Vëllamja, un rito perduto della Pasqua arbëreshdi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XII num. 13 del30/3/2013 |
Rende, 28/2/2013
Una antica tradizione che manteneva in vita la coesione del gruppo e favoriva la solidarietà in una società contadina povera. Solo il reciproco aiuto riusciva a superare le difficoltà e la penuria. La molteplicità dei legami sociali consentiva di sopravvivere.
I numerosi paesi albanesi della Calabria hanno quasi tutti dei riti per festeggiare la Pasqua che in qualche modo presentano degli elementi peculiari, in particolari quelli appartenenti all'Eparchia di Lungro che conservano il rito greco-bizantino. La Settimana Santa costituisce il periodo più importante dell'anno liturgico bizantino, tanto che viene chiamata “Java e Madhe”, la “Settimana Grande” e le manifestazioni religiose raggiungono il loro apice con numerosi riti che si rincorrono per tutta la settimana ed anche oltre.
In molti paesi albanesi, ad esempio, ancora oggi dopo la resurrezione si festeggia con la vallja, un ballo in costume tradizionale che viene eseguito per tutte le vie dei paesi. In particolare la tradizione si mantiene ancora viva, nonostante la ostinata opposizione del clero latino, che ha tentato in tutto i modi di far vietare questa tradizione, tanto da bollare questi balli “Paschae baccanales”.
La Pasqua degli italo-albanesi, nei borghi del Parco nazionale del Pollino, vive, tra l'altro, uno dei momenti più esaltanti il martedì dopo Pasqua. A Frascineto si ripercorre, con canti, balli, che costituisce una drammatizzazione teatrale della storia del condottiero e patriota albanese Giorgio Castriota Scanderbeg (1405 -1468), l'eroe che resistette per 25 anni ai tentativi di conquista dell'Impero turco ottomano, e della diaspora albanese, avvenuta tra il XV e il XVIII secolo in seguito alla morte dell'eroe nazionale e alla conquista dell'Albania da parte dei turchi ottomani.
Vincenzo Dorsa, nel 1847, scriveva che “Secondo la tradizione queste feste sono la ricordanza di una vittoria ottenuta da Scanderbeg sul Musulmano nel giorno di Pasqua e della celebrazione del trionfo per tre giorni sussecutivi. … Il costume de' tre giorni si conserva solamente ne' tre paesi di Frascineto, Civita e Porcile (ora Eianina) in Calabria, e tali sono gli apparati e le scene che danno la immagine più viva e pittoresca dell'età eroica della nazione”.
Il Dorsa descrive molto vivacemente questa esplosione di gioia.
“La parte principale delle feste la rappresentano compagnie di giovani vestiti alla maniera d'oriente, con turbanti turchi, pennacchi, bandiere e spade sfoderate in alto, i quali si avanzano schierati in ordine e guidati dalla voce de' vecchi, e a doppio coro e a canto alternativo e modulato secondo l'impeto de' passi guerrieri intuonano i canti che ricordano le imprese di Scanderbeg Queste compagnie nel linguaggio patrio vengono contraddistinte col nome di Piesit o Piecksit (vecchi), e le popolazioni vicine che a folla concorrono a deliziarsi al brillante spettacolo le appellano vecchierelli, volendo indicare che esse ricordano ormai gli antichi avi commilitoni del gran guerriero di Croia.
Le donne dall'altra parte abbigliate delle vesti più splendide e col capo coperto si uniscono in vale e intonano egualmente i canti guerrieri della nazione e piene d'insolito brio che sfavilla ne' maschi loro volti van danzando e percorrendo le vie del paese.
A queste parti essenziali della festa soglionsi aggiungere delle maschere, le quali variano secondo le circostanze e sono come fatti accidentali che non contribuiscono se non a variare ed accrescere gli spettacoli dei rumori. E tanto van oltre ne' fomiti d'entusiasmo che le compagnie sì dei giovani che delle donne di un paese vanno a scambiarsi e confondersi con quelle dell'altro vicino, e allora in questa varia confusione e nel numero accresciuto della gente la festa prende più risaltante e pittorico.”
Tra i suggestivi riti della Pasqua lo stesso Dorsa ricorda la vlamia. Cosa sia questa usanza è ben spiegato da Francesco Tajani nelle sue Istorie albanesi del 1886.
“La Vlamia fratellanza, da Vli scelta del fratello, a cui più volte abbiamo fatto allusione, consiste nel togliere fra gli amici un fratello di adozione, impegnandosi scambievolmente di prestarsi aiuto in ogni occasione, sia pure a costo della propria vita. Le donne scelgono una sorella, dapprima anche un giovanotto poteva adottare una fanciulla. I fratelli di adozione si chiamano Probatim per dirsi difensori, garante l'uno dell'altro; il padre adottivo Pootschin, la madre Pomayka.”
