato come una entità costituita dall'unione di forze e dall'unione di volontà”, scrive Michael Sonenscher in un libro del 2009 sull'opera dell'importante filosofo francese.
“Montesquieu ha preso utilizzato i termini “Stato politico” e “Stato civile” esplicitamente prendendoli a prestito dall'autorità di Gravina, laddove il primo è l'unione di tutte le forze individuali, mentre il secondo è l'unione di queste volontà”, aggiunge Duncan Kelly in un altro testo del 2010.
Mentre è superfluo domandarsi chi è Montesquieu, il nome di Gravina resta sconosciuto ai più sebbene con i suoi scritti abbia iniziato quel processo di rinnovamento non solo della legislazione, ma della concezione dello Stato arrivando a formulare i principi fondamentali dello stato moderno. Egli ha anticipato l'opera di Gaetano Filangieri, il quale con la sua “Scienza della legislazione” è diventato famoso in tutto Europa. Il suo nome è altresì legato al radicale rinnovamento letterario dell'Italia, essendo uno dei fondatori dell'Accademia dell'Arcadia.
Nel mondo anglosassone il suo nome è ancora ben noto e la sua opera è studiata nelle scuole e nei centri di studi e ricerche economico-sociali e filosofiche.
Ancora nell'Ottocento godeva di una altissima considerazione anche in Italia. In una raccolta degli scritti dei principali scrittori, critici e filologi, il curatore Emilio De Tipaldo scrive: “Noi confidiamo, che i nostri associati approveranno quel pensiero, che ci ha indotti a raccogliere in questo tredicesimo volume della nostra Biblioteca Enciclopedica Italiana alcune tra le opere più riputate di critica e di filologia, che vanti la nostra letteratura. Fra esse tiene il primo luogo il trattato Della Ragione Poetica di Gian Vincenzo Gravina, libro ricco di profonda dottrina, e sparso di molte fra quelle massime, che destarono maggior rumore a' dì nostri nelle teoriche de' letterarj innovatori”.
Nello stesso volume è contenuta una biografia scritta da Nicolò Varola, che lo considera “tra i rari intelletti che vi vennero dalla parte meridionale della nostra penisola”. Da queste sono tratte le notizie riportate, salvo diversa indicazione.
Giuseppe Boccanera da Macerata, che si occupò dell'illustre personaggio scrivendo una biografia inclusa nella raccolta degli uomini illustri di Calabria curata da Luigi Accattatis, scrive: “Ma chi mi darà la voce e le parole per favellare degnamente dell'immortale Gravina, uno dei più sublimi ingegni, che natura abbia mai prodotto nella sua magnificenza? Io tenterò nulla ostante d'intessergli un brevissimo elogio, sebbene, il solo suo nome ne formi il più compiuto ed il più bello”.
“Egli vide la luce il 21 gennaio 1664 in Roggiano castello prossimo a Cosenza nella Calabria Citeriore, dove aveano domicilio i suoi genitori Gennaro ed Anna Lombarda di onorata famiglia. Gregorio Caloprese suo zio non oscuro cultore della poesia e delle filosofiche discipline, abbandonata la romorosa Partenope godeva degli ozi tranquilli di Scalea sua patria. Colà prendeva sollecita cura d'istruire il nipote nelle lettere greche e latine, nella geometria e nella filosofia sulle traccie di Cartesio, di Bernardino Telesio e di Pietro Gassendo, che il giogo scuotevano della troppa lunga tirannia del Ruipato. La docilità, il castigato costumo, la perspicace intelligenza, la tenace memoria del giovinetto, in siffatta guisa gli procacciarono l'affetto dello zio, che tenevalo in conto di figlio; e quando fattosi adulto lo reputò idoneo ai severi studi delle leggi, lo inviò a Napoli raccomandato a Serafino Biscardo, che primeggiava tra que' giureconsulti. Non parve al Biscardo ancora maturo per tali discipline, e quindi lo affidò a Gregorio Masserio affinchè lo addottrinasse nella eloquenza. Fu allora che condusse a compimento le due tragedie il Cristo e il Sant'Atanasio. Finalmente parve al Biscardo abbastanza svegliato per iniziarlo nella scienza legale. Se non che allettato dall'amenità delle lettere mostravasi peritoso a volgere l'animo a studi che la ignoranza o la malizia avean renduti inamabili e scabri. Tuttavia si piegò ai consigli del Biscardo, e condotto dalla dottrina dei primi giureconsulti, massime da quelle investigatrice le Cujaccio, sulla via del sapere, rischiaratagli dalla storia, levò alto la mente, s'addentrò nei sublimi concetti di Platone e di Tullio, ed avvertì esser la legge la più efficace ragione scritta, il più nobile esercizio del pensiero. La profonda meditazione di ss. padri lo addusse ben anche alla retta intelligenza della ragione canonica, sicchè lungi dallo imitare i giovani dei suoi tempi che appagavansi di poche leggi dalla pratica superficialmente ammannite, correva sollecito ad approfondare l'ingegno in ogni parte del vasto scibile legale, più forse che nol comportava la sua complessione.
