OP

Mezzoeuro

Nino Martino, santo e brigante

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XII num. 25 del 22/6/2013


Rende, 20/6/2013


Il mito del brigante buono e generoso che vendica i torti della povera gente e diventa santo.

Chi è Nino Martino? Tutto quello che si sa è che di lui non si sa nulla. È la personificazione dell'uomo che non c'è, ma di cui la fantasia popolare ha bisogno per concretizzare i suoi sogni, trasformare in una storia i suoi sogni, gli aneliti di libertà. È il figlio di un paese che non c'è. Chi lo vuole nato in Sila, chi lo immagina nell'Aspromonte, ma per tutti rappresenta la voglia di riscatto per le ingiustizie secolari, il desiderio di vendetta per i torti costretti a subire per un sistema iniquo e perverso.

La primavera della sua vita si svolge nel corso del Cinquecento, ma potrebbe collocarsi in un momento qualsiasi del lungo inverno attraversato dal popolo calabrese. Come tutte le ribellioni vivono il loro momento di esaltazione e di gloria nel breve volgere di un mattino, per essere soffocate prontamente dalla ferocia di una repressione che non conosce pietà. Come tutte le tragiche storie dei ribelli, la loro avventura dura poco, è storia di giovani vite che si immolano in nome di un ideale, di una ribellione irrefrenabile.

Il Cinquecento è uno dei secoli più bui della storia regionale e si registrano movimenti di rivolta, tanto individuali che collettivi. Scrive al proposito Augusto Placanica:

Ai primi del secolo XVI, i fratelli Pipino di Seminara, Ercole Ravese di Varapodio, Giovanni Canino nelle montagne di Taverna, operavano scorrerie in proporzioni imponenti; briganti come Marco Berardi, detto "Re Marcone", si impossesavano di Cotrone, dopo aver debellato la guarnigione spagnola (solo l'intervento di Fabrizio Pignatelli, marchese di Cerchiara, sarebbe riuscito ad annientare i banditi); altri briganti come Nino Martino, detto Cacciadiavolo, o Marcello Scopelliti, scorrevano per il Reggino, devastavano il casale di Ortì ed incendiavano le case dei nobili nel capoluogo. A questi, e a tanti altri banditi del tempo, la debolezza del potere centrale assicurava per un qualche tempo l'impunità, anche grazie a mille omertà e a mille asili garantiti ai fuorbanditi da famiglie e conventi; il potere dello stato, poi, si sfogava in episodi di incredibile ferocia quando riusciva a mettere le mani su questi briganti, alla cui caccia intere squadre si movevano nella regione. È anche di questo periodo una duplicità di atteggiamenti della grande feudalità di Calabria, che da una parte si fondava, o contribuiva a fondare, una larga schiera di conventi di cappuccini, mentre, dall'altra, si presentava o arrendevole o addirittura connivente col brigantaggio.1

Alla violenza dei baroni che non concedevano respiro ai loro sudditi, si rispondeva con altrettanta violenza e ferocia. I banditi o fuoriusciti godevano di vasta protezione sia presso la popolazione che li considerave come vendicatori dei soprusi e delle angarie che erano costretti a subire, sia da parte degli stessi baroni ed ecclesiastici che li usavano per combattersi a vicenda e terrorizzare la popolazione, convincendo che senza la loro presenza essi sarebbero caduti nelle mani di assassini e stupratori.

I due momenti più importanti della rivolta calabrese nel Cinquecento sono legati al nome di Marco Berardi, che ebbe un carattere più autenticamente popolare e quella di Tommaso Campanella, che aveva una ambizione politica e chiamava in causa i saraceni a sostegno della lotta di liberazione contro il dominio spagnolo. Sembra che il filosofo, che aveva pagato con lunghi anni di carcere duro il suo tentattivo insurrezionale, nel recarsi in Francia per sfuggire alla persecuzione spagnola, avesse assunto lo pseudonimo di Lucio Berardi, per richiamare alla memoria il nome del protagonista di questo piccolo eroe calabrese che si era reso protagonista del disperato insurrezionale. Secondo Placanica accanto a Campanella militava il figlio di Nino Martino, il quale sarebbe stato uno degli organizzatori della congiura antispagnola.