Il rito della fratellanza è molto antico e ne viene attestato l'uso già presso gli egiziani, con la formula dell'aiuto reciproco, e in seguito presso arabi, persiani, armeni, ebrei, e i popoli slavi.
La società albanese nei secoli è stata caratterizzata dalla presenza della guerra, per le continue minacce dei vicini e le continue invasioni e dallo stato di penuria, che ha dato origine all'economia della sussistenza basata sul baratto non solo di beni materiali, ma anche di prestazioni lavorative. Mentre lo scambio di beni è soggetto al valore loro attribuito che determina il “prezzo”, inteso come rapporto di scambio, la prestazione d'opera provoca la nascita di numerosi rapporti reciprochi. Il principale di essi è indubbiamente il vincolo di sangue, poiché il primo soccorso ha natura parentale, ma spesso questi non sono sufficienti e la mancanza di un nucleo di riferimento è considerata una vera e propria tragedia, in particolare per le donne. Una delle maledizioni più brutte della società albanese è sicuramente “qofsh e shkretë”, “che tu possa restare sola!”, con un equivalente anche al maschile, poiché in una società pauperistica non si sopravviveva senza un momento di solidarietà da parte di altri componenti della comunità: i modelli offerti erano molteplici: il comparaggio, la gjitonia, il “sangiovanni” (1), e così anche le persone con quale si soleva “jiri di puarcu”(2) e i “famuli”(3).
Di particolare interesse è che la vlamia – fratellanza adottiva, presso gli albanesi è sempre associata alla móterma – la sorellanza, perché anch'esse hanno la facoltà di scegliersi una compagna da legare con un vincolo familiare. Questa era l'unica forma solenne che univa due persone che si scelgono reciprocamente, poiché in tutte le altre vi è un vincolo di sangue o intervengono sempre i genitori nella decisione.(4)
Molto interessante la posizione della donna nella società arbereshe, la quale appariva in una posizione di sottomissione rispetto al maschio, ma veniva tenuta in grande considerazione, tanto che alcune usanze sembrano residui di società matriarcali. Nella sua “Storia della rigenerazione della Grecia dal 1740 al 1824”, François Pouqueville, che era stato Console generale di Francia presso Ali pascià di Giannina, dedica molte pagine agli albanesi e alla loro organizzazione sociale. Per quanto riguarda la condizione delle donne così si esprime. “Le femmine che danno la vita a questi nomini feroci partecipano del vigore della loro organizzazione. Non vivono già nella mollezza degli harem, e lungi dal commercio della vita; travagliano, bagnano la terra coi loro sudori, ed entrano sovente a parte dei pericoli de' loro sposi o figliuoli ; e sanno sagrificare se stesse, ed esortare gli uomini a perire per la comune difesa.
Sono gli Albanesi delle montagne pieni d'entusiasmo per la loro patria e mai non ne parlano che innalzandola al di sopra d'ogni altro paese; e sebbene talvolta si stabiliscono in più fortunate regioni, mai non levano lo sguardo dalle montagne dell'Epiro”.
Tuttavia, uomini e donne per l'occorrenza festeggiavano separatamente in due distinti convivi.
Secondo il Tajani il rito richiama esplicitamente l'adelphopoiesis (dal greco αδελφοποίησις, 'affratellamento', 'assorellamento' tradotto in latino come “adoptio in fratem”) utilizzato dalla Chiesa ortodossa quale forma di "fratellanza spirituale" in sostituzione della “fratellanza di sangue”, un rito considerato molto cruento.(5)
Questo era un rito liturgico, che apparteneva al ciclo pasquale, poiché poteva essere celebrato soltanto in questo periodo e costituiva nell'assorbimento di riti pagani, che erano molto più cruenti e che non si era riusciti ad abolire poiché avevano un forte radicamento sociale, in particolare nella società albanese. I greci, ad esempio, lo bollavano come rito barbaro.
Secondo quanto scrive lo stesso Tajani, “In ebraico l'appellativo di fratello comprende la parentela e la consanguineità; e pare così intendevano anche gli albanesi, dappoichè quando i probatim si prestano il giuramento innanzi al capo spirituale, mesciono una stilla del loro sangue in un bicchiere di vino poi lo tracannano, scambionsi le armi per difendersi a vicenda, la quale formola risponde a quello del giuramento scitico nobile e fiero in se stesso. Fra gli Sciti la cerimonia consisteva nel farsi una incisione in qualche parte del corpo, e nel lasciar colare il sangue in un vaso pieno di vino; indi v'immergevano la punta della scimitarra e ne bevevano un sorso, dopo di che pronunciavano il giuramento e chiamavano in testimonio tutti gli spettatori della solenne loro promessa”.
