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Mezzoeuro

La Legge Pica e la dichiarazione dello stato di guerra nel Sud

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XII num. 29 del 20/7/2013


Rende, 19/7/2013


Celebrazioni post unitaria

L'Unità d'Italia non è la conseguenza solo dell'epopea garibaldina, ma ha anche vissuto processi di colonizzazione che hanno lasciato una traccia profonda nel subconscio collettivo del Mezzogiorno. Un secolo e mezzo fa, il Parlamento italiano approvava la Legge Sica, inaugurando una legislazione straordinaria che non è ancora completamente superata

Ricorre fra qualche settimana il centocinquantesimo anniversario della promulgazione della La legge 1409 del 1863. Dal nome del suo promotore è diventata famosa, o sarebbe meglio definirla famigerata, come legge Pica, dal titolo stringato di “Legge sul brigantaggio. Una norma stringata, composta di soli nove brevi articoli, con i quali si sospendeva la democrazia nel Mezzogiorno. In pratica si dichiarava lo stato di guerra, per cui non per i reati connessi in qualche modo con il brigantaggio venivano sottoposti al codice militare di guerra con le sue approssimazioni e misure draconiane. Si trattava dell'inizio di quella legislazione eccezionale, che è tuttora in vigore, in forma diversa e mitigata, per i reati di mafia.

Sulla base di tale legge, nelle province "infestate dal brigantaggio" la competenza in materia di reati di brigantaggio passava ai tribunali militari. Una legge immediatamente successiva individuava questi territori nelle Provincie di Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore II, Basilicata, Benevento, Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore II, Capitanata, Molise, Principato Citeriore, Principato Ulteriore e Terra di Lavoro.

Erano passati più di tre anni dall'impresa garibaldina, ma il paese era tutt'altro che unito, considerato che più di un terzo del suo territorio era ancora in armi a combattere contro i soprusi e le angherie imposte alle popolazioni meridionali.

Nella relazione Massari, presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta istituita per indagare sul fenomeno, si legge: “Il brigantaggio che da tre anni contrista le provincie continentali del mezzodì dell'Italia, è conseguenza esclusiva del cangiamento politico avvenuto nel 1860, oppure questo cangiamento è stato soltanto un'occasione dalla quale lo sviluppamento del brigantaggio è stato determinato?

È indubitabile che mentre in alcune provincie il brigantaggio è infierito ed ha raggiunto terribili proporzioni, come, a cagion d'esempio, in Capitanata ed in Basilicata, in altre, come le Calabrie, o non ha allignato affatto, o tutto al più si è astretto in angusti limiti.

Le prime cause del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato e economico del campagnuolo, che in quelle provincie appunto, dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice. Quella piaga della moderna società, che è il proletariato, ivi appare più ampia che altrove. Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra. La sua condizione è quella del vero nullatenente, e quand'anche la mercede del suo lavoro non fosse tenue, il suo stato economico non ne sperimenterebbe miglioramento. Dove il sistema delle mezzerie è in vigore, il numero dei proletari di compagna è scarso; ma …

Nella provincia di Reggio Calabria di fatti, dove la condizione del contadino è migliore, non vi sono briganti. Nelle altre due Calabrie, la provincia di Catanzaro e quella di Cosenza, le relazioni tra contadini e proprietari sono cordiali, e quindi allorché questi invocano l'aiuto di quelli per difendere la proprietà e la sicurezza sono certi di conseguirlo. Nelle provincie dove lo stato economico, la condizione sociale dei campagnuoli sono assai infelici, il brigantaggio si diffonde rapidamente, si rinnova di continuo, ha una vita tenacissima; mentre in quelle dove quello stato è più tollerabile, dove quella condizione è comparativamente migliore, il brigantaggio suol essere frutto d'importazione, né può, manifestandosi, oltrepassare certi limiti, e quando sia stato una volta disfatto non risorge con tanta facilità.”

La legge doveva avere una durata limitata dalla data della sua approvazione, il 15 agosto del 1863 fino alla fine dello stesso anno. Si ricordava il precedente del generale Charles Antoine Manhès, incaricato da Gioacchino Murat a domare la insurrezione antifrancese. Anche a Manhès erano stati dati poteri eccezionali e agì con una ferocia inaudita che in soli sei mesi riuscì a portare a termine il suo compito, lasciando sul terreno migliaia di morti e il ricordo sinistro di una crudele repressione della rivolta popolare contro l'occupazione straniera.

L'analogo comportamento tenuto dai contadini spagnoli nello stesso periodo contro Giuseppe Bonaparte, cui il fratello aveva assegnato il trono, fu considerata una rivolta popolare e assurta a uno degli eventi della lotta per l'indipendenza, mentre nel Sud d'Italia fu sbrigativamente bollata come un fenomeno delinquenziale e classificata sbrigativamente come brigantaggio.

