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Mezzoeuro

Il risorgimento degli arbëresh

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XII num. 48 del 30/11/2013


Rende, 29/10/2013


In due secoli una piccola comunità di albanesi immigrati nel Regno delle Due Sicilia ha avuto una straordinaria fioritura di personaggi, letterati, poeti, politici in un arco temporale che spazia dalla creazione del Collegi Corsini a San Benedetto fino all'Unità d'Italia, allorquando la politica di omogenizzazione politica, culturale, economica, linguistica, ammininistrativa, legislativa ha inaridito quello sviluppo.

La comunità rappresenta un esempio storicamente riuscito di integrazione pagata al prezzo della perdita di identità e della propria specificità linguistica e culturale.

Il Risorgimento degli arbëresh è un titolo che può trarre in inganno, lasciando immaginare che si voglia parlare del contributo che i membri di questa importante comunità meridionale ha dato al movimento risorgimentale. In realtà l'epopea risorgimentale è per gran parte una ricostruzione in chiave romantica di eventi, fatti e circostanze che nel momento in cui si verificavano non avevano l'obiettivo della costruzione di uno stato unitario. La ricerca di uno identitità nazionale è una superfetazione successiva, una invenzione retorica per creare uno spirito unitario quasi totalmente assente tra la gente.

La comunità arbëresh nasce nel Mezzogiorno per ondata successive a partire dalla fine del XV secolo e per alcuni secoli resta silente, si potrebbe dire in sonno richiamando una espressione massonica. Nei due secoli successivi, segnatamente nel XVIII e nel XIX, ha un momento di grande splendore, di risveglio dopo un lungo letargo, e contribuisce in maniera significativa e certamente di molto superiore al suo peso numerico alle vicende storiche del Regno delle due Sicilie.

Per segnare i punti terminali di questo processo si potrebbe fare riferimento alla costituzione del Collegio Corsini di San Benedetto Ullano agli inizi del Settecento e la procamazione dell'Unità d'Italia dall'altro. In questo periodo, che coincide con la permanenza della dinastia dei Borboni nel Regno di Napoli, si verifica una straordinaria fioritura di uomini arbëresh.

Si potrebbe chiedere quale ruolo abbiamo avuto i sovrani borbonici in questo processo. Certamente non hanno fatto molto poiché non si conoscono provvidimenti specifici a favore della popolazione arbëresh. Tuttavia, hanno consentito la caducazione delle prammatiche che impedivano agli arbëresh il pieno godimento dei diritti di cittadinanza. Infatti, ad essi era vietato la costruzione di case in muratura, di andare a cavallo e così via. Queste leggi non sono mai state abrogate, ma a partire dagli inizi del Settecento furono sistematicamente disattese e questo ha consentito l'edificazione dei numerosi paesi ancora oggi esistenti.

Il lungo tempo trascorso tra il loro arrivo nel Regno e l'inizio della costruzione dei loro insediamenti stabili ha fatto sì che quando hanno iniziato le loro costruzione i mastri muratori avevano perso qualsiasi riferimento alla tecnica costruttiva dei loro paesi di origine, ma si sono rifatti completamente al modello locale, tante che l'architettura e l'urbanistica di questi paesi non si differenzia in alcun modo da quelle dei paesi circostanti. Quando nella ricostruzione di Cavallerizzo si è voluto proporre un richiamo all'architettura orientale si è prodotto un risultato che stride con il panorama urbanistico circostante, da fare apparire il nuovo centro abitato un corpo estraneo.

Se l'inizio della rinascita della comunità arbëresh può essere accettato senza discussioni, più problematica appare l'accettazione di un processo che si interrompe con la formazione dello stato unitario e merita qualche riflessione.

Il 2013 è agli sgoccioli e non mi risulta che qualcuno abbia fatto cenno a un centocinquantesimo anniversario di un evento epocale che ha segnato in maniera indelebile, e fin qui senza alcuna prostettiva di soluzione, la nostra vita e il nostro cammino di progresso.

