La nuova Cavallerizzo
Idee e proposte per un modello urbanistico tra identità. memoria e futuro
Convegno del luglio 2005
di Oreste Parise

Rende, 30 luglio 2005

Sono già passati cinque mesi. Un convegno sulla ricostruzione desta molta curiosità. In modo direi quasi morboso se organizzato dall'ente che istituzionalmente ha la maggiore responsabilità per poter dare avvio e portare a compimento rapidamente un processo così complesso. Forse troppo per un'amministrazione nata per le piccole beghe quotidiane, che si ritrova d'un balzo proiettato sul palcoscenico della "grande" politica nazionale.

In tanti si accalcano nell'androne della scuola elementare di Cerzeto quel 29 luglio, richiamati dai tanti nomi altisonanti. Solo in parte sono stati attratti da tanto potere e sapere. Vi sono quasi tutti gli sfollati di Cavallerizzo ed una numerosa partecipazione di Qanotë, Sëndjakotë e Pushtjerarë, il "popolo" di tutte le contrade del comune, chiamati nella loro denominazione arbëresh.

Si potrebbe dire che tutti gli abitanti del comune sono presenti in quello spazio ristretto, creando un'atmosfera irrespirabile per il calore dei corpi che va ad aggiungersi all'afa di un pomeriggio di una calda estate. Non sono semplici curiosi, ma ascoltatori attenti che vogliono informarsi sulla propria sorte o del proprio comune, vogliono qualche parola di speranza per intravedere una piccola luce in fondo al tunnel buio in cui sono stati ricacciati in una lunga e piovosa notte di marzo.

Non mancano osservatori attenti giunti da ogni dove, da tutto il circondario. Sono presenti i media, per dare risalto all'evento. L'attesa è grande, la curiosità crea un clima elettrico, quasi si fosse consapevoli di partecipare ad un momento storico, un momento da ricordare davanti al caminetto, da raccontare ai propri figli "si një rrumënxë".

Vi sono molte defezioni rispetto alle presenze annunciate. Del tutto giustificate dal particolare momento. Il generale agosto ad portas, gli ultimi impegni prima della lunga sosta, il faticoso avvio del nuovo governo regionale spiegano a sufficienza la loro mancata partecipazione. Comunque il parterre resta di tutto rispetto, vi sono tanti personaggi che potrebbero avere un ruolo nella ricostruzione, esprimere autorevoli pareri e utili suggerimenti.

È mancata la partecipazione dei nomi più altisonanti: il Presidente della Regione, il Presidente dela Provincia, Mons. Bregantini ed altri. Tuttavia l'attesa era di avere informazioni sull'ipotesi di ricostruzione.

Da parte dell'Amministrazione in primo luogo, e nuove idee dagli altri. Un convegno deludente, un'occasione mancata per iniziare a fare chiarezza su quali siano considerati i più idonei, quali sono e idee di base di questa azione. Nonostante gli apprezzabili sforzi della moderatrice del dibattito, l'affascinante Donatella Donadio, si è trattato di una prova d'orchestra con degli ottimi strumentisti che si prodigavano in virtuosi assoli. Si è sforzata di sintetizzare gli interventi e tentare una impossibile operazione di reductio ad unum, di restituire coerenza interna ad un dibattito sfilacciato Mancava la bacchetta del direttore d'orchestra, il coordinamento d'insieme, l'armonizzazione dei temi indrodotti. Ciascuno si sforzava di dare il meglio di sé sfoderando preziosismi tecnici, facendo ricorso al proprio repertorio, accordando il proprio strumento senza che ne risultasse una costruzione melodica, un ritmo coinvolgente.