L'epopea garibaldina aveva avuto successo poiché il Sud consegnò le proprie sorti nelle mani del generale, nella speranza di poter avere giustizia sociale e una democratizzazione dello Stato. L'esercito borbonico non fu sconfitto sul campo di battaglia, ma si rifiutò di combattere poiché gli errori del governo borbonico avevano spezzato il legame con i suoi sudditi. Ma la nuova realtà era molto peggiore di quella che avevano lasciato alle spalle. Il nuovo governo unitario intendeva semplicemente sopprimere qualsiasi segno dell'antico regno e ridurlo nella condizione di colonia. Quello che con linguaggio burocratico venne definito come piemontesizzazione era un processo di occupazione manu militare del Mezzogiorno, che fu spogliato delle sue tradizioni e delle sue ricchezze.

Il brigantaggio post unitario è stato un vasto e diffuso movimento di rivolta popolare, una rivolta contro la politica fiscale del nuovo governo, molto più feroce ed oppressiva di quella spagnola del vicereame, o francese del periodo murattiano, l'introduzione della leva obbligatoria, la perdita di autonomia e della propria identità, il liberismo selvaggio che distrusse la nascente industria dell'ex Regno delle Due Sicilie, l'occupazione da parte dei piemontesi di tutti gli incarichi nelle amministrazioni pubbliche, la difesa dell'ordine costituito con la legittimazione delle occupazione delle terre da parte della nuova borghesia agraria, che si ritrovò alleata con il nuovo ordine sabaudo.

Alla protesta popolare si erano associate bande criminali, tutti i condannati liberati durante la spedizione dei mille, i diseredati e i miserabili di ogni risma che approfittavano del disordine per cercare una improbabile via di riscatto sociale con il delitto.

Ma nella maggioranza dei casi si trattava di un vasto sollevamento politico privo di capi e di un preciso piano di azione. Un movimento disperato che vedeva di fronte a sé un futuro senza speranza. Invece di dare una risposta sul piano politico e sociale, l'unica forma di intervento su di carattere repressivo, classificando tutti gli insorti come delinquenti.

Si iniziò con la proclamazione dello stato d'assedio nell'estate del 1862, la legge Pica dell'anno successivo e la dura repressione della transumanza di qualche mese più tardi. L'intero ex Regno delle Due Sicilie erano stato posto nelle mani dei militari, sospendendo ogni democrazia e ogni comportamento civile. Molto spesso il loro comportamento fu arbitrario e disumano, calpestando qualsiasi principio di etica civile e militare.

Correttamente si era individuato nel mondo rurale il teatro della rivolta, e nei contadini i criminali da colpire non perché soggetti a condizioni di vita insopportabili, ma per la loro indole votata al delitto, come attestavano le ricerche antropomorfiche dell'autorevole studioso Cesare Lombroso. Il cranio di Giuseppe Villella, un brigante del vibonese testimoniava che l'indole criminale era conseguenza della conformazione del suo cranio, caratteristica della gente bruzia e, con stupefacente generalizzazione, delle popolazioni meridionali.

Nonostante la temporaneità dichiarata la legge restò in vigore fino al 31 dicembre del 1865, lasciando sul campo migliaia di morti vittima di abusi e di comportamenti del tutto arbitrari da parte dei militari. Una lotta impari, iniqua che vedeva da una parte il generale Cialdini con un esercito ben addestrato di 120.000 uomini, con armi e mezzi militari, dall'altra migliaia di contadini inermi, le cui armi più temibili erano pugnali, pistole e “duebotti”, ma che combatterono con un eroismo incredibile contro un nemico che sapevano superiore e coscienti di non avere alcuna possibilità di vittoria. È stata una carneficina condotta con metodi arbitrari e disumani che provocò un numero maggiore di morti di tutte le guerre di indipendenza messe insieme. Fatta eccezione per la carneficina della prima guerra mondiale di qualche decennio dopo, quando ignari contadini furono condannati al macello delle trincee alpine per immolarsi in nome di un ideale di cui ancora non comprendevano il significato.

Secondo Giuseppe Massari: “Nelle Calabrie il brigantaggio o non esiste affatto, oppure è faccenda d'assai poco momento: tutte le volte che esso ha osato levare il capo, le popolazioni calabresi non hanno affidato ad altro fuorché a loro medesime la cura di combatterlo e di annientarlo; in guisa che la Commissione recandosi nelle Calabrie non avrebbe potuto far altro se non significare i sensi della più calda ammirazione verso quei coraggiosi e patriottici abitanti, e quali come in agosto 1860 secondarono vigorosamente il moto nazionale senza temere le migliaia di soldati borbonici che stanziavano nelle loro contrade, così dopo non hanno mai tollerato che il suolo calabro venisse contaminato dalla presenza di orde brigantesche”.