L'istituto era anche utilizzato per disporre liberamente del patrimonio tanto che il codice giustiniano proibisce la pratica del “fratem sibi per adoptionem facere”, avente il fine di costituirlo erede dei propri beni in danno degli eredi legittimi, sovvertendo l'ordine della legge successoria.
Il rito bizantino, tratto da un Eucologio sinaitico dell’XI-XII secolo, ed è rivolto ad unire in forma liturgica delle coppie dello stesso sesso, tanto che John Boswell ipotizza che l'adelphopoiesis è qualcosa di simile a un “matrimonio omosessuale” per legittimare le unioni che si creavano nelle comunità religiose. Una interpretazione fortemente contestata in favore dell'ipotesi che si tratti piuttosto di un un vincolo d’amore spirituale. Non lo si deve confondere con una sorta di attuale, anche se ha delle forti analogie. La peculiarità di questo rito è da tempo conosciuta presso il mondo degli studiosi e se ne hanno altre versioni presenti in altri manoscritti. (6)
È certo che presso gli albanesi esso era un istituto importante per la coesione sociale di un gruppo etnico che nel corso dei millenni aveva dovuto adattarsi a migrazioni, spostamenti e continue guerre per difendere la propria identità. Scrive il Tajani: “Nei rivolgimenti della loro fortuna, allorché i massacri delle guerre, e le perdite subite nelle dispersioni avevano smembrate le famiglie, allora gli albanesi giunti dalla Grecia ricorsero alla fratellanza per acquistare dei parenti con altri vincoli di sangue, né quei nuovi legami fra i cristiani furon mai rotti o traditi; in Italia li osservarono di fatti senza alcuna formalità. La fratellanza mentre leniva la esasperazione degli animi, ispirava forze ed ardore nelle guerre; esponendosi ai pericoli sicuro di essere ciascuno affiancato dal fratello di armi e di adozione, diventava, se non lo era, emule e coraggioso, pugnava talvolta col duplice impulso e di abbattere il nemico di fronte, e di vendicare il fratello estinto sul campo. Le prove di energia, i prodigî di valore fatti dai seguaci di Scanderbeg, dai Botzari, e da tanti strenui combattenti non traevano meno dallo spirito della fratellanza nazionale, le voci di fratello mio, quella di sangue mio, agivano come balestre; furon desse, che li spinsero non poco in tante audaci fazioni rimaste indelebili nella storia”.
“These people live in a state of 'gyak ' (blood) or ' bessa ' (peace)”, afferma Adolf Berger e il legame di sangue assume un importanza decisiva per la sopravvivenza, tanto che ancora oggi gli appartenenti all'etnia si riconoscono nell'espressione “gjaku ynë i shprishur” (il nostro sangue sparso).
Secondo quanto riferisce il Tajani, il rito era molto semplice. “Con un banchetto parimenti si celebra la vlamia altro rito eroico che tende a cessar le discordie e unire gli animi de' cittadini. In forza di tale rito i giovani e le giovani dopo l'intrattenimento fratellevole e festivo di una intera giornata, nell'ora vespertina si recano danzando e cantando nella Chiesa, dove raccolti in atto devoto e sommesso a pie' di un altare preganti Iddio che benedica e serbi perpetua la loro unione, si sollevano poscia dal suolo e poggiate le loro destre sopra l'altare, giurano di rimaner concordi come fratelli e le giovani come sorelle. E per fermo, fratello (vlaa), sorella (motyχ) si appellano tra loro”.
Vincenzo Dorsa lo descrive in forma molto simile: “Con un banchetto parimenti si celebra la vlamia altro rito eroico che tende a cessar le discordie e unire gli animi de' cittadini. In forza di tale rito i giovani e le giovani dopo l'intrattenimento fratellevole e festivo di una intera giornata, nell'ora vespertina si recano danzando e cantando nella Chiesa, dove raccolti in atto devoto e sommesso a pie' di un altare preganti Iddio che benedica e serbi perpetua la loro unione, si sollevano poscia dal suolo e poggiate le loro destre sopra l'altare, giurano di rimaner concordi come fratelli e le giovani come sorelle. E per fermo, fratello (vlaa), sorella (motyχ) si appellano tra loro”.
“La mia vita è la tua vita, la mia anima è la tua anima” (jeta ime është jeta jote, shpirti im është shpirti yt) è la formula, riportata da Pouqueville, con la quale per l'affratellamento dei 600 albanesi che si preparavano ad assediare Missolungi.