Nostro per dire meridionale. La legge Pica, approvata il 14 agosto del 1863, che ha segnato l'inizio della legislazione "speciale" nel Mezzogiorno. E quella sì che era una legge speciale, che ha provvisoriamente sospeso le guarantigie costituzionale con la dichiarazione dello stato di guerra, e l'introduzione del codice militare nella legislazione civile, con tutte le conseguenze, gli abusi, le atrocità, gli atti arbitrari che ne sono conseguiti.

Quello che doveva essere un evento gioioso, una grande festa si è tramutato in una immane tragedia con migliaia di morti. Una statistica non è possibile perché non è mai stata fatta, poiché gli eventi che si sono succedeti in quegli anni sono stati rigorosamente nascosti, poiché doveva emergere con assoluta evidenza l'epopea risorgimentale, il processo di democratizzazione di un regno corrotto come quello borbonico, la definitiva entrata nel mondo dei paesi civili del Regno delle Due Sicilie che usciva finalmente dalla barbaria medioevale in cui era stato costretto dai suoi retrogradi regnanti.

La legge Pica ha una importanza fondamentale perché ha segnato la fine di una era, ha condizionato il nostro passato e rischia di essere ancora un macigno che pesa sul nostro futuro.

In primo luogo essa chiarisce in maniera palese che Garibaldi e le sue mille camicie rosse erano solo uno strumento, ma l'obiettivo era la conquista del Regno del Sud, la sua soggezione a uno stato coloniale, senza alcuna considerazione per la storia, la cultura, lo status giuridico, la legislazione spesso molto più avanzata.

Basta qualche rapida osservazione per dare una idea di quanto è veramente avvenuto in quegli anni.

Il governo dittariale di Garibaldi dura solo quattro o cinque mesi dal maggio al settembre-ottobre 1860 fino al famoso incontro di Teano. Il governo militare di Cialdini, che aveva al suo comando un esercito di 120.000 uomini dura quasi dieci anni, con un numero di morti, incarcerati, perseguitati con un bilancio che supera di gran lunga tutti gli episodi classificati ex-post come risorgimentali.

Garibaldi entra a Napoli il 7 settembre del 1860, Pietro Fumel era già qui tra noi alla fine dello stesso mese pronto per la sua feroce campagna di repressione.

La legislazione speciale introdotta in quegli anni per la repressione del Brigantaggio è stata giustificata dalla eccezionalità della condizione di sicurezza del Mezzogiorno, ma da quel momento esso ha goduto di uno status speciale, giustificato dalla condizione id arretratezza, dalla precarietà dei rapporti sociali, dalla efferatezza e ferocia della criminalità organizzata che in gran parte è stata prodotta dal lungo periodo di repressione e dalla necessità di organizzare una difesa contro l'abuso e l'arbitrio in cui erano costrette a vivere le popolazioni meridionali.

Noi tutti siamo diventati sorvegliati speciali, vil razza maledetta, ingoverbabili e incivili, antropologicamente criminali secondo l'insegnamento di Cesare Lombroso, tanto da meritare un trattamento molto speciale.

L'unica politica seguita costanentemente dal governo nazionale è stata quella repressiva, conseguenza della convinzione che non vi era alcuna protesta politica, come dimostrava l'entusiastica partecipazione popolare ai plebisciti di annessione al Regno. Si è levata qualche protesta da parte dei parlamentari meridionali, come Luigi Miceli, ma si trattava solo di una richiesta di mitigazione degli strumenti repressivi adottati, con un sostanziale accordo sul fatto che quella era comunque l'unica via possibile. Ammazzateli si, ma rispettando almeno nella forma lo statuto albertino, sospeso proprio in virtù della dichiarazione dello stato di guerra.

