Luigi d'Aquino, Barone Maresciallo di campo

Poesia
A questa polve

la vita è ugual; che sempre il suo cammino

segnasi con dolor: l'orma di un piede

un altro piè cancella, e tutti un vano

simulacro qui siam, che appar per poco,

e soffre, e muore. (Niccolini, Arn.)

Peritura lode merta certamente colui il quale non altre virtù può vantare che quelle di magnifico sangue, insino a lui pervenuto per lungo ordine di magnanimi lombi. Non è però che abbiasi a tenere siccome cosa spregevole l'antica ma estrinseca nobiltà degli avi, quando bellamente vi si congiunge insieme la più chiara ed intrinseca della gloria propria. E se miserabile dee tenersi il giovin patrizio, scemo si senno e di dottrina, più sarà commendevole per converso il dotto, il valoroso, se anche fortuna arrise benigna alla grandezza del suo nascimento. Per la qual cosa nel tesser io l'elogio del prode Luigi Antonio d'Aquino, morto in giovane età maresciallo di campo dell'esercito nostro, mi farò dapprima a ragionare di suo illustre casato, perché più gloria e prezzo ne venga alla virtù del suo ingegno, alla grandezza del cuore, al valor della mano. Né per questo mi perderò in troppe e lunghe e vane parole, bastandomi solamente far cenno di que' diligenti e antichi monografi delle nostre ricchissime Calabrie, i quali intorno a' d'Aquino lungamente discorrono. Il Barrio, innanzi tutti, queste parole (latine originariamente) detta nella celebrata sua opera - Della vetustà e del sito della Calabria.

Di questa città (Belcastro) fu San Tommaso cognominato d'Aquino, esimio dottore, cenobita dell'ordine de' Predicatori, figliuolo di Landolfo, il quale tenea signoria su questa città e sulle terre vicine, e di Teodora. Né vien denominato Aquino, perché fosse Aquino la patria, ma perché questo é il nome della sua famiglia gentilizia. Co' fatti sussistono eziandio i d'Aquino in molti luoghi calabri, siccome Cosenza, Tropea ed altrove, ricchi uomini e nobilissimi; e fra altri vive a tempi nostri Cesare, parente al divo Tommaso. Laonde nel secolo XVI, l'anno 1571 che il Barrio pubblicava in Roma la sua pregiatissima istoria, era questa la universal sentenza. Senzaché in tutte quante le descrizioni o singole o generali delle provincie del reame di Napoli, sempre fra' cospicui casati cosentini leggesi questo de' d'Aquino insieme agli Abenanti, ai Barracca, a' Cavalcanti, a' Matera, a' Sersale, agli Spiriti, a' Tirella ed a molti altri ancora.

Così registraro nelle loro opere il Beltrano, il Mazzella, il Costo, il Rossi, il Campanile, il Sanbiasi, l'Altimari ed il Fiore. Ma più antichi monumenti si hanno di questa illustre prosapia cosentina; perocché ne' nostri Archivi diplomatici solenne scrittura conservasi dell'anno 1307 il dì 18 del mese di novembre, la settima indizione, nella quale Roberto Duca di Calabria e general vicario del regno di Sicilia commette ad Adenulfo de Aquino giustiziero in val di Crati, intimo consigliere e devoto suo, un importante negozio. Ed avvene un'altra ancora indirizzata da re Ladislao nell'anno 1407 ad Andrea de Aquino da Cosenza fedele e consigliero nostro diletto.

Pure lasciando dall'un de' lati le antiche pergamene, piacemi più a tempi vicini discendere, cioé nel 1677 Fra Giuseppe de Aquino si avea la commenda denominata di Tancredi nell'ordine augusto gerosolimitano di Malta, nel quale esercitò eziandio l'officio di capitan d'arme a guerra, siccome era la forma del dire, nella Lingua italica. E fratello di lui fu Marino, onde venne Carmine; e questi il quale generò Tommaso, disposata la nobil donna Isabella Mangone, n'ebbe nel giugno dell'anno 1771 secondo figliuolo Luigi.

