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Mezzoeuro

Marco Aurelio Severino, il fondatore della chirurgia moderna

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XII num. 10 del 9/3/2013


Rende, 5/2/2013


Si immolò nel tentativo di arginare la peste del 1656

Scienziato poliedrico, nativo di Tarsia, fu un grande innovatore nella scienza medica. Conosciuto in tutto Europa fu osteggiato dai suoi colleghi. Costretto a lasciare la cattedra universitaria finì in carcere. Quando a Napoli si diffuse la peste, mentre tutti gli altri fuggivano, restò in città per tentare di combattere il terribile morbo.

Marco Aurelio Severino fu il più dotto medico e scienziato del Cinquecento, la cui fama si diffuse in tutta Europa, considerato fra i più noti maestri del suo tempo. Promosse con intelletto d'amore la conoscenza dell'anatomia comparata, e molte furono le scoperte anatomiche da lui fatte. Teorico e operatore diretto di una chirurgia attiva detta da lui stesso ‘del medicar crudo’, fu valente anatomista e pubblicò la Zootomia democritea la prima opera di anatomia comparata. Egli diede una base scientifica al proverbio calabrese “lu miedicu pietusu fa la piaga verminusa”.

Le note biografiche sono un patchwork tra le notizie riportate da Prioli, De Renzi e Accattatis.

Nacque a Tarsia, paese della Calabria Citeriore, nell'anno 1580, il giorno 2 di Novembre, dal celebre giureconsulto Giacomo Severino, e Beatrice Oranges; cui quasi presaghi i genitori de' suoi profondi talenti ed esimie virtù, imposero il nome di Marco Aurelio.

Affidato alla direzione dei più celebri maestri, che in quei tempi fiorivano abbondevolmente in Napoli, e favorito da natura de' più perspicaci talenti, dietro un indefesso studio e fatica divenne in breve filosofo, giureconsulto, medico dottissimo, ed in ogni genere di erudizione espertissimo. Infatti, dal celebre Tommaso Campanella apprese la filosofia telesiana: da Nicolò Antonio Stelliola e da Cesare Coppola le matematiche e la chimica: da Giulio Cesare Romano, da Latino Tancredi e da Quinto Buongiovanni la medicina; da Giulio Jazolino la chirurgia;e finalmente da Cesare Scarlato la giurisprudenza, nella quale profittò cotanto, che ad esempio di Budeo commentò con somma dignità le Pandette.

Quest'opera, che per la sua eccellenza avrebbe goduto la pubblica acclamazione, fu tolta all'autore da un potente personaggio, né si è potuta mai più rinvenire.

Il primo febbraio del 1606 il collegio medico di Salerno, il più antico d’Europa, gli conferì la laurea in Alma Philosophia e Sacra Medicina. In un concorso dato in Napoli, per la pubblica cattedra di notomia egli ottenne il primo luogo, e ne disimpegnò per qualche tempo le funzioni; ma vacando la primaria cattedra di medicina, fu con applauso universale designato per la medesima. Era innumerabile la frequenza dei giovani, che concorrevano alla di lui scuola, e la fama della sua eloquenza e profondità di dottrina si diffuse non solo nell'Italia, ma in ogni parte d'Europa, in guisa che non vi era forestiero sensato, che giungendo a Napoli non si desse tutta la premura di conoscere personalmente questo letterato, e non accorresse alla di lui scuola per ammirare la sublimità delle sue cognizioni. E qualche insigne letterato ritornando da Napoli, si presentava in Roma al Pontefice Urbano VIII, interrogato da questi, che cosa di buono avesse trovato a Napoli, rispondevano tutti: Severino!

Ma poiché gli uomini grandi non sono mai esenti dall'altrui invidia, malgrado la pubblica stima che godeva, sostenne più d'una fiata replicate accuse in materia di religione; ma superiore sempre a se stesso distraeva le passioni dell'animo con la letteratura la più amena e faceta, ora declamando contro gli astrologi, ora contro i filosofi ed oratori più insigni, ed ora scrivendo argomenti poetici ed oratorii. Abbiamo di lui in italiano la Galleria del Casa, la Topica di Giulio Camillo, un trattato della Commedia Antica, la Filosofia ovvero il Perché degli scacchi, e le Querelle dell'Et accorciata.