Si è impedito il dibattito, e la somma dei monologhi non ha dato alcuna risposta alle domande che gran parte degli intervenuti si ponevano all'inizio dello show. Non si trattava di semplici spettatori, ma di gente provata da una esperienza tragica che nel breve volgere di qualche ora gli aveva sottratto il passato con i suoi ricordi ed il presente. La loro vita si è trasformata in una provvisorietà senza fine. Erano accorsi numerosi per conoscere la propria sorta ed il proprio destino immediato. Si sono trovati di fronte ad un sindaco che declamava la sua incompetenza. In un intervento di poche battute di circostanza ha sciorinato una litania di generiche banalità.

Si sono particolarmente "sentite" di tre punti essenziali, tre momenti topici: la politica urbanistica, un piano di assetto territoriale indispensabile in un comune sconvolto da un evento naturale di eccezionale gravità che ha rotto l'equilibrio geo-morfologico; la ricomposizione della rete dei trasporti dell'insieme dei centri abitati che da secoli condivino servizi ed interessi comuni; infine una analisi dello sconvolgimento sociale e la distruzione dell'economia di sussistenza, che consentiva a quella piccola comunità di sopravvivere.

Il dibattito è coordinato da Donatella Donadio, Assessore Provinciale con delega alle minoranze linguistiche, che si sforza di sciogliere il bandolo della matassa con grande perizia e maestria, ricercando un filo conduttore, un sentiero che porti ad un minimo di chiarezza, il tracciato di un percorso.

Alla fine tutto rimane sospeso nell'aria, in attesa di qualcosa o qualcuno che possa condurre nell'ovile il gregge disperso da una tempesta tra i monti. Gli interventi si snodano lungo tutto il pomeriggio, come un insieme di monologhi, di virtuosi assolo di singoli strumentisti. Manca un direttore d'orchestra ed uno spartito che dia ritmo ed armonia all'insieme. Si assiste ad un incipit di una sinfonia di Beethoven, una fuga bachiana, un trillo di Vivaldi e un pizzico di musica dodecafonica, tutti suonati in   contemporanea, mentre si accordano gli strumenti.

Il sindaco punta sulla politica dell'allitterazione giocata su una fascinosa successione di parole con la stessa lettera iniziale: coerenza, capacità, compatibilità e via dicendo. La politica delle molte c. Buona per uno slogan pubblicitario, ma privo di qualsiasi contenuto politico formale e sostanziale, un espediente retorico per nascondere il vuoto di contenuto. Vi sono anche parole irriguardose che iniziano con la stessa lettera, che non è elegante menzionare. Del tutto assente è una visione d'insieme delle problematiche.

Consideriamo brevemente i punti sopra ricordati.

a) L'urbanistica.

Lo strumento urbanistico del comune è il PdF (Piano di Fabbricazione) approvato oltre venti anni fa. Resta l'unico tentativo di programmare il territorio, di pensare in termini evolutivi, di tentare di guardare al futuro. Oggi i presupposti sui quali era stato costruito appaino superati dagli accadimenti: non si è frenata l'emorragia demografica, i flussi finanziari e l'interesse degli emigrati si è andato esaurendo, non si è creato alcun interesse turistico, né attivato alcun laboratorio artigianale, le scuole sono state progressivamente chiuse, i pochi servizi residui resistono stentatamente. Non si sa fino a quando potranno resistere degli uffici postali, in un regime di liberalizzazione.

Insomma lo sguardo di allora appare oggi velleitario, facendo affidamento su uno sviluppo di cui non si è avuto alcun sentore, basandosi su proiezioni demografiche risultate ottimistiche, per usare un eufemismo. In conseguenza non si è registrata alcuna espansione urbana. Nel ricercare le cause di tale mancato sviluppo (non solo urbano, ma economico-sociale), c'è chi vuole attribuirne la colpa alla prevista lottizzazione dovuta all'aver classificato zone di espansione le aree considerate più idonee allo sviluppo edilizio, come quelle della Vona, dove era possibile immaginare un processo di "conurbazione" che avrebbe potuto suturare Cerzeto con San Giacomo.

