Dei primordi e delle vicende del dialetto Calabrese
(tratto da Luigi Accattatis, Vocabolario del dialetto calabrese, Appendice I)
Nei secoli immediatamente posteriori al mille la lingua parlata in tutta Italia era una bassa latinità la quale innestandosi col gotico e colo romanzo, procedeva trionfalmente assumendo sempre più le forme e i caratteri forieri di una nuova lingua prossima a nascere. Questo linguaggio semi-barbaro si discostava tanto più dalla buona latinità quanto maggiormente lunghe ed intrinseche eralo state le relazioni con gli stranieri e la loro dimora nelle varie regioni italiche. Dopo il primo millennio dell'Era cristiana, inconciamo a trovare alcune autorità storiche, che ci assicurano, senza dubbio, della esistenza del volgare calabrese.
Principalmente è una carta rossanese dei principî del secolo XII pubblicata dall'Ughelli nel 1661, che il De Meo riferisce al 1104 e il Muratori al 1122, e della quale il Muratori medesimo e poscia il De Ruis, il Cantù ed altri si avvalsero come uno dei primi e più chiari documenti della lingua italiana, che molti anni dappi doveva sorgere, sfolgorante di bellezza e di gentilezza dalla penna di Dante.
Questa carta contiene la descrizione di alcune terre situate in quel di Rossano, Corigliano e S. Mauro, le queli essendo già appartenute, nel tempo dei Normanni, a un Guglielmo de Lasdian, vennero donate, dal conte Ruggero di Sicilia, nel 1104 al monastero di santa Maria del Patire, presso Rossano. La carta contiene la data da Rossano, è dettata con ortografia latina, con latina dicitura assai spesso intercalata di voci del vernacolo rosanese, come queste: Serra, Crista, Vallone, Ad irtu, A pendinu, Gumara, o Humara, Supra, Cala, Vene, Palumbe ecc. ecc.
Va sottinteso che qui s'intende parlare del dialetto calabrese scritto, il quale differisce in certo qual modo dal dialetto parlato. Il dialetto scritto, s'intende, si può dire che allora non esistesse, cià che le tracce che se ne rinvengono, così in questa autorità, come nelle altre che seguono, depongono sempre più della antichità di quel vezzo, che è di ogni tempo e di ogni nazione, e che consiste nell'infarcire le scritture di vocaboli non propri della lingua in cui si scrive. Anche oggi noi vediamo le scritture dei legali, degli ingegneri, e degli agronomi, benchè dettate in italiano, lardellate da infinite voci del vernacolo. Ed è anzi rimarchevole che nelle stesse composizioni letterarie moderne, e di tempi non remoti osserviamo questo stesso difetto, in cui si cade o in omaggio all amoda, o er desiderio, di alcuni, di essere meglio intesi e in altri, per ignoranza delle voci italiane corrispondenti alle vernacole che debbono scrivere.
U'altra autorità storica si rinviene in un racconto riferito da RIccaro di Sangermano, il quale narra che nel giugno del 1233 un romito, entrato in San Germano, radunava il popolo a suno di corno e lo invitava ad essere isieme a lui con quest parole: "Alleluja, Benedictu, laudatu e glorificatu lu Patre; Benedictu, laudatu e glorificatu lu Filiu; Benedictu, laudatu e glorificatu lu spiritu SAnctus; alleluja, Gloriasa Domina". Il Sangermano soggiunse qui il Pagano, non dice di qual provincia e di che ordine fosse quel frate. Dovrebbe essere, come vuole il Giaanone, pugliese per idiotismo di Filiu, o dei Casali di Cosenza per l'altro idiotismo di Patre, e doveva appartenere ai Frati minori, ordine allora fiorente nella Calabria cosentina.