In tutti i paesi albanesi paesi, il rito è ormai scomparso. Nei paesi che sono passati al rito latino, è stato proibito per il suo carattere pagano, che non aveva alcun equivalente nella liturgia romana. Negli altri è caduto lentamente in disuso.
Secondo Pompilio Rodotà esso il rito greco è stato soppresso nei casali albanesi della Diocesi di San Marco Argentano (Santa Caterina Albanese, Mongrassano, Serra di Leo, Cavallerizzo e Cerzeto) nel 1607 (7) e in quelli della Diocesi di Bisignano (San Giacomo, San Martino di Finita e Rota Greca) nel 1637.(8)
Tuttavia nella relazione “Ad Limina” di Mons. Antonio Meliori del 1586 risulta che esso è stato già soppresso, a dimostrazione del fatto che i tentativi di sopprimere il rito greco risalgono ai primi anni della venuta degli albanesi. (9) Secondo quanto riferito al Tajani, le colonie albanesi della riva sinistra del Crati risale agli anni 1476-78 e la loro conversione al rito latino avviene subito dopo la morte di papas venuti dall'Albania.
La proibizione e la ferma condanna della vëllamja e del moterma ha provocato la sua trasformazione in un rito esoterico, e in tale caratteristica era ancora presente a Cerzeto fino agli anni cinquanta del secolo scorso, con una connotazione puramente laica.
Nonostante tutte le proibizioni e le minacce di scomunica, gli albanesi hanno conservato i loro usi tanto che ancora nella relazione “Ad Limina” del 1703, mons. Gaetano Capalbo scrive che finalmente è riuscito a estirpare la tradizione degli albanesi che “in diebus festivis Paschae baccanales ludos exsercerent”.(10)
I “Paschae baccanales” cui fa riferimento sono le Vallje, come detto, si sono conservate però fino a oggi nei paesi albanesi della Diocesi di San Marco Argentano, come a Mongrassano e Cervicati, e sono stati recentemente ripresi anche a Cerzeto e San Martino.
Nella relazione del vescovo Capalbo, della vëllamja e del moterma, non si fa alcuna menzione, perché sono ormai completamente scomparsi dalla liturgia e hanno assunto un carattere occulto, esoterico. A Cerzeto, il rito veniva, infatti, celebrato segretamente nel cimitero la notte di Pasqua, cui seguiva il banchetto tradizionale della Pasquetta, che suggellava i nuovi legami tra i nuovi vellai. Il moterma è caduto definitivamente in disuso, per la difficoltà della sua celebrazione, poiché veniva ritenuto sconveniente far partecipare le donne a riti notturni in un cimitero.
Il papas Antonio Bellusci testimonia che fino agli anni ottanta del secolo scorso “Le cerimonie pasquali della vëllamja e della moterma si celebrano nella parrocchia di rito bizantino di Cosenza. Sono riti molto antichi e sempre più rari, che si compiono il lunedì ed il martedì di Pasqua. Le persone, che vogliono contrarre un legame di parentela (fratellanza o sorellanza), fanno, alla presenza del sacerdote, un giuramento sul Vangelo e bevono nello stesso bicchiere. Il vincolo spirituale, che si crea n tal modo, è così forte che tra i contraenti diventa impossibile il matrimonio”. Il riferimento al matrimonio presuppone che si celebravano anche cerimonie tra persone di sesso diverso: il rapporto di vëllamja costituiva un tabù sessuale.
La vëllamja, scomparsa nelle comunità albanesi in Italia, viene tuttora praticato in America laddove vi sono comunità arberesh, in forma laicizzata avendo perso qualsiasi connotato religioso. Ad esempio a Cedarhurst, una cittadina vicino New York dove vi sono due associazioni (vëllamja Club), i cui associati sono legati dal vincolo della vëllamja, che hanno eletto il sindaco Andrew Parise. Scriveva Frank Parise, presidente di uno delle due associazioni, qualche giorno fa.
“Oggi è la Domenica delle Palme e ci stiamo preparando per il nostro incontro della vëllamja. Ci incontriamo e prepariamo la cena per la prima Domenica dopo Pasqua. Nella riunione proponiamo i nuovi membri da associare, che debbono essere Arbëresh. L'ammissione avviene all'unanimità con il sistema di votazione a palline nere: ne basta una per respingerla. Il rito è stato portato qui da
Cerzeto e ci teniamo molto a conservarlo poiché dà alla nostra comunità un forte elemento identitario”.