Era giunto agli anni 24 quando eccitato dallo zio, e per propria inclinazione si recò a Roma nell'anno 1688. Fu ospitalmente accolto dal torinese Paolo Coardi degli uomini dotti lodato estimatore. Colà non andò guari che la fama del suo sapere si diffondesse, onde gli fu agevole amicarsi col Fabretti, col Bianchini, col Buonarotti, con Emmanuele Marti e con altri letterati, che spesso raccoglievansi presso monsig. Ciampini. Due opuscoli pubblicati poco dopo la sua dimora in Roma, valsero ad estender la sua rinomanza ed insieme a concitargli quella odiosità che gli fu sorgente d'incessanti amarezze. Nel 1691, sotto il nomie di Prisco Censorino, diede alla luce il suo dialogo "De corrupta morali doctrina", in cui prende a dimostrare che i corruttori della morale maggiormente hanno nociuto alla religione che i più stacciati eresiarchi. L'anno seguente impresse sotto il nome di Bione Crateo il discorso in difesa dell'Endimione di Alessandro Guidi. Forse esagerava un po' troppo nelle lodi a questo poeta, forse assaliva i censori con soverchia asprezza. Non soffersero alcuni che si erigesse a un tratto riformatore della morale e del buon gusto. Di qui le famose satire di Quintino Settano, ossia di Lodovico Sergardi, stampate nel 1694, ove sotto il nome di Filodemo, di Giano, di Bione, di Calabro, si espone alla derisione, e si lacera la fama dell'illustre filosofo dipingendolo come corruttore della morale e della religione, mentre egli mostravasi propugnatore dell'una e dell'altra. Fingeva dapprincipio di non vi por mente, ma rattener non potendo lo sdegno, ne lo alleniva con alcune verrine, e con alcuni giambi che giacquero inediti, forse perché li conobbe inferiori alla eleganza e vivacità delle satire. Pure non cessava di rintuzzarlo sempreché gliene venisse il destro, e vuolsi che a lui alludesse nella vita del Cujaccio, ove accenna che questi mai non contese se non che con dotti degni di lui: dissimiles certe sannionibus nostris minime idoneis ad eruditi ulluis hominis iram. Ma che all'ira fosse concitato lo fece palese per incidenza in altre operette che non giova qui ricordare. Nondimeno è d'uopo notare o che il carattere satirico del Sergardi e l'umore piuttosto sprezzante del Gravina non potevano insieme acconciarsi, ancorchè non vi fosse concorsa la causa accennata dal Fabbroni, e la segreta ruggine cangiossi in nimistà aperta e solenne allorchè presso un loro amico turbarono la gioia convivale in una contesa che uscì dai limiti del semplice disputare. Gravina ebbe però il conforto che prendesse la sua difesa il dotto spagnuolo Emanuele Marti, il quale opponendo alcune annotazioni alle satire non solo rivide le bucce dello stile, ma giustificò il filosofo dalle turpi contumelie dell'avversario. Non vogliamo passar sotto silenzio che lo stesso Sergardi ebbe poi a provare quanto sia possente l'arma del ridicolo per cui sofferse nella salute, e morì lungi da Roma.
Queste persecuzioni però non isminuirono la fama letteraria del Gravina. Continuava a formar parte della dotta adunanza, che dopo la morte della regina Maria Cristina di Svezia teneva il principe don Livio Odescalchi, ond'ebbe origine l'Arcadia il cui lodevole scopo si era di por fine alle trasmodate ampollose smancerie dei secentisti, e richiamar gli studi alla semplicità dei classici. Il Gravina ne venne annoverato tra i più zelanti fondatori, e vi appartenne sotto il nome di Opico Erimanteo. Fu incaricato di stendere lo statuto, e pieno la mente di buon latino, prese a modello lo stile conciso, e dignitoso delle dodici Tavole. Poiché l'ebbe compiuto, nel dì 20 maggio 1696 convocò i soci sul monte Palatino, e premessa una eloquente orazione, i brevi dieci articoli della legge vennero approvati, ed incisi in pietra si promulgarono nel bosco Parrasio. Questa imitazione di leggi a reggimento di una forte repubblica portata a disciplinare un coro di poeti venne acremente derisa dal mordace Baretti. Pure non erano allora quelle leggi di lieve momento.