Secondo Placanica Nino Martino è un personaggio aspromontano. In favore di questa tesi milita la circostanza che Luigi Borrello aveva raccolto a Bova dei detti popolari che si richiamavano al brigante: Afitemu santu Dia mandé canno tin chiazza tu Ninu Martinu!" (Lasciatemi santo Dio altrimenti faccio una Piazza di Nino Martino); per un uomo violento si suole dire: "ekhi ti nnuminàta tu Ninu Martinu" (hai la nomea di Nino Martino).2 Questo lascerebbe supporre che sia stato in qualche modo legato al territorio, poiché le comunicazioni e lo scambio di informazioni erano molto problematiche all'epoca e un personaggio lontano difficilmente si sarebbe radicato nell'animo popolare.

Il suo nome appare nella storia di Bernardino di Reggio, il quale accoglie nel convento tutta la comitiva del brigante e provvede al loro sostentamento, dandogli rifugio. Anche il santo uomo è influenzato dalla opinione comune che Nino è un vendicatore dei torti piuttosto che un truce assassino:

L'istesso quasi gli occorse nel medesimo Convento di Reggio, ov'essendo Guardiano il sopradetto Bernardino da Reggio, arrivato una sera con una compagnia di trenta persone, un Gentilhuomo nostro divoto per nome il Signor Coleta Mangeri, che haveva il mandato regio contro i fuorusciti nel tempo di Nino Martino loro Capo, che dava il guasto al Territorio al territorio di Reggio, pregò il P. Guardiano di cui era assai famigliare, che desse loro qualche cosa da mangiare, perché erano afflitti, ne veniva ancora la provisione dalla Città. Ordinò subito il Guardiano a Fra Antonino, che portasse del pane, e di quello si trovasse nel Convento. Andato fra Antonino alla Cassa, ne ritrovandosi altro che quattro pani piccioli, li mostrò al Guardiano, il quale confidato molto nell'oratione del buon Religioso, gli dasse, che pregasse il Signore per quel bisogno, e poi benedicesse i pani. Benedetto il pane fu moltiplicato dal Signore in modo, che bastò avvantaggiosamente per quaranta persone.3

Nino Martino diventa protagonista di una vera e propria saga popolare, cantata dai cantastorie nelle fiere. Una ballata è stata raccolta e riproposta da Otello Profazio che ne ha fatto uno dei suoi più noti successi.

A fine Ottocento la leggenda di Nino Martino viene riproposta da Vicenzo Padula, che afferma di avere raccolto le testimonianze popolari, secondo le quali egli sarebbe stato un pastore dei Casali di Cosenza, diventato "Santu Martinu".

Il nostro popolo racconta cosí la vita di Nino Martino. Era un giovinetto pecoraro cresciuto come selvaggio nella Sila. Dopo sette anni tornò al paese nativo, e trovò i suoi compagni ben vestiti, e lui stracciato. Giocò alla mora, e lo chiamarono selvaggio; andò alla fontana e le fanciulle sorrisero ai suoi compagni, e non a lui. Propose dunque di non tornare piú alle pecore, e andò dal padrone a farsi i conti. Questi gli tirò un calcio in culo, e lo chiamò guercio cane. Nino fremette e rientra in sua casa; non ritrova la madre; esce di nuovo, e va da un suo zio per consigliarsi con lui. Non trova lo zio ma l'archibugio di lui; lo spicca, se lo mette in spalla, e torna ai boschi. Fece per uccidere le pecore, e si pentí; ma uccise i montoni, perché gli parvero che somigliassero al suo padrone.

Chi si vò fari surdatu riale
Jisse 'n campagna cu Ninu Martinu;
A viveri u li porta alle funtane,
Cà appriessu li va l'utru cu lu vinu.


Nu li fa jiri vestuti di lana,
Ma i vesti tutti di dommaschiu finu;
Lu pani jancu nu lu fa mancari,
Lu cumpanaggiu nu li veni minu.

Si fece cosí una banda di quindici persone e con essi volle visitare il suo antico padrone.

Scontaruno pe' strata n'ogliurari
- Scarica s'uogliu, ca nua lu volimu,
E l'ogliurari si misi a gridari:
— Ah! cuanu l'aju 'mbattata stamatina!


Nínu Martinu, ch'è n'omo liali,
Ci l'ha pagatu na quarta a carrinu
E l'ogliuraru si mise a prejare:
— Vinnivi l'uogliu, ed ancora è matinu.