In quella nuova realtà ha perso la caratteristica rituale e la sua ieraticità, né ha conservato alcun elemento di un istituto giuridico in grado di provocare l'insorgenza di qualche forma di diritto tra i due contraenti. Esso è soltanto il reciproco riconoscimento dell'appartenenza ad una comunità definita da alcuni valori storico-culturali dei quali si è persa memoria, ma che continuano ad aleggiare come come lontane reminiscenze di un mondo scomparso. Legami sottili che consentono di assumere l'identità della realtà in cui si vive, con una totale identificazione con esso. Tuttavia, quel lontano ricordo rimane indelebili nelle zone più riposte della psiche e provoca un senso misterico di appartenenza e di identificazione con una realtà che vive solo nell'immaginario e si rinnova annualmente con la partecipazione alla cerimonia prandiale, vissuta come un rito collettivo.
1) Il compare è il testimone di importanti momenti della vita, il battesimo, la prima comunione, la cresima, il matrimonio. La figura più importante è il compare di battesimo, che diventa una persona di famiglia, e quasi sempre è lo stesso anche nei sacramenti successivi. Sui riti del solstizio di d'estate, il 24 giugno, giorno di S. Giovanni, si sofferma a lungo James Frazer nel libro citato. Tra gli arbrësh non erano molto in uso, e creavano un vincolo debole, di durata limitata ad un solo anno, una modalità che è stata adottata in seguito anche per la vëllamja dopo la sua proibizione come rito religioso. La gjitonia (rapporto di vicinato) crea dei complessi rapporti interpersonali tra gli appartenenti allo stesso nucleo di case molto strette e poco confortevoli, in un intrigo di viuzze e spiazzi che costringevano a svolgere all'esterno molte attività (dall'approvigionemento dell'acqua, ai bisogni corporali, all'accudimento degli animali domestici che vivevano in simbiosi con l'uomo). La gjitonia creava un forte vincolo di solidarietà indispensabile nei momenti più importanti, come la nascita o la morte di un componente della famiglia. Quando l'intera comunità si prodigava in favore di chi aveva bisogno (si trattava di paesi molto piccoli, dove ciascuno dei membri interagiva con gli altri per conoscenza diretta.
2) Vi era un ristretto gruppo di persone con le quali si condivideva annualmente l'uccisione e la preparazione del maiale, che era uno dei momenti più importanti dell'anno. Essi potevano anche coincidere con la parentela, ma spesso avevano lo scopo di scambiarsi reciprocamente le prestazioni lavorative in occasione della semina, del raccolto, della vendemmia, del trasporto della legna, della costruzione di una abitazione, la preparazione delle provviste e così via mantenendo una sorta di “contabilità”. Nella prestazione era anche prevista la possibilità di scambiarsi i “mezzi di trasporto”, costituiti da asini e muli. Era una anticipazione della “Banca delle ore” inventata recentemente nella società scandinave, che qui trovava una sua applicazione millenaria. Nelle società contadine povere con una circolazione quasi nulla di moneta, erano una forma importante di scambio di servizi che si associava al baratto beni e allo scambio dei prodotti alimentari, come il pane. Prodotto con lievito naturale (brumi) e cotta al forno a legna durava parecchi giorni, e poteva anche servire come bene di scambio. Il compare per eccellenza, come detto supra, era il padrino del battesimo, chiamato “nun”, mentre il suo figlioccio era chiamato “famuli”.
Lo stesso nome era utilizzato per indicare le persone, di solito orfani, che venivano accolti nella famiglia dove venivano utilizzati come forza di lavoro ausiliaria. Una testimonianza della loro esistenza si trova nei catasti onciari, oltre che nel ricordo di qualche anziano. La famiglia patriarcale aveva una forma molto complessa, ad esempio, il Foco n° 1 del Catasto di Cerzeto (1752) è costituito dalla famiglia Caparello, composta da:
Attanasio Caparello, M, bracciale di anni 36
Rosa Mosciaro, F, moglie d’anni 28
Serafina Caparello, F, figlia d’anni 16
Giovanna Caparello, F, figlia d’anni 6
Madalena Caparello, F, figlia 3
Domenico Caparello, M, fratello bracciale d’anni 24
Ludovico Caparello, M, fratello di Domenico 12
Fedele Caparello, M, fratello di Domenico 6
Cassandra Caparello, F, sorella di Domenico 17
MariaSarroFmadrigna40
Giuseppe Martino, M, famulo di Torano 20
Attanasio è il pater familias, poiché suo padre è morto. Nella stessa casa convivo la sua madrigna Maria Sarro (seconda moglie del padre) con i figli di questa (fratelli per parte di padre di Attanasio). Si tratta di una famiglia piuttosto agiata, con abitazione propria e il possesso di varie proprietà fondiarie, in cui vi è la presenza di un “famulo” che viene adibito ai lavori rurali.