Che errore non aver consentito un edificazione selvaggia, in zone prive di qualsiasi infrastruttura primaria, senza acqua, fogne, elettricità o strade di comunicazione. Così come avvenuto per il passato avrebbe dovuto provvedere l'Amministrazione comunale a rimediare, magari pagando a caro prezzo persino gli espropri delle strade e delle piazza necessarie per un minimo di dignità urbana. Un'edilizia selvaggia è sempre un fenomeno deleterio, come mostrano i numerosi esempi che possiamo godere nella nostra provincia. Se poi si accompagna ad una cronica deficienza di risorse che impediscono al comune di provvedere all'urbanizzazione delle aree sottoposte all'assalto della speculazione, per una pietà "pilusa" che nell'incoraggiare l'investimento dei risparmi frutto in gran parte di anni di forzato esilio in ogni dove, li condanna ad un futuro di contemplazione di mastodontici (rispetto ai bisogni ed alle necessità) edifici in gran parte inutilizzati e privi di un valore di scambio, per l'asfitticità del mercato immobiliare locale. Non fa alcuna meraviglia che oggi quel piano  superato, per il venir meno dei presupposti su cui era costruito e per lo sconvolgimento conseguente alla frana che ha cancellato un'intera frazione.

Quale migliore occasione per riflettere sulla politica urbanistica, per ridisegnare il possibile utilizzo del territorio del comune quale quello offerto da un evento eccezionale, da un disastro che ha sconvolto l'equilibrio insediativo e l'assetto idrogeologico? Ci si aspettava almeno un impegno a porre l'urbanistica al centro dell'attenzione della politica amministrativa. Si è avuto un imbarazzato silenzio. Eppure oggi si impongono scelte impegnative che avranno conseguenze per molti anni a venire, indicare le linee future di espansione, riflettere sul futuro stesso del comune, cercando soluzioni e correttivi a una tendenza che vede un progressivo spostamento dello sviluppo territoriale. Anche se non farà piacere a molti, bisogna ricordare che l'unica direttrice di espansione è quella che guarda a valle, dove spontaneamente di fanno formando i nuovi centri abitati.

b) Il riassetto territoriale

Il secondo aspetto che non ha trovato che qualche distratta eco nelle relazioni è il riassetto territoriale dell'area sconvolta nell'equilibrio idro-geologico. Si è percepita una intuizione dalla presenza degli agronomi e geologi, che non potevano essere certo coinvolti nella ricostruzione del centro abitato. Ma qual è il senso della loro partecipazione? Apparivano fuori contesto, in assenza di qualsiasi ipotesi o progetto che specificamente riguardasse non solo l'area così duramente e direttamente colpita, ma l'intero territorio comunale ed oltre. Non bisogna dimenticare, infatti, che il degrado ambientale interessa una fascia molto ampia. Senza voler prendere in considerazione la faglia che percorre un lungo tratto della Catena Paolana da San Fili ad Altomonte, bisogna almeno ricordarsi di Mongrassano, collocato a ridosso di Cavallerizzo, e San Martino legato geomorfologicamente con San Giacomo ed il dissesto dell'alveo fluviale del Finita. Anche in questo caso si è persa l'occasione di formulare un progetto, o quanto meno un'ipotesi di intervento- Se non si batte il ferro quando è caldo, cosa si aspetta? Che tutto passi nel dimenticatoio. Tra poco sarà il tempo a seppellire tutto in un grande limbo dei ricordi in attesa di ricomparire tra i sogni.

c) Il sistema dei trasporti.

Un reticolo antico si è spezzato, un equilibrio si è rotto. La prima preoccupazione di un urbanista, di un "city planner" deve essere il rapporto con il territorio, con il mondo. Almeno quello circostante. Si è parlato dei massimi sistemi, ma nessuna ipotesi di ricostruire la rete dei trasporti, di inserire nuovamente il comune in un sistema di relazioni sociali, economiche e commerciali.

d) Il riequilibrio socio-economico

Dopo tante parole gli interrogativi iniziali sono rimasti senza alcuna risposta, in relazione al nuovo sito della ricostruzione. Qualche ipotesi più o meno fantasiosa che circolava prima dell'inizio non ha trovato né conferma, né smentita, né risposta in una ipotesi ufficiale. Anche per i criteri da usare, nessuna voce ufficiali. Architetti ed ingegneri hanno illustrato in pregevoli interventi principi ed ipotesi validi in astratto in qualsiasi circostanza. È mancata la voce ufficiale che desse qualche garanzia o indicazione su quello che si vuole fare.