Nato nella patria de' Parrasio, de' Telesio, de' Quattromani, de' Serra e di tanti cospicui uomini di lettere, il giovanetto vivacissimo bene prometteva di sè fin da' primi primissimi anni, e fu mandato a Napoli a côrre più fiorita e più scelta educazione nel collegio de' nobili, dove per quel sentimento di dignità e di amore a sé stessi, onde non è mai difetto in cuor calabrese, fece ogni suo potere per andar meritando la predilezione de' maestri, il rispetto de' reggitori, l'amore de' colleghi. Dal quale convitto, poi ch'ebbene compito gli studi, andò a farsi meglio addentro in filosofia dal suo celebre conterraneo ed amico, abate Salfi, il quale in quel volger di tempo dettava in Napoli lezioni di cotal prima scienza.

Mariano D'AyalaIntanto col terminar della guerra di America tutte le antiche rivalità sembravano spente: l'Inghilterra e l'Olanda, sicure del loro commercio, avean deposto qualunque pensiero di ostilità: la Russia, le cui armi aveano fatto impallidire il despota d'Oriente, attendeva a compiere la grand’opera, che da Pietro il grande cominciata, avea sì innanti proceduto sotto il reggimento della Semiramide del settentrione: la Spagna e la Prussia coglievano i frutti della sapienza di Carlo III e di Federico II: l'Austria governata da un principe che avea rinnovati in Toscana i tempi più felici, distruggeva i germi d'ogni gelosia politica col più potente de' suoi vicini, data un'arciduchessa ad un nipote di San Luigi. Ma in mezzo a sì ingannevol calma, apparecchiavasi quella terribile rivoluzione, le cui scosse aveansi pure a sentire in lontanissime contrade. Nembi di armati, che rinnovavano la memoria delle antiche incursioni, inondan l’Europa tutta quanta. I novelli conquistatori sono inspirati dal bellicoso ardimento della vittoria. L’Italia è invasa: le legioni napolitane, che pugnato avean valorosamente ne’ campi di Tolone e di Lombardia, sono per imperizia o per imprudenza de’ capi, debellate; più agevolandone la rotta il numero prodigioso rispetto a’ nemici. Il popolo è costernato. La capitale città vien minacciata, un accordo si statuisce, la repubblica partenopea è proclamata; molti l’avean sulle labbra, secondo illustre scrittore, moltissimi nella testa, ma assi pochi nel cuore. Formavasi la guardia nazionale, ed invece di esser questa la forza del popolo, malamente credevevasi poterne fare la forza dello stato. L’invidia e la gelosia de’ Francesi non permisero l’ordinamento delle nostre soldatesche, credendo a tutto bastare essi soli, per sempre rappresentar da padroni. Poscia ma con indugio, e poco giovandosi degli antichi soldati, venne componendosi la legione campana di fanteria, retta dal colonnello Agamennone Spanò, l’altra governata dallo Schipani dell’arme medesima, e quella di cavalleria obbediente a' cenni del Federici, uno de’ cui reggimenti era capitanato dal valoroso Ferdinando Pignatelli. E quasi nel tempo stesso ordinavasi la legione nazionale calabrese per opera principalmente del prode Pasquale Salerno di Castrovillari. Alla quale si appartenevano quelle vittime illustri del forte di Vigliena, dove assai notevoli per ardire invitto furono il Sersale che colà comandava, Giuseppe Antonio Verardi dell’antica e nobil città di Taverna, ed Antonio Toscano.

Medesimamente in questa calabra numerosa legione noverato l’ardentissimo giovane Luigi Amato cosentino eletto capitano tostamente. Né si mostrò audace e valoroso sol quando eran favoreggiate le pubbliche faccende, anzi il coraggio crebbe e di valore allorché giù previpitavano in meno di cinque mesi i concepimenti e le speranze della parte pensante del paese. Epperò sostenendo insino alle ultime pruove il decoro nazionale, fu fatto alla fine prigioniere co’ tanti altri in Castel Sant’Elmo, non ostante l’articolo V della capitolazione, in cui leggonsi queste parole: La guarnigione sarà imbarcata sopra la squadra inglese fintantoché saranno preparati i bastimenti necessari per trasportarla in Francia. E v’eran sottoscritti Mejan, il tenente generale duca della Salandra, Troubridge capitan di vascello comandante il Colloden e le milizie inglesi e portoghesi innanzi al castello, ed il capitano cavalier Belli preposto alle soldatesche della maestà dell’imperatore delle Russie. Ma al d’Aquino riusciva di fuggir via sotto la divisa di soldato francese, siccome poco innanzi co’ soldati di MacDonald eransi salvati e l’abate Salfi ed il medico catanzarese Giovanni Bianco.