Solo Luigi Menabrea aveva proposto qualcosa di radilmente diverso, un programma di investimenti pubblici di 20 milioni di lire per dare sollievo alle popolazioni meridionali e avvicinare la condizioni del Sud ai paesi più civili d'Europa. Una sorta di Piano Marshall ante litteram, prontamente bocciato come irrealistico dai liberali al govcerno e non sostenuto neanche dalla sinistra garibaldina. Questa è la linea seguita, ad esempio, dalla Germania dopo la caduta le muro di Berlino, nei confronti dei territori dell'Est.

Di tutto questo non c'è che un cenno nel libro che vuole rappresentare il momento di crescita della comunità arbëresh e il lungo processo di integrazione nella sua nuova patria.

Per essa e per l'intero Mezzogiorno la perdita dell'autonomia e della sua specificità ha rappresentato una brusca interruzione della sua evoluzione sociale e culturale, un arretratemento delle sue condizioni economiche, un raggelamento dello sviluppo.

L'Unità ha voluto eliminare qualsiasi specificità locale, ha impedito con tutti i modi la conservazione della cultura, della lingua, delle tradizioni, degli usi e dei costumi perseguendo tenacemente l'obiettivo dell'omogeneizzazione, dell'unitarietà politica, amministrativa, legale, linguistica, culturale.

Durante il governo borbonico il Sud ha combattuto una strenua lotta contro l'oscurantismo, per la democratizzazione dello Stato, per l'introduzione della Costituzione, per la libertà politica e civile come dimostrato dai tutti i moti che si sono succeduti lungo tutto l'Ottocento. Ma non vi era alcuna particolare attenzione verso la costruzione di uno stato unitario della penisola.

Che l'Italia fosse in mano allo straniero è un falso storico e una invenzione retorica per giustificare una politica colonianilista tendente a unificare la penisola unicamente per ragioni di carattere economico, poiché l'evoluzione dell'economia richiedeva la costruzione di grandi mercati per consentire la nascita della grande industria.

La penisola era certo divisa in piccoli stati, ma con una precisa identità storico-culturale fatta eccezione per il Lombardo-Veneto che erano stati inclusi nell'Impero Austro Ungarico. Nel grande gioco della politica europea avevano un peso specifico molto limitato per la loro dimensione, e vi era un grande dibattito su come superare questa debolezza.

Ma non vi era una grande passione per la costruzione di una patria. In particolare nel Sud, e ancora più speficicatamente nella comunità arbëresh.

La dinastia borbonica pur se aveva origini straniera era perfettamente integrata nella realtà napoletana. A corte si parlava in dialetto, come Torino prevaleva il francese e la fusione dei regnanti con i costumi locali era oggetto perfino di derisione per il carattere popolaresco del loro comportamento. Un particolare rilevato con grande evidenza nella riscostruzione post-unitaria per mettere in risalto l'arretratezza culturale della corte borbonica.

La popolazione meridionale aveva un forte senso identitario tanto in Sicilia che nel Regno, come veniva indicato per antonomasia essendo lo Stato più antico, potente, numeroso ed economicamente importante della Penisola. Gli abitanti venivano chiamati regnicoli, non in senso dispregiativo, ma come Regni incolae, abitatori del Regno e non vi era alcun sentimento diffuso di italianità. Solo una piccola minoranza di intellettuali, per lo più fuoriusciti, o esiliati politici partecipavano al movimento per l'Unità e nei movimenti federalisti, il Re di Napoli veniva indicato come il naturale candidato a presiedere l'eventuale stato federale, in alternativa al Papa per il prestigio della sua carica.

Il sentimento unitario non era molto sviluppato in tutto il Mezzogiorno proprio per la loro forte identità storica, per il radicamento della cultura e delle tradizioni locali che costituivano un patrimonio ricco e sentito della popolazione.

A maggior ragione, la comunità arbëresh che per lunghi anni aveva vissuto in una condizione di marginalità, che si era sentita straniera in una terra che li aveva ospitati tollerandoli ma in tutti i modi cercava di segregarli, di marchiare la loro diversità. Due lingue, due cuori. Due patrie che impedivano una convivenza collaborativa, scevra da qualsiasi pregiudizio.