Non bastando alla vanità del N.A. gli onori che gli venivano dall'opera sua, di quella pure degli altri intendeva giovarsi: si attribuì la lode di aver non solo esteso quelle leggi, ma eziandio di averle ideate, e provocava il Crescimbeni, che n'era autore, ad uno adeguo gravissimo, anzi tanto questi arrovellossi che neppur la palinodia valse a moderarne il corruccio. Forte cuovevalo gelosia di preminenza poiché teneva discorsi avversi al custode generale, ma la guerra tra Alfesibeo ed Opico divenne manifesta allorché nel 1711 si piatì sulla intelligenza di una legge dello statuto. La contesa fu portata ai magistrati, e Gravina fu cancellato dall'albo. Coi suoi partigiani altra accademia eresse fuori della porta Flaminia ma fu di breve durata. Lo scisma raccontato dallo stesso Gravina in una lettera indirizzata al marchese Maffei, ma come ne avverte il Fabroni, questa storia ventosa venne dettata piuttosto dall'amor proprio che da quello della verità.
Tali dissidi però non poterono rallentar in lui l'ardor dello studio. Raccolse vari suoi opuscoli che pubblicò in Roma nel 1696. Sono questi: Specimen suis vi iuris, ossia una epitome del primo libro dell'opera insigne sull'origine del diritto. De lingua latina dialogus, ove dimostra la eccellenza di questa Epistola ad Gabrielem Reigneium, nella quale e' si querela della decadenza delle lettere in Italia dopo ch'era giunta al colmo della gloria. De contemptu mortis, in cui loda la costanza dimostrata da Francesco Caraffa in una grave malattia. Epistola ad Trojanum Mirabellum per consolarlo della perdita di un figlio. Delle favole degli antichi, trattato che fu volto in francese da Giuseppe Regnauld. Né queste furono le sole opere di lieve mole che diede allora alla luce. Salito al soglio pontificio il cardinale Francesco Albani, che assunse il nome di Clemente XI nel 1699, chiamò il nostro giureconsulto a leggere diritto civile nella Minerva. Nel 1703 ebbe la cattedra di diritto canonico, e per ultimo insegnò il decreto di Graziano.
Anche in questi carichi fe' mostra il N.A. di grande ricchezza di erudizione, e di quel sottile accorgimento che rende efficaci gl'insegnamenti. Però non gli sembrando il più acconcio il metodo di studi di que' giorni, sbandì le argomentazioni scolastiche, e si avvisò fin da principio di render manifesto l'ordine che terrebbe. Quindi pubblicò il trattato "De instauratione studiorum", poi "De repetendis doctrinarum fontibus", ove dimostra che per ben addottrinarsi in ogni scienza e' conviene risalire a' principii. I migliori autori da tenersi per guida avea già additati nell'opuscolo "De sapientia universu" stampato nel 1700. Ma le innovazioni non piacquero a quelli, cui la povertà dell'ingegno rendeva buie e difficili le dottrine del N.A., non che forse avverse alle avare intenzioni di alcuni. Quindi ebbe egli nuovi nemici che il censurarono, nuove e più acerbe discordie; scoraggiata la gioventù in poco numero frequentava la scuola, e tanto valsero le maligne arti che gli fu tolta la cattedra nel 1714.
Ma già la fama di lui si era diffusa in tutta Italia, e fuori, nè aveva penuria di cattedre. Quindi, comecchè vanitoso, pare si pigliasse veruna cura di esser risalutato in quel seggio, e stesso lieto invece del poter attendere ai suoi studi, con che provvide meglio che con l'onor della cattedra alla tranquillità del suo spirito e alla immortalità del suo nome. Fu intorno a quest'epoca, che, siccome narra l'avvocato Francesco Reina nella breve vita del Metastasio, "passeggiando il nostro una sera di state col poeta Francesco Maria Lorenzini ne' contorni di Campo Marzio, s'avvenne dinanzi alla bottega del Trapassi in gente che stava ascoltando la soave ed acuta voce del fanciullo cantore (Pietro Metastasio). Vide questi appena quei due letterati che tosto rivolse loro le sue graziose e lusinghiere rime. Meravigliò il Gravina di tanto ingegno, accarezzò il fanciullo, gli offerì una moneta da lui ricusata, chiesegli della sua condizione (pizzicagnolo), del suo esercizio (orefice), e se volesse viver seco, ond'esser guidato alla virtù ed alle buone lettere. Le adatte risposte del fanciullo mossero il Gravina a domandarlo, quasi figlio, ai genitori, che acconsentirono alla generosa richiesta, la quale crebbe la fama di quel grande scrittore, e lo rendette vieppiù caro alla nazione italiana". Meritamente più caro, che forse senza il fino accorgimento del Gravina, senza le generose sue cure, sarebbesi perduto questo lume della drammatica poesia, questo immortale poeta per semplicità, per tenerezza, per sublimità d'istinto, alle censure superiore, unico ancora.