Recatosi quindi in Francia, il general Giuseppe Lecchi scrivevagli in Bourg il dì decimoquinto del mese de’ fiori (floréal) l’anno ottavo della rivoluzione di Francia. “Cittadino, io vi paleso che per decisione del generale in capo Berthier in in data del dì 12, approvata dal primo console della repubblica francese, il quale conferma l’ordinamento della italica legione, voi siete terminativamente nominato capitano. Saluto e fratellanza”.

Col quale officio ei compiva in Italia la guerra dell’ottavo anno, allora quando prese Massena a capitanar quell’esercito, morto Joubert alla battaglia di Novi, ed altrove chiamato Championnet. Furon famigerati in quel periodo di pugne il fatto di Monte San Giacomo addì 19 di aprile, la difesa di Genova, le battaglie di Oneglia e di Montebello, la giornata di Marengo il dì quartodecimo di giugno. Dopo le quali vittorie, non ultimi illustrandovisi i soldati italiani, e fra essi il d’Aquino, la Francia addoppiava di sforzo per ben sostenere la supremazia delle armi; cotalchè 15mila uomini venivano dilungati dal secondo esercito di riserva assembrato in Digione, i quali retti da MacDonald eran deputati a penetrar nella Svizzera per tenersi a mezzo de’ due eserciti di Alemagna e d’Italia, e soccorrer l’uno o l’altro a seconda i casi di guerra. Brune succedeva a Massena ne’ campi italiani, e Bellogardo a Melas. Moreau teneva l’imperio delle soldatesche francesi ne’ campi alemanni, e indettavasi col capitano dell’esercito de’ Grigioni perché egli avesse inteso a cacciar via dal Tirolo gli Austriaci, compiendo, giusta la sentenza di Carlo Botta, “imprese che paiono impossibili, e più a coloro che le hanno effettuate. Non le crederebbe la posterità se il secolo nostro, tanto abbondante raccontatore, non una ma cento testimonianze non fosse a tramandarne”. Le quali difficoltà egregiamente superate, avea Macdonald a proteggere la sinistra dell’eservito di Brune, armeggiando con senno nel Tirolo italiano. Pure inviava il capo dello stato maggiore Matteo Dumas perché il reggitore dell’esercito d’Italia mettesse a’ suoi ordini due divisioni della ala sinistra. E questi, che già avea un disegno incarnato e già era a veggente dell’inimico, limitossi di lasciare indietro alla mancina 2mila uomini della legione italica per congiungere le due schiere, accostandosi alla valle Camonica ed aprendosi un varco fra la catena delle montagne che la separano dall’altra valle della Sarca.

E quanto il vigore e l’animo di questi soldati italiani e del capitano Luigi d’Aquino, non è a dirsi a parole, massime dopo la vittoria di Moreau in Hoenlinden (31 dicembre). Per la qual cosa affidava loro l’onor dell’avantiguardo, ed essi con nobilissimo coraggio infestarono senza posa il retroguardo austriaco comandato dal generale Davidowich, il quale difendeva a mano a mano il terreno, per dar tempo al suo duce in capo Laudon di ritrarsi verso Trento e nella valle della Brenta. Questo concepimento si fè chiaro all’ingegno militare del Macdonald; sicché addì 6 gennaio 1801 sforzando sua giornata fece quaranta miglia di via, ed a Trento innanzi pervenne. E’ questa una delle più luminose pagine della vita del nostro d’Aquino. Imperocché ributtata la legione italica del Lecchi, volta a vincere il passo del ponte, che l’Austriaco fatto avea ardere e tagliare, fu egli a dar primo l’esempio di gittare ponte di zatte, ed esponendosi primo a’ fuochi spessiti delle batterie fulminanti, venne seguito primamente da due compagnie di cacciatori italiani, e trasse a insignorirsi della città di Trento. Gran danno che alla foga di questi soldati vittoriosi venne in mal punto l’armistizio di Treviso, e poi quello di Luneville negoziato e sottoscritto addi 26 di gennaio. Allora la legione d’Italia lasciava l’esercito di Brune muovente a ricarcare le Alpi, e per cenni del primo Console congiungevasi alle soldatesche del generale Murat. Il quale sin dal dì 12 gennaio era mosso da Milano, pigliando la via di Piacenza, ed accelerando il cammino spartì le sue genti, metà sulle frontiere toscane per sostenere Miollis alle prese co’ napoletani, e l’altra sulla Romagna per minacciar Ancona.