Una terza e autorevole testimonainza la si ritrova nel libro del sommo Allighieri De Vulgari eloquentia, in cui annovera il Calabrese fra i quaattoridici dialetti d'Italia, distinguendolo segantamente dallo Anconitano e sottoponendolo al Pugliese, che egli chiama laida ed oscena loquela, e soggiungendo simili cose del Siciliano, così affine al Calabrese. Come Dante chiamava laide loquele gl'idiomi delle Puglie, delle Calabre e della Sicilia, così il Boccaccio scriveva che i Calabresi parlavano teutonicamente e tartaricamente. Così i Greci chiamavano barbariche le favelle osche: così i babassori del latino appellavano volgare la lingua del bel paese dove il si suona!
"Epure - scrive il Pagano - il Boccaccio aveva aveva conversato in Calabria e scrive da Napoli, a nome di Giannetto de Parise, della Rocca, una lettera in lingua napolitana, la quale, quanto alla proprietà dello idioma, è differente da un brano di napolitano del 1361. Avvertì il Galiani, nei suoi Dialoghi Napolitani, che in questa lettera del Boccaccio siano intrusi moltissimi idiotismi siciliani, come: lu patre, lu pozziamu, ero, picca, tuorcia, cuosa, juocate ecc., credendo il Boccaccio di accostarsi al suono della favella napolitana, dalla quale invece si è scostato ed è caduto nell'accento siciliano e calabrese. Il Boccaccio aveva dimorato nella Certosa di San Stefano del Bosco, ove appunto si parlava il dialetto siciliano-calabrese. Quel Giannetto de Parise, della Rocca, ci sembra essere un calabrese dimorante in Napoli e impiegato nella Corte di Giovanna I d'Angiò: egli era nato in una delle Rocche di Calabria, che potrebbe essere la Rocca di Corace o di Niceforo. Infatti, la Rocca di Niceforo si vede nominata in carte angioine del 1305, e un tal Janni in una cata calabrese del 1086". Apro qui una parentesi, che credo necessaria a discolparmi da ogni possibile riproduzione erronea.
Non arrivo a capire come il Janni esistente nel 1086 (se questa data non è un errore tipografica) possa sospettarsi essere la identica persona del Gioannetto de Parise, di cui si parla più sopra e a cui bisognerebbe atribuire gli anni di Nestore. O che si sia voluto soltanto notare che un cogneme de Parise esistesse già sin dal 1086 in Calabria? I buoi calabresi, in verità, avrebbero desiderato che in tute quese dotte ed argute ricerche il mio illustre amio prof. Pagano si fosse circondato di migliori garanzie, citando la data precisa delle carte e dei libri, che gli somministrarono il prezioso materiale storico, che ha dato alla letteratura calabrese; evitando le inutili ripetizioni; badando soprattutto a correggere le date e gli errori ortografici che non sono pochi.
Oggi, egli lo sa, la critica è spesso un corollario della invidia e della ladicenza; è e deve essere sempre, poi, una minuta analisi di qualsiasi affermazione o giudizio, che si giuri in verba magistri: ecco il bisogno e la circospezione di citare non solo l'autore ed il uso libro, ma la tipografia e l'anno in cui esso fu stampato, la pagina perfino onde si trasse l'affermazione, perché ogni lettore possa riscontrarne l'esattezza. Le dodici dissertazioni filologiche che voi, mio dilettissimo ed eruditissimo prof. Pagano, avete già pubblicato e gl Studi Calabresi del grande vostro fratello, ab, Leopoldo, che sono in corso di stampa, staranno a dispetto del tempo, dell'invidia e delle miserie umane, come monumento di vostri migliori amici ed ammiratori, che da umile discepolo segue in questi studi le tracce vostre (e talora dubita di seguirvi pel timore che il maestro non sia abbastanza sicuro del fatto suo) vi prega di riordinare con più appurata agiografia, in una seconda edizione, (anche perchè la prima difficilmente si cercherebbe in commercio), quei discorsi stupendi di filologia, usando minor fretta, citando accuratamente le fonti e le autorità storiche onde beveste e correggendone gli errori.