Tra gli scrittori albanesi era più forte il richiamo romantico a una patria lontana e perduta e la difesa dei valori di libertà, di giustizia, di equità sociale, la rivendicazione del godimento del pieno diritto di cittadinanza.

La patria come identificazione con lo genius loci che aveva occupato i territorio dove si erano insediati, mentre persisteva in loro l'ideale di una patria lontana e irraggiungibile che si tramutava in una nostalgia quasi mistica. Non vi era niente della concezione unitaria dell'Italia, che si rivelano solo molto tardivamente per prendere atto della nuova realtà.

Francesco Crispi ne "La Riforma", un giornale edito a Napoli durante il suo soggiorno in quella città, propugnativa l'autonomia della Sicilia e con l'Apostolato agognava uno stato federalista con a capo il Re Borbone. Gerolamo De Rada, il rapsode rappresentante della letteratura colta, prima in "Fjamurit të Arbërit" e poi con "L'Albanese d'Italia" si schierava con i movimenti indipendentisti albanesi nella loro lotta di liberazione dallo giogo turco, in questo seguito da Anselmo Lorecchio, un intellettuale di Pallagorio, con "L'Albania letteraria", ma siamo già in peridio posto unitario, a dimostrazione della forte persistenza del sentimento nazionale albanese nella comunità. A questi si aggiunge Francescantonio Santori, l'aedo del popolo, il cultore della tradizione orale che trae la sua ispirazione dal popolo.

Vi sono elementi di patriottismo nazionalista che emergono solo quando si vuole riscrivere gli eventi per farli corrispondere all'epopea risorgimentale, mentre negli scritti precedenti degli scrittori arbëresh affiora lo spirito di ribellione, l'idea di giustizia, l'anelito di una democratizzazione della politica, il riconoscimento dei diritti civil per la comunità che ha portato gli albanesi a una partepazione corale alle lotte democratiche e alle rivolte antiborboniche.

La comunità arbëresh ha vissuto per due secoli in una condizione di subalternità. Ha subito limitazionie alla propria libertà e attacchi feroci, persino per la conservazione della propria religione, che aveva un forte carattere identitario, in nome della quale era fuggita all'arrivo dei turchi. È stata ospitata nel Regno ma più per convenienza che per convinzione. È stata tollerata, sopportata, gurdata con molta diffidenza. Da parte sua ha risposto con una chiusura e altrettanta diffidenza in un estremo tentativo di difendere la propria identità e la propria specificità culturale.

L'integrazione

Oggi la comunità arbëresh vive una fase di stanchezza, e rischia di essere completamente assorbita.

Alla luce dell'attuale condizione, il processo di integrazione può dirsi completamente concluso. Si tratta di un grande successo e di un disastroso fallimento.

Gli arbëresh hanno conquistato la piena cittadinanza e sono italiani per "jus sanguinis", non operando nei loro confronti alcuna discriminazione. Questo è avvenuto al costo della quasi completa assimilazione, della totale perdita dell'identità. Della grande tradizione che hanno difeso per cinque secoli non resta che qualche segno sporadico, qualche cartello stradale, qualche timido tentativo di redarre in arbëresh sparute delibere comunale esibite come cimeli e poco più.

Questo non può bastare a impedire la sparizione della comunità in pochi decenni. La legge di protezione delle minoranze linguistiche è intervenuta tardi e male, e viene applicata ancor peggio, con distribuzione di qualche migliaio di euro a piaggio per iniziative fotocopie priva di qualsiasi carattere di organicità.

Il contronto con quanto operato in ambienti molto più attivi e attenti è impietoso. Valle d'Aosta ed Alto Adige, in particolare hanno costruito una serie di strumenti atti a diffondere la lingua, la cultura con la scolarizzazione nella lingua madre in tutti i gradi della formazione scolastica.