In realtà la rivolta popolare in Calabria fu vasta e generalizzata e provocò una dura reazione con migliaia di morti e deportati, come attestato dalle relazioni della Prefettura dell'epoca che si possono consultare nell'Archivio storico di Cosenza.

Luigi Miceli, deputato di Longobardi fu uno dei pochi a protestare contro questo atto di inciviltà, come in precedenza aveva coraggiosamente sostenuto che il re d'Italia doveva assumere il nome di Vittorio Emanuele I, e non continuare la numerazione piemontese, per sottolineare che l'Italia doveva essere un nuovo stato e non l'estensione coloniale del Regno di Sardegna.

Luigi Miceli sostenne che la risposta al brigantaggio doveva essere il miglioramento della vita dei contadini meridionali e non la loro punizione per la rivolta per le misere condizioni in cui versavano e sollecitò una divisione dei demani e dei beni di manomorta, nonché una legge sulla Sila.

La Commissione Massari fu di tutt'altro avviso. “La sicurezza dello Stato meglio tutelata, le numerose vittime risparmiate attestano che la severa punizione di pochi fu pietà a molti ed alla patria, come crudele a molti ed alla patria sarebbe stata la pietà usata ai pochi.

Nell'enunciare questi principi e nel riconoscere che la pena di morte debba essere applicata ai reati di brigantaggio la maggioranza della Commissione non intende, o signori, che non vi abbia ad essere gradazione di codesti reati, e che tutti indistintamente abbiano ad essere puniti dall'estremo supplizio. La gradazione è necessaria e per conformarsi ai dettati della giustizia e per conservare alla pena la sua efficacia. Un miserabile che, sospinto dall'amor di bottino o da paura, siasi ascritto ad una comitiva di malfattori, ma che non ha fatto altro se non scorrere la campagna, e quando ha incontrato la forza ha gettate le armi, non potrebbe essere assoggettato alla stessa pena che colpirebbe Ninco Nanco, loro di tante brutture e di tanti misfatti.

Ad alcuni di noi, a dir il vero, pareva che il solo fatto di avere appartenuto ad una banda armata costituisca reato da essere punito di morte, e che le circostanze attenuanti fossero temperamento sufficiente a tutelare in ogni caso le ragioni della giustizia e dell'umanità; ma alla maggioranza è sembrato che il dichiarare reo di morte chiunque abbia fatto parte di bande armate fosse severità eccessiva, e che non conferirebbe allo scopo, poiché chiunque in un momento di trascorso si fosse arruolato in una comitiva, persuaso di non poter più riscattare la vita, si studierebbe di venderla cara e si darebbe a percorrere la carriera del delitto senza ritegno, perché senza speranza.

In conformità adunque di questo avviso noi vi proponiamo che la pena di morte debba essere pronunciata dai tribunali militari a carico dei briganti colti in flagranza di resistenza alla forza pubblica, e che negli altri casi di complicazione con delitti comuni, nei quali è d'uopo conformarsi alle prescrizioni del Codice penale ordinario.

La penalità che nei casi ora accennati può essere con maggior vantaggio surrogata alla morte è la deportazione in isole lontane. L'efficacia di questa pena ci è stata commendata da pressoché tutti gli onorandi magistrati e giureconsulti che abbiamo interrogato. Tutti ci hanno fatto riflettere che alla intrinseca efficacia di questa pena si aggiunge nel caso speciale di cui trattiamo, quella che deriva dall'indole delle popolazioni meridionali, affezionatissime al proprio suolo, invaghite del proprio cielo, ritrose oltre ogni credere al pensiero dell'allontanamento dal tetto natio. Il solo annunzio di questa nuova penalità cagionerebbe uno spavento salutare e fruttifero. La efficacia della pena crescerà col crescere della distanza; la deportazione alle isole di Tremiti non produrrebbe effetti così decisivi come quelle in terre lontane e di là dai mari. Nel novero dei colpevoli da condannarsi alla deportazione a vita od a tempo, con lavori forzati o senza, tutto ciò secondo le circostanze accertate del delitto, si vogliono comprendere i componenti della banda armata che non furono colti in flagranza, i complici, le spie, i manutengoli dei briganti e tutti coloro senza il cui concorso non sarebbe potuto sussistere, né procedere alle opere consuete di saccheggio, di uccisione, di devastazione.”

La legge Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali: fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria.

Le azioni del brigantaggio continuarono fino a tutto il 1870, per esaurirsi quasi spontaneamente poiché i contadini avevano perso anche la speranza e iniziò il grande esodo oltreoceanico.

Quello che non riuscirono ad ottenere con la forza, i piemontesi lo ottennero con la disperazione: la deportazione volontaria di massa, che privò il Mezzogiorno delle sue energie migliori.


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