3) In alcune comunità esso si è trasformato in una semplice scampagnata. Si legge ad esempio, in de Marco, Elmo, Lazzarini (pag. 22): “Il lunedì di Pasqua è consuetudine nelle comunità arbereshe, organizzarsi fra amici in allegre scampagnate, secondo una caratteristica tradizionale molto interessante per il particolare significato etnico che viene attribuito. Questo rito stabilisce nuovi vincoli spirituali e di fratellanza, un vincolo di fedele amicizia, spesso molto più stretti degli stessi vincoli di sangue. Il significato simbolico della cerimonia, che richiama alla memoria le note “agapi” dei primi cristiani, può essere considerato come una sopravvivenza di una antichissima consuetudine, che potrebbe risalire alla lontana venuta degli albanesi in Italia, provocato dal bisogno di affiatamento e di solidarietà etnica. Tutti i partecipanti portano i cibi che concorrono a preparare la tradizionale “frittata pasquale”, e dopo aver consumato in comunione, diventano “vëllezër” (fratelli). Oltre al rito della “vëllamja” è diffuso anche tra le ragazze il rito comunemente chiamato “motërmë” (sorellanza). A Falconara Albanese, nel giorno di Pasqua, sul sagrato della chiesetta di Castelluccio, si perpetuava il rito della motrëmat. Per questa circostanza, ciascuno ciascuno portava con se la sua pupuza, che è un pane cotto a forma di bambola, pieno di uova rassodate nel forno. Il tutto veniva consumato alla fine della cerimonia insieme con la tradizionale frittata di uova e salsiccia. Nella espressione comune delle comunità albanesi della Media Valle del Crati, la cerimonia caratteristica della Pasquetta (Pashqarela, pashkuni), viene chiamato il rito della “vëllamja” (fratellanca). Tutti i partecipanti alla scampagnata, si saranno preoccupati di portare chi il tegame, chi l'olio, chi le salsicce, chi le uova e la ricotta e il vino, elementi che concorrono a formare la tradizionale “frittata pasquale” (fritata e pashkës), consumando collettivamente la quale, tutti i presenti diventato “vëllezër” (fratelli), e con questo appellativo si chiameranno durante il ciclo annuale, fino a Pasqua successiva”. Risulta evidente che in questi rimasugli di una tradizione antiche, la vëllamja ha perso il suo carattere di ieraticità, la solennità del rito e la forza di un legame più forte di quello di sangue, poiché stretto volontariamente. I “compagni di merenda” sono tutt'altra cosa rispetto al rapporto di “vëllamja”.
4) Nel diritto romano appaiono sconosciuti in ogni epoca l'adozione in fraternità e l'affratellamento,istituti che servono a dare a due estranei la posizione giuridica di fratelli fra loro.D Diocleziano nel 285 la vieta recisamente anche presso i peregrini. L'istituto è invece assai noto negli antichissimi diritti orientali. Nelle fonti giuridiche romane non è mai menzionato l'istituto dell'adoptio testamentaria (cioè la dichiarazione fatta in un testamento di adottare una determinata persona), istituto che, del resto non si concilierebbe con la nozione romana di adoptio non essendo possibile concepire l'acquisto di una potestas da parte di un defunto. (Vedi, Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, pag. 82).
5) Sulla questione del trattamento della omosessualità nella chiesa è intervenuto recentemente anche Maurizio Faggioni: “Esisteva nella Chiesa orientale un rito apposito per la benedizione dell'amicizia (adelphopoiesis), tracce del quale sono state trovate anche in Occidente (in Croazia rito latino dell'Ordo ad frates faciendum segnalato da A. Bray). La portata dei testi è stata stravolta intepretando questa benedizione dell'amicia come una legittimazione delle coppie omosessuali”. Curiosamente non si fa alcun cenno agli albanesi presso i quali il rito si è mantenuto fino a pochi decenni fa e permangono ancora echi del rito.
6) Rodotà, op. cit. Per la Diocesi di San Marco, vedi pag. 94-95. “I castelli di Pizzillo altrimenti detto S. Caterina, di Mongrassano, Cervicato, Casalicchio, Cersito, Serra di Leo, e Cavallarizzo, rimasi privi di Sacerdoti greci nell'anno 1607, furono obbligati dalla necessità di dover ricevere per direttore i Latini. Poco dopo rappresentarono alla suprema Inquisizione la comune brama d'essere restituiti al rito greco; giacchè i loro figliuoli, e le femine particolarmente ignare della favella italiana, e soltanto intese dall'albanese, non potevano che con pena aprire i segreti de' loro cuori ai Sacerdoti latini. Ciò non ostante fu rigettata l'istanza con decreto de' 21 marzo del 1609”.