Sono stati favoriti in questo dalla ampia autonomia e da una pingue disponibilità finanziaria che si è protratta per molti decenni. Per le minoranze arbëresh mancano le risorse, ma soprattutto la fantasia programmatica perché oggi solo la cultura può scongiurare la scomparsa di ogni segno identitario delle comunità minoritarie


Nostalgia per quella patria lontana.

Gli albanesi come non li avete mai visti, di Annalisa Martelli

Nel salone della galleria d’arte de “Le Muse” è stata allestita una mostra personale del pittore albanese Emin Shaqja, residente da molti anni a Spezzano Albanese, che resterà aperta per due settimane. Il maestro molto apprezzato in patria per la forza espressiva dei suoi quadri, associa

il realismo delle immagini con la fantasiosa rappresentazione di personaggi e paesaggi immaginari

Giovedì 28 novembre presso la sede dell’associazione “Le Muse - Arte” a Cosenza è stato presentato il libro Il Risorgimento degli arbëresh di Oreste Parise, presente l’autore. Le relazioni sono state tenute da Cesare Marini, sindaco di San Demetrio Corone, Giovanni Belluscio, ricercatore Unical, Vincenzo Napolillo, scrittore, accademico cosentino. Ha moderato il dibattito Leopoldo Conforti. Nel salone della galleria d’arte è stata allestita una mostra personale del pittore albanese Emin Shaqja, residente a Spezzano Albanese, che resterà aperta per due settimane.

Il maestro Emin Shaqja è diplomato al Liceo artistico “Jordan Misja” di Tirana ed è stato uno dei più importanti ed apprezzati rappresentanti del “realismo socialista” partecipando a numerose manifestazioni nazionali. Molto apprezzato in patria per la forza espressiva dei suoi quadri, che associa il realismo delle immagini con la fantasiosa rappresentazione di personaggi e paesaggi immaginari. La presenza quasi casuale di elementi estranei attribuisce alle scene un carattere onirico, suggestione di un mondo incantato. Trasferitosi a Spezzano Albanese, dove vive e svolge tuttora la propria attività, ha organizzato numerose mostre personali con un riconoscimento unanime delle sue capacità espressive. Tra le ultime si ricordano: “Ekspositë e mjeshtrit” a Lungro in occasione della “Java e Salinis” nella primavera del 2008; a Vaccarizzo nel giugno 2013 in occasione della X Esposizione dei vini arberesh; Mostra di pittura “CalabriArte - Incontro collettivo” a Rossano nell’agosto 2013, con partecipazione dei migliori artisti operanti nella regione: Sasà Santalucia, Giovanna Semeraro, Emin Shaqja, Lucia Sifonetti, Grazia Simeri, Noemi Stricagnolo, Concetta Tridico, Pasquale Vincenzo e altri.

Il libro ricostruisce, in una prosa chiara e lineare, il lungo rapporto tra gli albanesi e la Penisola italiana che inizia fin dalla lontana epopea di Pirro e non si è mai interrotto.

Nel corso nel XV secolo si è verificato un esodo massiccio dall’Epiro a seguito della pressione dell’Impero Ottomano che ha provocato la nascita di numerose comunità locali arberesh sparse in tutto il territorio del Regno di Napoli e in Sicilia, che hanno mantenuto tenacemente usi, costumi e lingua per cinque secoli.

Nel corso dei secoli XVIII e XIX la comunità arberesh ha mostrato una straordinaria vitalità contribuendo in maniera determinante alla lotta la democratizzazione dello stato, la concessione della Costituzione, l’equità e la giustizia sociale con un movimento che si può considerare come un vero e proprio “risorgimento arberesh”.

Questa straordinaria esplosione di uomini e idee si inaridisce con l’unificazione della penisola per la prevalenza delle istanze unitarie che miravano alla completa soppressione delle specificità locali, delle culture e delle presenze linguistiche minoritarie.

Un rapido sguardo su fatti e personaggi che hanno fatto la storia del Mezzogiorno e d’Italia esaltando una piccola comunità che ha dato un contributo molto superiore alla sua consistenza numerica.


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