Mezzogiorno dimenticatodi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XII num. 8 del 23/2/2013 |
Rende, 21/2/2013
Ad urne quasi aperte
Si è parlato di tutto in questa strana campagna elettorale. Persino delle sciarade della Lega, che dopo i disastri provocati in questo ultimo ventennio pretende ancora una volta di imporre le sue mirabolanti idee all’intero Paese.
Finalmente il silenzio. Dopo il profluvio di parole, promesse mirabolanti, programmi faraonici si può tentare qualche meditazione su quanto abbiamo sentito in questa estenuante campagna elettorale. Per fortuna è stata interrotta dal festival nazional-popolare di Sanremo e dalla decisione inaspettata delle dimissioni del Papa, che rappresentano un severo monito per tutti coloro che ritengono di poter occupare la scena all’infinito perché il mondo ha bisogno di loro.
Il gesto di grande umanità del Papa ha messo in evidenza i limiti di ciascuno, perché se non si può scendere dalla Croce secondo l’insegnamento di Papa Wojtyla, ma si rimane schiacciati sotto il suo peso e non essere nelle condizioni di governare i processi. La Chiesa può sopportare dei momenti di riflessione, mentre uno Stato moderno non governato provoca conseguenze letali sul benessere dei suoi cittadini. Tutti siamo importanti, ma nessuno può ritenersi indispensabile, anche se i vecchi tromboni della politica tendono a dimenticarlo spesso, o ritenere che la regola valga per tutti … gli altri.
Non vi è dubbio che la gravità del momento richiede una scelta chiara perché il Paese ha bisogno di un periodo di tranquillità politica e di scelte nette e precise per realizzare quel cambiamento strutturale necessario per riprendere il cammino dello sviluppo. Ma i protagonisti sembrano logori, incapaci di un colpo di reni, di presentare un progetto di futuro credibile.
Lo stesso Mario Monti che era riuscito nei mesi del suo governo a recuperare credibilità all’estero si è lasciato intrappolare in una logica elettorale che lo ha costretto a togliersi la maschera del tecnico e assumere quella di un politico alle prime armi, impacciato nel rincorrere promesse e paradigmi programmatici miranti a carpire il consenso piuttosto che costruire una piattaforma possibile per il futuro.
I Cavaliere ha recitato brillantemente la sua parte da attore consumato, riuscendo ancora una volta ad accendere gli entusiasmi del suo elettorale che ha sempre apprezzato la sua platealità, l’istrionismo dei modi, la facilità di un venditore consumato. Il suo non è più un programma, ma la stanca rilettura di buoni propositi ripetuti nel corso degli anni, che hanno il sapore di una minestra riscaldata. Tuttavia, le sue indubbie capacità potrebbero produrre qualche sorpresa, anche se le possibilità di recupero sono state frustrate dal ciclone Grillo che si è abbattuto sul panorama politico e rischia di mettere tutto in discussione.
Ai nostri meridiani quello che colpisce è l’assoluta assenza del Mezzogiorno nell’agenda politica dei grandi partiti. Vi sono una miriade di piccole formazioni che vorrebbero trovare spazio ergendosene a paladini, ma sono creazioni elettorali che difficilmente riusciranno a trovare una qualche rilevanza nel dibattito politico e men che meno nel governo del Paese. Tentano soltanto di sfruttare il malessere diffuso e un vuoto totale per potersi creare uno spazio.
Il programma per il Mezzogiorno si è limitato a qualche accenno al fantomatico ponte sullo Stretto con uno scambio di battute sull’opportunità o inutilità di realizzarlo e null’altro. Neanche una fugace menzione dell’autostrada, ad esempio, da decenni nostra croce e delizia. Non vi è modo di sapere se e quando verrà finalmente completata, né vi è stata un pur striminzito elenco delle grandi opere infrastrutturali da realizzare per portare il Mezzogiorno in Europa.
Neanche il Movimento Cinque Stelle si distingue al riguardo. Nei lunghi monologhi grillino il Mezzogiorno non esiste, pur trattandosi di una area pari a circa un terzo del Paese dove si concentrano i tre quarti dei problemi italiani, dalla disoccupazione, alla criminalità, agli abusi legali e dove si sta ricreando una condizione di estrema miseria che coinvolge un numero crescente di famiglie.
Le analisi socio-politiche partono tutti da un dato di fatto dato per scontato e propongono piccoli correttivi per poter uscire dalla grave crisi in cui è piombato il paese. Si dimentica che il disastro dei nostri conti pubblici non è il frutto degli sprechi, che pur vanno eliminati perché sono moralmente ed eticamente inaccettabili, ma in primo luogo sono la diretta conseguenza di un modello culturale assurdo, una agenda politica che negli ultimi due decenni è stato imposta dalla Lega con la sua balzana idea del federalismo, che ha creato dei voraci mostri sul territorio che hanno divorato risorse enormi e continuano a rappresentare i più grandi ed inefficienti centri di costo. La più efficace “spending review” non può che scalfire solo in superficie questo enorme bubbone, ma la soluzione radicale va affrontata con la rivisitazione di questo modello istituzionale. L’abolizione delle province è un palliativo, perché l’effetto discorsivo più rilevante è costituito dal potere legislativo attribuito alla Regioni, all’assurdità della loro autonomia finanziaria che provoca le degenerazioni alla Barman, ma soprattutto una disparità di trattamento dei cittadini sulla pura base dell’appartenenza territoriale.
Come si può giustificare una diversità del diritto alla salute a Palermo rispetto a Torino? E’ possibile accettare che la Lombardia abbia una sua rappresentanza diplomatica in America, o che nel varesotto sia possibile costituire le ronde dei “barbari sognanti”?