7) Rodotà, op. cit. Per la Diocesi di Bisignano pag. 67: “L'amenità del clima, e la fertilità de' terreni invitò un gran numero d'Albanesi ad istabilirsi in questa diocesi al presente governata da Monsig. D. Bonaventura Sculco Cavaliere Cotronese, il cui carattere è in parte formato dalla felicità d'ingegno istrutto in Roma di ricco capitale delle civili e canoniche discipline, fornito di molte virtù, e largamente cumulato di maravigliose doti. Il popolo in lui osserva l'eroico innesto di pietà e di scienza, di lettere e di morale, di nobiltà e modestia; siccome altresì d'un intelletto tutto lume, e d'un animo tutto religione. Gli angusti paesi della Rota, di S. Giacomo, di S. Martino, Mongrassano, Serra di Lia, e Cervicata unirono alla lingua albanese l'osservanza del rito greco fino al secolo passato; in cui assaliti da tedio fastidioso, ed assediati da pensieri importuni del suo rigore, gli chiusero il cuore. L'epoca del commune cambiamento ritrovasi notata nella sola colonia di S. Martino; la quale l'anno 1634 riportò l'indulto da Urbano VIII, con cui furon communicate al Vescovo di Bisignano le facoltà d'ammetterla al rito della chiesa Romana colle seguenti condizioni, che si leggono nel Breve: Si praevia matura deliberatione, & sponte, omnes, vel quilibet dicti casalis id postulaverit. Furono pienamente soddisfatti i voti universali. Ma, o perché il volgo rientrato in se stesso s'avvide della viltà, che l'aveva allettato ad abbandonare i rigori orientali; o perché ne fosse rimproverato dai convicini nazionali; o sollecitato da qualche Sacerdote ch'aveva riguardo al privato interesse; o indotto da altri motivi: certo è, che piangendo con amare lagrime la rinunzia del rito nativo, con biasimevole incostanza l'anno 1653, richiese il ritorno al pristino stato. Ma le ragioni, che fece presenti alla suprema Inquisizione con tutto l'impeto delle sue premure, non furono valevoli ad impetrare la grazia. (ex Archivio S. Off.)”
8) Relazione ad limina del Vescovo Antonio Meliori, della Diocesi di San Marco Argentanto, dell'anno 1586. “Civis Dioecesis est quindecim castra Malvitum, Ruggianum, S. Donatum, Policastrellum, Mottafollonum, S. Agatam, Sanginetum, Bonvicinum, Materanum, Grisoliam, Cirellam, Belvidere, Bonifatum, Fagnanum, et Joggium. Item est casalia decem Circitum, Cervicatum, Serram de Lio, Cavallarizzum, Mongrassanum, S.us Jacobus, Opulum, S. Laurum, Pizzileum, et S.tum Sostum, quorum casalium priora quing. sunt inhabitata ab Albanensis orientalibus qui vivunt latino ritu licet instent licere vis uti in divinis graeca consuetudini quem ad modum utuntur q. plurimi alii qui in d.a provincia degunt, sed a pref.to Episcopo nunq. fuit hoc eis permissum, ex quo a suis praedecessoribus latinum ritum observari instruesse comperit latu potissimum et querunt illi graece vivere ut die saturni carnibus nesci queare quod grecis permissum esse neminem latet”.
9) “I fedeli della Diocesi abitano in quindici castelli Malvito, Roggiano, S. Donato, Policastrello, Mottafollone, S. Agata, Sangineto, Bonvicino, Materano, Grisolia, Cirella, Belvedere, Bonifati, Fagnano e Joggi. Vi sono inoltre dieci casali Cerzeto, Cervicati, Serra di Leo, Cavallarizzo, Mongrassano, S. Giacomo, Opulum, San Lauro, Pizzileo, e S. Sosti i cui primi cinque sono abitati da albanesi orientali che vivono secondo il rito latino, ma essi chiedono che sia consentito loro di vivere secondo la divina tradizione greca come molti altri che vivono nella Provincia, ciò non è stato mai concesso dal mio predecessore; poiché i suoi predecessori avevano imposto ad essi di osservare il rito latino ed ora insistono di poter vivere alla greca e osservare il divieto di non mangiare carne il sabato, come è rispettato da tutti i greci.” (Cerzeto apparteneva alla Diocesi di San Marco, e ne costituiva il limite meridionale e la sua inclusione in questo elenco è errata; San Giacomo, invece, a quella di Bisignano.)