La sua bibliografia è di una varietà straordinaria con saggi e studi sulla letteratura, logica, fisica, chirurgia, medicina, notomia e fisiologia. Undici se ne contano delle più accreditate, e che trovansi nel Catalogo del libro intitolato Therapeuta Neapolitanus, e che possono rinvenirsi nelle biblioteche de' letterati.

“Egli, scrive Tridente, fu riformatore della chirurgia nel senso di ridarle il volto di vera scienza e di affrancarla di mestieranti, e accrebbe lustro all'Ateneo napoletano che divenne per merito suo centro primario di studi, ove discepoli numerosi italiani e stranieri accorsero … fu in relazione con uomini sommi, quali Campanella, lo Schoffer, il Vesling …”

Bellissima però si è la satira, che a questo proposito pronunciò il Volchomero, cioè, che il Severino cercò di acquistarsi fama della moltitudine delle sue opere più che dalla bontà delle medesime.

Le sue scoperte nella notomia, furono così interessanti, che il Peye, il Graaf, ed il Leutand, ed altri posteriori oltramontani non si sono vergognati di rendersene padroni, dichiarandosene autori!

Essendo egli fautore di quella medicina, da lui chiamata efficace, che adopera, cioè il ferro ed il fuoco, essendo il chirurgo di questo primario ospedale degli Incurabili, soggiacque alla gelosia de' suoi emuli, ai quali riescì di farlo allontanare dal suo impiego, e di farlo persino porre in prigione.

L'innocenza, però, fedele scopritrice della verità, fece riacquistargli il credito, che se gli voleva offuscare, e nel riavere il posto primiero rimase coperta d'infamia l'altrui perfidia.

Nel 1856 Napoli fu flagellata dalla peste che si era già abbattuta sull'intera Europa con conseguenze disastrose. Si diffuse un terrore tale che gran parte della popolazione fuggì dalla città, compreso i medici che abbandonarono i quartieri alla loro sorte, ignorando le intimazioni di restare a fianco della cittadinanza. Non si riusciva neanche a liberare le strade dai numerosi cadaveri che aumentavano di giorno in giorno rendendo l'aria irrespirabile.

Marco Aurelio Severino aveva 76 anni, non si allontanò dalla città, ma insieme al più giovane Felice Martorella, che gli era successo dal 1645 nella cattedra presso il Regio Studio, si assunse il difficile compito di organizzare una resistenza al morbo, benché la scienza non avesse ancora individuato una cura efficace. Fu così vivo ed interessante lo zelo, che ei pose nella cura de' suoi concittadini in quelle pericolose circostanze, che sebbene sogliono i figli abbandonare le madri, queste stesse i lor più cari figli.

“Egli accorreva dovunque il bisogno lo chiamasse, internandosi nelle case le più infette e negli ospedali i più numerosi, in guisa che contaminato il di lui sangue da quella lue pestilenziale, dovette anch'egli soccombere al desolatore flagello, che spopolò questa vasta metropoli co' suoi deliziosi contorni”.

Fu nominato presidente della commissione di medici per accertare la natura del morbo. Dopo aver sezionato due cadaveri, il 2 giugno 1656 concluse per la natura pestilenziale del morbo, redigendo una relazione, in cui furono riportati anche i consigli sanitari ritenuti più opportuni per affrontare il morbo. La cura generale consigliata consisteva in purga, induzione del vomito, provocazione del sudore e cavar sangue. La cura locale dei bubboni, pustole e petecchie “se escono con conferenza e tolleranza, si lasci l’opera della Natura, aiutando l’uscita con medicamenti emollienti rilassanti ed attraenti…se poi i bubboni non riuscissero bene, si ponga sopra dette parti ventose, con iscarificazione, sanguisughe, vescicatorii…

Nonostante gli interventi, tardivi, delle autorità e i rimedi consigliati dai medici, la peste si diffuse fra la popolazione: si stima duecentomila morti solamente a Napoli in circa un anno. Egli stesso fu infettato, ma continuò fino alla fine a dare assistenza ai malati. “Il dì 16 luglio del precitato anno 1656, contando 76 anni della sua età, morì in Napoli questo valente filosofo, e fu sepolto nella chiesa di S. Biagio de' Librai, sine lapide, sine titulo; ma per la desolazione in cui trovavasi la città, e forse per invidia de' suoi stessi concittadini, che troppo superiore lo vedevano ai loro limitati talenti, non vi fu alcuno che gl'innalzasse un monumento”.