Per anni ci siamo lasciati intrappolare dalle fulminanti allucinazioni leghiste e tutti i partiti hanno cercato hanno di rincorrerli su questo terreno, senza un’attenta valutazione delle conseguenze politico-sociali, ma soprattutto economiche delle loro scempiaggini. Siamo arrivati ad approvare una riforma costituzionale in “senso federale”, che in assenza delle entità statali da federare costituisce un nonsense assoluto. Questo è il regalo lasciato in eredità alle future generazioni dalla coda del governo del centrosinistra e che è stato utilizzato successivamente dal duo B&B Bossi-Berlusconi per provocare il più formidabile shock finanziario dalla nascita della Repubblica.
L’analisi del trend di formazione del debito pubblico italiano è illuminante al riguardo. Nei primi quaranta anni della prima repubblica si è creato circa il 50% dello stock, in un momento in cui l’Italia ha realizzato il più imponente programma di investimenti tanto nel Sud con la Cassa del Mezzogiorno che nel Nord con la realizzazione delle grandi reti stradali e autostradali e il consistente aiuto all’industrializzazione del triangolo che ha portata l’Italia a diventare la quinta potenza economica del mondo. Non sono mancati certo fenomeni corruttivi, e Tangentopoli ha mostrato in maniera impietosa quanto diffuso fosse il malaffare, ma non vi è dubbio che è prevalsa la capacità realizzativa.
Nel ventennio della sciagurata seconda repubblica si è prodotto l’altra metà del debito, in un contesto caratterizzato da una tranquillità economico-finanziaria con una struttura dei tassi di interessi caduti ai minimi storici e un quadro di stabilità che avrebbe potuto consentire di avviare quegli aggiustamenti necessari per adeguarsi ai paesi più evoluti dell’Europa.
E’ stata una occasione persa, poiché invece di entrare nel gioco internazionale per incontrare i nuovi protagonisti della scena economica mondiali, i paesi emergenti del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) ci siamo attardati nella caccia agli extra-comunitari, nella creazione del parlamento del Nord a Monza, nella ricerca di un modello federalista senza nulla da federare. Per dirla con assoluta franchezza, il modello leghista ci ha ridotto con il culo per terra, ed ancora pretendono di dettare ricette per il futuro. Uno dei risultati più importanti che si può aspettare da queste elezioni con tante incognite è la riduzione della Lega Nord ad un partito del tutto marginale per adeguarsi al livello culturale che caratterizza il suo background.
Sicuramente il ciclone Grillo si abbatterà sulle istituzioni e nessuno è in grado di stabilire prima dell’apertura delle urne quanto violento sarà il suo impatto. Non si ha alcuna voglia di fughe in avanti e auspicare una condizione di ingovernabilità. Ma certamente il malessere è diffuso, e soprattutto è molto esteso e vasto il fronte di coloro che ritengono superata questa classe politica di qualsiasi colore. La formazione delle liste ha deluso di molto le aspettative, soprattutto nella nostra piccola Calabria, dove si è attuata una spregiudicata operazione di colonizzazione che ha mortificato le potenzialità locali. In nessun partito si è cercato di rinnovare nel profondo la propria rappresentanza, anche laddove si è fatto ricorso a metodi pseudo democratici è prevalso l’apparato sull’ansia di rinnovamento.
Forse è il caso di rimpiangere Renzi e la sua voglia di rottamazione, che avrebbe spalancato una finestra per far entrare aria nuova nell’arena politica. Ora il nuovismo si concentra nei grillini che sono chiamati a rappresentare la protesta e la voglia di novità, il desiderio di chiudere un momento infausto della storia nazionale. Rappresentano un rischio di instabilità e una opportunità di rinnovamento. Sono per la maggior parte sconosciuti nel panorama politico locale e nazionale e privi di esperienza, ma sono in molti a pensare che è l’unico modo per poter ottenere l’estinzione dei dinosauri.
Quanto sia poco considerata la Calabria lo dimostra la vicende di Saline Ionica che avete letto nelle pagine precedenti, dove viene riportato un articolo tratto dal settimanale Sette del Corriere della Sera. Un affare da un miliardo e mezzo di euro che viene completamente snobbato dalla Regione. Nessuno tra il governatore e i suoi assessori trovano il tempo di occuparsi di queste quisquilie.
Si tratta della costruzione di una centrale elettrica a carbone, un tipo di impianto da sempre osteggiato dagli ambientalisti per gli effetti che produce sul territorio. Si tratta però di un progetto che vale qualche migliaia di posti di lavoro, proposto da una multinazionale svizzera e forse meriterebbe almeno qualche minuto di attenzione anche per rifiutarlo in toto e proclamare con soddisfazione che si è impedito l’ennesimo scempio ambientale.
Lo sviluppo non è frutto del caso, ma è il risultato di una attenta programmazione e la capacità di valutare rischi e opportunità degli investimenti. La politica del nimby (not in my backyard) è sterile se non è accompagnata da una capacità di valutazione tecnica delle proposte. Questo significa avere una classe politica competente, ma soprattutto onesta che riesca ad agire nell’interesse della collettività.
Anche per questo si va alle urne il prossimo week-end. Ma non è facile trovare il giusto mix di competenza, esperienza, rinnovamento, eticità e senso del “public service” che dovrebbero caratterizzare i nostri futuri politici.
Alla fine dobbiamo sperare che il responso della “folla” che si reca alle urne è l’ordalia che assicura la ieraticità del responso. La grande paura dei partiti potrebbe essere la grande speranza dell’Italia.
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