Era fra quelle prime schiere il prode d’Aquino, al cui animo generoso ebbe certamente a giunger cosa gradevolissima il trattato di Foligno tra il cavalier Micheroux e Murat, e quello di Firenze fra lo stesso legato napolitano ed Alquier addì 28 marzo, perché aprivan le porte della patria a’ suoi illustri compagni di sventure, e già cadeva ogni ombra di straordinario tribunale nelle Sicilie, d’immense lagrime amarissima sorgente. E poi che fu principal condizione di dare a Francesi i porti e le fortezze sull’Adriatico, correndo il terzo giorno di aprile, dodici mila uomini capitanati dal generale Soult dirizzavasi alla volta del Reame di Napoli, da cui la pace di Amiens del dì 25 marzo 1802 richiamavali. E dappoiché dietro le prescrizioni della consulta legislativa, i decreti del governo, i consigli del primo Console, e gli eccitamenti del generale in capo era avvenuto addì 6 del mese delle vendemmie l’anno X l’ordinamento delle soldatesche cisalpine, il ministro della guerra scriveva a d’Aquino essere stato nominato capitano di terza classe nella seconda mezza brigata di linea, le cui stanze erano a Como, governata dal colonnello Lecchi. Alle rotture di quel trattato marittimo, lungo le coste della Puglia e di Taranto, contò Luigi le due campagne dell’anno decimoprimo e secondo, 1803 e 1804. Imperocché addì 14 maggio il prudente ed irremovibile generale Gouvion-Saint-Cyr partiva da Rimini, attraversava il ducato di Urbino e le Marche, ed entrando sul territorio napolitano lasciava presidi in Pescara, Otranto, Brindisi e Taranto.

Nel qual tempo, buon napoletano d’Aquino, non abusò certamente della fortuna della armi, per disprezzare quelle podestà municipali ed il suo paese alla fin fine, il quale patendo quelle umiliazioni di territorio occupato, troppo consentiva alla confessione della propria debolezza. Ma nell’anno 1805, tementi l’aggrandito potere di Napoleone, collegaronsi insieme contr’esso Russia, Inghilterra ed Austria, ed entrava in lega segretissima anche lo stato di Napoli, il quale per via del plenipotenziario a Parigi, Marchese Gallo, fermava addì 21 settembre col ministro Talleyrand delle faccende straniere trattato di neutralità, a condizione che le milizie francesi avessero abbandonato le sponde adriatiche, e gli aditi marittimi delle Sicilie chiusi fossero a navi inglesi. Allora il capitano d’Aquino mosse fra quelle legioni verso la settentrionale Italia, dove altra stagione campale passò, e molto si distinse nell’esercito deputato al blocco di Venezia, una ferita riportando di moschetto al pie’ sinistro, nello sforzato passaggio dell’Adige. Il quale esercito, dove Luigi fu in novembre 1805 aiutante maggiore del secondo reggimento de’ fantaccini italiani retto dal Rossi, fu appunto quello dirizzato verso Napoli, quando seppesi esser sbarcati nel porto della capitale 16mila russi comandati da Lascy e la metà d’Inglesi sotto il governo di Greig, pronti a uscir dalle frontiere con le promesse forze napolitane di 30mila soldati. Ma i disastri di Ulma e la giornata di Osterlizza la fecero dare a gambe a que’ nostri difensori forastieri, teneri pur non dimeno d’impadronirsi della fortezza di Gaeta, da cui furon valorosamente ributtati per opera del fedele ed egregio Philipstall.