E con l'olio va in casa del padrone. Metà dei compagni rimane giú in corte e l'altra sale con lui. Al vederlo il padrone si fece un olio; ma Nino gli disse:

Tu sira mi chiamasti guierciu cani,
E mo mi chiami lu signuri Ninu?
Chistu t'è figliu, e ti ni pu' spisari,
Cumu la mamma de Ninu Martinu.


A munti Niuru l'avimu a portari,
E là ni ci spassamu chiú ca simu;
Lu ficatiellu t'avimu a mannari,
Ca ti lu stufi tu juovi matinu.

Poi, rivoltosi ai compagni, gridò:

Porte e finestre ingignate ad untare,
Ca ardunu cumu dèdaru de pinu.

Arse la casa, poi tolse seco il figlio Agostino, e tornato al bosco prese un fegato di capra, e lo mandò al padrone, come se fosse quello di Agostino. Martino amava quel povero ragazzo che volle brigante al pari di lui. Ed Agostino crebbe, e fu fedele a Nino, tanto che per salvarlo da un'imboscata ricevette un pallino ad un occhio, che ne accecò. Lo chiamarono il Cecato; ma Nino lo chiamava fratello. Gli dette abiti come i suoi ed un fucile come il suo. Nino era casalese; ma coi suoi compagni venne nel territorio d'Acri. La principessa lo proteggea; ma un giorno avendosi preso un cavallo del principe, cominciò ad essere perseguitato, e nell'Ischia di Crati venne a conflitto coi guardiani del principe:

Pua quannu fummu a la vatti de Grati,
E ognunu ripusari si volia,
Sentivi diri: - Sparati, sparati!
E vinni na timpesta 'ncuollu a mia.


Cari cumpagni, sumati, sumati;
Sunu venuti pe' pigliari a mia.
- Eranu tante e tante i schioppettate,
Chi nenti pe lu fumu si paria,


Una de chille a nu vrazzu m'ha datu
Ed aju persa la forza, c'avia.
- Schiuppetta mia, chi d'oru si' muntata,
Mo' cà si vidi la tua guappería.


Aju pigliatu la mera, aju sparatu;
Cumu palummi ne cadieru sia.

Ma il valore gli fu inutile. Preso dai guardiani del principe, si rivolge a costoro e dice:

Chi l'aju fattu allu principi d'Acri?
Di che cosa minnitta vo' de mia?
Nu mi pigliai né piecure, né capri,
Ne mancu vacche de la masseria.


Pe' n'affrittu cavallo scontricatu
Che a mala pena la sella patia.
All'irtu mi donava na pedata,
Allu penninu si susía, e cadía.


Li fici dire s'u volía pagatu
Ma vo' la capu de la vita mia.

Giunto in Bisignano, e passando sotto il palazzo del principe, per farsi udire dalla principessa cantò:

Cari cumpagni, chiangíti e gridati
C'aviti persu chi vi protegia;
Aviti persu Martinu vantatu
Ch'era lu juru de la compagnia.


La principessa s'affacciò e disse:
Duv'è chilla galera tanto armata
Chi la campagna tremare facia?
— - Nu su galera, ma varca scasciata,


Sugnu vassallu tua, signura mia.
- Mò te' stu maccaturu, e stu toccatu
Ti ci stuji le lacrime pe' via.
— Nu vuogliu maccaturu, né toccatu,
Vuogliu la grazia de Vossignuria.


- Se t'avissi pigliato lu mia Statu
Tricientu scudi spennería pe' tia;
Ma t'ha pigliatu lu principi d'Acri
Ch'è statu vattiatu in Pagania,


E nulla grazia mai illu n'ha datu,
vai cumu püorcu in Gucceria.

Martino è dannato a morte; ma manda a dire ad Agostino che aspetta da lui per essere salvato; e sicuro di ciò va alla forca. Giunto colà per pigliar tempo finché venisse Agostino si mise a cantare, e disse:

Lu vènneri de marzo sugnu natu;
Chi fussi muortu in vrazza a mamma mia!
E mo chi sogni alli furchi arrivatu
Vogliu cuntàri li mie gagliardie.