10) Relazione ad Limina del vescovo di Mons. Gaetano Capalbo Vescovo di San Marco Argentano, relazione ad Limina del 1703. “Praesens huius Ecclesiae meae curae et status spiritualis talis est ut in passato nihil sit, quod in praecedentibus relationibus non fuerit expositus imo ad melius in parte videatur revocatus, quando vide cum abusus per antiquus invaluisset inter Albanenses, ut in diebus festivis Paschae baccanales ludos exsercerent, quasi ex toto, Dei faciente gratia, sit extirpatus, cumque etiam maxima et laborarent ignorantia misteriorum fidei, sancitis et ad id legibus, tam a me quam a Praedecessore meo videntur magis instructi, et ad id toto meo conatu incumbo, video tamen in haec Dioecesi Parochos adeste pro desiderio idoneo, nec aliunde, propter reddituum inopiam, evocari posse”. (Lo stato attuale di questa Chiesa è per me motivo di preoccupazione e quello spirituale è tale che tutto è stato esposto ampiamente nelle precedenti relazioni sì da apparire richiamato in parte al meglio; pertanto, essendo invalso sin dall'antichità tra gli Albanesi l'abuso di abbandonarsi ai riti orgiastici durante le festività pasquali, tieni presente che, grazie a Dio, (l'abuso) sia stato quasi del tutto estirpato, inoltre, essendo afflitti da grandissima ignoranza riguardo ai misteri della fede, sancite per leggi a tal fine, tanto a me quanto al mio predecessore sembrano più ordinati, e a ciò attendo con ogni mio sforzo, tuttavia noto che in questa diocesi, per la mancanza di introiti, possono essere evocati dai parroci per un intento valido, non per altro motivo.)
Bibliografia
1) Adolf Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, The Lawbook Exchange, Ltd, Clark, New Jersey 2004
2) Antonio Bellusci, Le cerimonie pasquali della fratellanza (vëllamja) e della sorellanza (moterma) (Lidhja anno I, 1980)
3) John Boswell, Same-Sex Unions in Premodern Europe, Villard Publication, 1994.
4) Alan Bray, The friend, University of Chicago Press, Chicago-London 2003.
5) Remo Bussotti, Pasque albanesi, Calabria Settentrionale, Corona cinematografica, 1962
6) Angelina De Marco, Italo Elmo, Ruggero Lazzarini, Rituali e misteri della cucina arbëreshe, Grafica Pollino, Castrovillari, 1992
7) Vincenzo Dorsa, Su gli albanesi, ricerche e pensieri, Napoli, 1847
8) Mary Edith Durham, The burden of the Balkans, London 1905
9) Francesco Faeta, Antonello Ricci, La Settimana Santa in Calabria, studi e materiali, Squilibri 2007
10) Maurizio Faggioni, L'atteggiamento e la prassi della Chiesa in epoca medievale e moderna sull'omossesualità, in Gregorianum 91, num. 3, 2010.
11) James Frazer, Il ramo d'oro, studi sulla magia e sulla religione, Newton Compton, Roma 1992
12) Vincenzo Giura, Note sugli albanesi d'Italia nel Mezzogiorno,
13) Rajko Nahtigal, Euchologium Sinaiticum, Starocerkvenoslovanski Glagolski Spomenik, Slovenska Akademija Znanosti in Umetnosti v Ljubljani. Filosofsko-Filolosko-Historicni Razred, 1 (Ljubljana, 1941, 9b-11b), 2 (Ljubljana, 1942, 20-26).
14) François Pouqueville, Storia della rigenerazione della Grecia dal 1740 al 1824, traduzione di Stefano Picozzi, tomo I, Roma 1825
15) Relazione ad limina del Vescovo Antonio Meliori, della Diocesi di San Marco Argentanto, dell'anno 1586.
16) Relazione ad Limina del vescovo di Mons. Gaetano Capalbo Vescovo di San Marco Argentano, relazione ad Limina del 1703.
17) Pompilio Rodotà, Dell'origine, progresso, e stato presente del rito greco in Italia, vol. III, degli albanesi, chiese greche moderne, e Collegio Greco di Roma. Per Giovanni Generoso Salomoni, Roma 1763
18) Francesco Tajani, Le istorie albanesi, Salerno 1886 (Ristampa anastatica Editrice Casa del Libro, Cosenza 1969)
19) Edoardo Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Edizioni Ricerche, Roma, 1974
Cedarhurst 6 aprile 2013, foto di gruppo dei partecipanti al pranzo della Vellamja
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