Ma cosa fare nel concreto, nessuno si è azzardato ad ipotizzare. Ricostruire la fitta trama delle rrugë, dove non possano transitare le auto oppure creare ampi spazi verdi attorno ai quali raccogliere le famiglie? Ci si è completamente dimenticati di quell'economia di sussistenza legata al piccolo appezzamento di terra vicino alla propria abitazione, con locali idonei al piccole lavorazioni casalinghe: prodotti sottaceti, produzione di salumi, preparazione del vino, salsa ed altri prodotti preparati in casa. Nel loro complesso non si trattava di grandi valori e non avevano grande rilevanza commerciale, poiché destinati all'autoconsumo. Ma costituivano una importante fonte integrativa delle scarse risorse finanziarie a loro disposizione, legati a provvidenze varie come le pensioni sociali e trasferimenti dei familiari lontani. L'abbandono delle case comporta la perdita di tutte quelle piccole rendite, di quei benefit legati alla storia ed all'organizzazione sociale storicamente definita. Non sarebbe stato opportuno pensare ad un "orto sociale", sull'onda da quanto sperimentato da alcune country municipality inglesi che hanno acquistato dei terreni, suddivisi in piccoli lotti da affittare alle famiglie per la coltivazione di ortaggi. Tra tutti gli sprechi di cui si ha sentore in questa prima fase della ricostruzione, l'acquisizione al patrimonio comunale di qualche ettaro di terra "Te Lumi i Qanës" con l'organizzazione di un sistema irriguo, non sarebbe la spesa più improduttiva. Servirebbe a restituire una componente di quello spirito comunitario irrimediabilmente perduto.

***

Pregevoli e condivisibili le argomentazioni dei professori Francesco Altimari e Vito Teti, che in un duetto concertante si sono richiamati alla esigenza di tutelare la comunità, preservare le tradizioni culturali, salvare lingua e cultura, ricostituire le gjitoni per salvaguardare l'assetto socio-culturale. S'kemi bukë, kërkojëm ndrikullën. Dice il proverbio, per sottolineare il vincolo di solidarietà che legava i vicini, che si scambiavano anche il pane in caso di necessità.

Non va dimenticato il richiamo alla ricerca delle responsabilità che non devono limitarsi unicamente alle responsabilità penali, che appartengono ad altro organo e, a quanto risulta, stanno andando avanti con la lentezza tipica della macchina giudiziaria. Le novità sono sicuramente in agguato.

Ma un evento così traumatico impone una riflessione molto più generale. Non si è colto minimamente l'occasione per stigmatizzare i guasti dell'abusivismo, le nefaste conseguenze di un uso spregiudicato nell'uso del territorio, una scarsa considerazione per i molteplici "segnali" ricevuti.

Il disastro ha un carattere naturale, ma l'azione dell'uomo è stata decisiva ed ha contribuito in maniera determinante a favorirne l'esito, a provocarne l'accelerazione. Nulla si è voluto dire sul disastro culturale che continua a restare nascosto pronto a colpire ancora, a contribuire ai guasti urbanistici ed ambientali.

Sembra quasi che, finita l'emergenza, nessuno ricorda più la gravità dell'accaduto e la conseguenza logica: la necessità della programmazione del territorio, il rispetto delle norme, la preminenza del bene pubblico sulle esigenze dei privati, la costante manutenzione delle opere di drenaggio. È sicuro che per questo è sufficiente la politica delle c?

(Unpublished, posted on tuesday 4 october 2005)


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