Vacche e jumente n'aju scrapentatu,
E fatti carni alla Canatteria;
Mille forti muntagne aju schiasciatu
Fatti carbuni pe' la forgiaria;


E tante ciarre d'uogliu sbullerate
Ch'u fietu n'arrivava alla Mantia;
Vutti e carracchi e vino aju trivillatu
E fattu zancu pe' mmiezzu le vie;


Sore e sorelle n'aju sbrigognate
L'aju cacciate di la signuria;
Na munachella sula era restata,
E si la tene lu compagnu miu.


Ma non vedendo venire Agostino, s'arrabbia e dice:

Vorra saperi che fa lu Cecatu
C'un veni cuntra a chini affurca a mia
Púrbari e palli ci n'avia lassatu,
E na schiuppetta, ch'è 'guale alla mia


Ma vedendolo venire, ripiglia:
Vi' vi' ca vene Gustinu mio frate,
E duna morte a chi a vo dare a mia.

Agostino vestito da monaco, sale sulle forche col pretesto di voler confessare il condannato. Sale sulle forche, uccide il boia, ed aiutato dai compagni libera Martino. Martino tornato libero risolve di mutar vita, e va a confessarsi dal guardiano dei Cappuccini. Ma questi al sentir Martino, s'inchiavistella nella sua cella; sicché un frate terziario va a confessarlo; e gli dà per penitenza: «Ciò che non vuoi per te, non fare agli altri».

Nino regala il monaco, e va a ricevere la benedizione della madre. Era tardi, e la madre dormiva. Voleva svegliarla ma si ricordò della penitenza impostagli, e sedette sull'uscio. Passarono i compagni, lo credettero una spia, e gli scaricarono i fucili addosso. Ma qual fu la loro sorpresa nel riconoscere Nino nel morto!

Chiamarono la madre, lo portarono nella costei cantina, e lo seppellirono sotto una botte di vino. Ma il morto Nino era divenuto santo; e cosí s'era alzato, e inginocchiatosi dietro la botte, vi versava sempre del vino mercé un sarmento che teneva in bocca. La Giustizia, vedendo la madre a vendere sempre vino, e non comprare mai mosto, andò a frugarle in casa, e trovato Nino, e visto il miracolo lo fe' santificare.E perciò noi contadini lo chiamiamo il santo dell'abbondanza, ed entrando in casa, o nell'aia, o nel trappeto altrui sogliamo dire: Santu Martinu!

La figura di Nino Martino diventa atemporale, emblematica, "posta sul limite dell'esistenza e oscillante tra magia e poesia, tra mito e rituale", come dice Carlo Levi5. I briganti come i santi combattono contro la violenza, la prepotenza, la degenerazione dei costumi, i soprusi imposti per legge. In Sila richiama il mito mai tramontato di Marco Berardi, e forse ne canta le gesta sotto mentite spoglie per non incorrere nell'ira dei potenti che avevano dileggiato il suo cadavere e dileggiato la memoria. Quella di Nino Martino è una ribellione alla negazione della dignità umana agli umili, ai contadini, costretti a vivere una vita bruta e sopportare qualsiasi avversità con rassegnazione, poiché il dolore accompagnava il naturale svolgersi della loro misera vita.

Si può congettura che Nino fosse un figlio bastardo del principe di Bisignano, affidato a un pastore per allontanarlo dalla corte, e viene respinto quando tenta di ritornare nel consesso civile. Il suo più fedele compagno diventa Agostino, figlio del Principe, che aveva rapito in tenera età e cresciuto come suo fratello, richiamando alla memoria le storie di solidarietà maschile: Eurialo e Niso, Achille e Patroclo, Oreste e Pilade ...

La sua forza, il suo coraggio, la fama delle sue imprese gli attirano le simpatie popolari e l'adorazione della stessa principessa, alla quale si rivolge per essere salvato dalla forca. Ma è una figura lontana, poiché l'unica figura femminile della storia è la madre che lo accoglie nel suo grembo per evitargli l'onta dell'oltraggio al cadavere riservato ai briganti e ne custodisce la memoria infondendo forza e coraggio a chi vuole continuare la lotta di suo figlio. Il vino assume il valore sacrale di comunione di libertà.

Quello che non riuscì ad ottenere da vivo, lo ottiene da morto, con la sua santificazione a parte di chi lo aveva prima deriso e poi perseguitato.


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