La peste a Napoli nell'anno 1856

I più forti morivano istantaneamente, e spesso uno sternuto segnava il termine della vita. Altri cadevano in un respiro. Altri presi da forti vertigini morivano, come avvenne al celebre Marco Aurelio Severino. Altri presi da delirio si andavano a gittare a mare. Altri presi da delirio si andavano a gittare a mare. Altri erano presi da subito pallore sudore e tremore, e, mancando le forze, spiravano. Altri si davano a rapida fuga, come se fossero inseguiti, e si gittavano ne' precipizii. Altri furiosi si precipitavano dall'alto; altri si gittavano nei pozzi; altri malinconici e tristi passeggiavano lentamente, si accasciavano, si rialzavano, finché cadevano sfiniti, né si rilevavano più. Altri oppressi da forte sonno si gittavano sul letto, e vi restavano cadaveri; ed altri sorpresi da strani delirii passeggiavano su' tetti, e si reggevano su' merli, sa arrampicavano alle muraglie, d'onde spesso precipitando morivano …

Si nominò una Deputazione di sanità, alla quale venne confidata la esecuzione delle deliberazioni prese, e se le diede il carico di esaminare quel che occorresse fare in quell'estremo frangente. …

Queste deputazione diede incarico a' Medici più rinomati di que' tempi che osservassero non meno gli infermi, che i cadaveri, facendone esatta notomia. Onde a ciò i medici ragunatisi insieme, presiedendo loro il famoso Marco Aurelio Severino cotanto celebre al mondo per le sue opere (morto dappoi ancor egli di peste), fu conchiuso che il male fosse pestilenziale. La sezione de' cadaveri fu eseguita da Severino e da Felice Martorella rinomato chirurgo.

Quasi tutt'i componenti della Deputazione morirono vittima della peste, e furono surrogati da altri, fra' quali si distinse un Pietro Carrafa. Costoro si riunivano nella Chiesa di S. Lorenzo per deliberare sopra quel credevasi più opportuno in tanta vicenda di sventure e per tanto popolo. Gli storici non ci han lasciato compiute notizie di quel che fecero gli eletti e di quel che fece la Deputazione, e sol poche cose appariscono dalle prammatiche e dalla notizie scritte: ma certo si affaccendarono molto, ma il frutto fu poco, perché il male non aveva più rimedio, tuttavia è obbligo della storia di tributare alla memoria di quegli egregi cittadini una parola di gratitudine e di encomio. Si occuparono de' pubblici bisogni e non della custodia della loro vita, e se non riuscirono non furono per questo meno benemeriti. Gli eletti di città si preoccuparono di ricordare i seguenti provvedimenti …

S'arrivò finalmente al punto che cominciarono a mancare i mezzi per raccogliere e trasportare i cadaveri, e si vide Napoli ingombra di carretti e di molti carri trasportati da' bovi. Nello stesso tempo si vedevano giacere nelle case, nelle piazze, ne' chiassuoli, nelle pubbliche vie, negli atrii, sulle porte delle chiese, moltissimi nudi e sozzi cadaveri, che muovevano la pietà di chi passava, li mettevano in pensiero sulla loro sorte, mentre per l'immenso numero non vi era chi seppellisse quei cadaveri, non solo per l'assoluta deficienza di becchini, ma anche per la rotta disciplina, non essendovi chi sapesse imporre di torre via dal pubblico sguardo l'orrendo spettacolo di cadaveri di due e tre giorni e semicorrotti, e puzzolentissimi. I discepoli di Marco Aurelio Severino, per dare onesta sepoltura al loro venerato maestro, lo presero sulle proprie spalle e lo andarono a riporre in una sepoltura della Chiesa di S. Biagio de' Librai. (da Salvatore De Renzi, Napoli nell'anno 1656, Documenti della pestilenza che desolò Napoli nell'anno 1656 preceduta dalla storia di quella tremenda sventura, Napoli, 1857)


Bibliografia

Francesco Priolo, Medici calabresi illustri da Pitagora ad Anile, Setel, Catanzaro 1952

Salvatore De Renzi, Napoli nell'anno 1656, Documenti della pestilenza che desolò Napoli nell'anno 1656 preceduta dalla storia di quella tremenda sventura, Napoli, 1857

Luigi Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza 1869


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