Ma se la coltivazione delle lettere molta lode procacciò al Gravina, se non lieve ne raccolse pel suo zelo nel diffondere i buoni studi, ben maggiore fu quella che ottenne nella scienza del diritto. Dall'opera insigne: Originum jurisi civilis libri tres, avea stampato il primo libro in Napoli nel 1701, e tutti tre s'impressero in Lipsia nel 1708. Parlando del libro, ritiene il Gravina che la naturale equità sia stata dai Romani trasfusa nelle loro leggi, le quali colla loro ampiezza abbracciarono la somma dei diritti e dei doveri che sviluppansi in ogni civilizzata aggregazione.
L'opera del nostro fu accolta con plauso solenne non meno dai dotti stranieri che dai nostrani. I primi filosofi, e scrittori del diritto la tennero come base allo studio della scienza, nè si sdegnarono di attingere solleciti a quella fonte. Que' due grandi principii: la funzione di tutte le particolari forze offrire lo stato politico di una nazione; quella delle volontà lo stato civile, giovarono sommamente alle dottrine dei più chiari juspubblicisti, e del Montesquieu specialmente che lo nomina non senza tributo di lode. Non mancarono nondimeno detrattori, che tacciaronla di plagio quasi avesse espilato il Manuzio, il Cujaccio, il Tommasio, lo Stravio, il Gotofredo. Quanti scrissero del Gravina furono tutti prodighi dei ben meritati elogi, e noi ci limiteremo a far qui menzione dei uno scrittore di nazione non procliva lodar gli stranieri, di Antonio Terrasson, il quale nella storia della Romana giurisprudenza si esprime: che i tre libri dell'Origine del diritto sono riguardati come un tesoro di letteratura, e di giurisprudenza, che poche opere di questa scienza vi sono, le quali, quanto quelle del Gravina, abbiano così universalmente ottenuto la stima e l'approvazione, e che la sua bella latinità lo rende degno del secolo di Augusto.
Quantunque il nostro preferisce di scrivere in latino, non era meno valente scrittore italiano, nè gli studi gravi lo distolsero dal coltivare le lettere amene. Scrisse due libri della Ragione poetica. Quest'opera pose il nostro fra la schiera dei primi letterati d'Italia, i quali, causa forse la imperfezione degli studii, sogliono menar più rumore di uno scritto mediocre di estetica o di filologia che di un buon trattato scientifico.
Venuto a morte nel 1714 il Caloprese si restituì il Gravina alla patria tanto per raccogliere la eredità di cui avealo beneficato quanto per riparare alla salute resasi mal ferma per le lunghe intense meditazioni. Accenna il Giustiniani che intorno a quest'opera ebbe il nostro la rettoria della chiesa di Santa Maria di Miano. Non sappiamo che officio si fosse questo, ma certo non ecclesiastico, perché il Gravina tuttochè eccitato instantemente dal celebre pontefice Innocenzio XII rifiutò di abbracciare il sacerdozio, allegando di non poter in coscienza assumere uno stato, in cui non sarebbe sicuro poterne adempiere i doveri.
Nell'anno 1716 fece ritorno a Roma, anziché recarsi in Lipsia, la cui acclamata università gli offeriva una cattedra, che rifiutò scusandosi per incerta salute; e cedette invece alla inchiesta del duca Amadeo II, che ornar ambiva di questa gemma la sua università di Torino, affidandogli oltreché l'insegnamento del civile diritto, la presidenza degli studi. Mentre però disponevasi a partire cadde ammalato, mancò a' vivi il 6 gennaio 1718 e fu tumulato nella chiesa di S. Biagio della Pagnotta.
Egli era di statura elevata, macilento, guercio. L'aria grave del suo volto esprimeva la importanza dei suoi pensieri. Era piuttosto taciturno; il suo dialogo scarso di parole, gravido di idee. Tra le brigate degli amici spianava la fronte corrugata, e componendosi a letizia dava luogo allo scherzo urbano e gioviale. Cultore di buoni studi ne procurava con zelo la diffusione, e la sua casa era il convegno dei dotti. Visse caro ai pontefici Innocenzo XIII e Clemente XI. Venne onorato dall'amicizia di parecchi cardinali, e di altri personaggi distinti per autorità: da ogni dotto d'Europa era la sua relazione ambita. Sopra l'Italiano, in cui poco scrisse, prediligeva il latino idioma, ed è opinione comune che sì sperto e terso scrittore e' fosse da ricordare il tempo di coloro che resero celebre la corte di Augusto.
Nel secondo centenario della sua nascita nel 1813 la sua città natale volle aggiungere al suo nome quello del suo più illustre cittadino chiamandosi Roggiano Gravina.
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