E rimasi i regi soldati in lotta sì inuguale, 14mila opposero quella resistenza che meglio poterono, governati dal generale Damas; e poscia ritiraronsi sulle frontiere delle Calabrie per aspettar tempo, e tentar l’ultima fortuna delle armi fra le marine di Trebisaccia e Francavilla a levante e quella della Scalca all’occidente. E senza andar ripetendo cose oramai risapute, conferito il trono di Ruggiero a Giuseppe Bonaparte con imperiale editto del dì 30 marzo, il capitano Luigi d’Aquino veniva dopo non guari di tempo addì 23 giugno eletto aiutante maggiore del primo reggimento delle fanterie napolitane di battaglia, innalzatovi a capo di battaglione al primo dì del mese di dicembre. E fu tanta la sua solerzia e la diligenza e la sollecitudine nell’ammaestramento di que’ giovani coscritti che nel maggio dell’anno seguente (1807) già il re passava a rassegna quel reggimento, dalla divisa bianca e da’ rivolti celesti; e sul batter di luglio già muoveva di Capua alla volta d’Italia e poscia delle Spagne. Colà, quasi in sull’arrivo, valicati i Pirenei e battuto il sentiero per Figueras Girona e Matarò, due battaglioni del primo nostro reggimento, uno de’ quali comandato dal d’Aquino entrano insieme con uno squadrone di cavalli nella cittadella di Barcellona, cacciandone via i reggimenti valloni che la presidiavano; quando il supremo capitano di quella divisione Giuseppe Lecchi, avea contemporaneamente comandato ad un battaglione del quinto reggimento italiano l’assalto del forte Montjovi il quale è torreggiante sopra la montagna, daddove prende quel nome spagnuolo, monte di Giove in italiano, ed ha poche opere forti che lo possano ragguagliare per aspri siti e naturale importanza. E ne contrastò il possesso lungamente il bravo Emmanuele Alvarez cui pur fu tolto di forza alla fine; tramutandosene il governo nelle mani del colonnello del reggimento napolitano.

Allora lo stendardo della rivoluzione è fieramente inalberato dagl’Insubri, e primi corronvi forsennati gli abitanti di Manresa, i quali rivocarono alla memoria i tempi di Filippo V. Per la qual cosa Duhesme, cui era fidato quell’esercito di osservazione su’ Pirenei orientali comanda: il generale Chabran mouvere con la sua divisione su Tarragona, e la brigata Schouartz dirizzasi appunto verso la sovraindicata parte catalana.

L’antiguardo di questa soldatesca era il secondo battaglione napolitano comandato dall’intrepido d’Aquino. Il quale, incontrata addì 29 maggio una banda gagliarda d’insorgenti alle gole del Brug, villaggio alle falde del Monsecato, la sforzò con veemenza a dar libero il passo. Ma il nemico più ingrossava innoltrandosi, e sull’imbrunire del giorno un suono a stormo chiamava alle armi i popoli della valle di Esparaguera che le propagini di quel monte formavano, chiudendosi alla gola di Martorell. Procedere innanzi era impossibile in mezzo ad universale insorgenza; eran rotte le comunicazioni con Barcellona: non rimaneva che batter ritratta nel buio della notte, comecchè si avesse dovuto attraversare fra le genti rivoltate di Esparaguera. Le quali, fittamente sbarrato ogni passaggio, non cessavan dal fuoco di moschetteria da sulle finestre, dalle porte, da’ campanili, aggiuntavi eziandio una pioggia di embrici e di sassi gittati da’ tetti. Al battaglione napolitano fu comandato sgombrar la via: il ferro, il fuoco, la disperazione de’ difensori lo rispingono con tutti gli estremi sforzi della ferocia: la morte lo minaccia ad ogni passo, e ad ogni passo nuova battaglia gli convien reiterare; pure la via fu sgombra, e vi transitarono le artiglierie ancora. Né minori difficoltà s’incontrarono insino all’aurora, quando compivasi l’altro più difficile passaggio sul gran ponte di Molino del Re, istessamente sbarrato ed ostinatamente difeso da micheletti. Nel qual fatto il d'Aquino mostrò coraggio ed audacia maggiori d'ogni elogio, ed ebbe diciannove morti, e quarantacinque feriti, fra' quali capitani Staiti e Ruggiero, i tenenti Cannella e Poerio, assai lodandosi del capitano Serrano e de' tenenti Martinez e Forni.

Frattanto i tumulti in Catalogna di dì in dì aumentavano; talché sul cominciare di giugno erasi raccolto un formidabile stuolo di popolani sulla dritta del Lobregat e del suddivisato Molino, i quali facendo tesoro delle montagne collocate alla mancina di San Filiù infestavan quelle contrade, ed ogniddì molestavano il secondo reggimento napoletano de' cacciatori a cavallo colà accantonato. Altro fatto glorioso pel d'Aquino fu certamente quello del dì 16 giugno. Consiosiachè mossa tutta quanta la gente del Lecchi per traghettare il Besar ed espugnare un ridotto munito di grosse artiglierie verso il villaggio di Mongata, riuscì al secondo battaglione napolitano torre in dominio la collina soprastante, in ispezialità contrassegnandosi il capitano della quinta compagnia Gabriele Pepe. E superato cotanto contrasto, verso le undici del mattino si spinse lo sforzo su la città di Matarò, sei leghe distante da Barcellona, nella quale erasi ritirato il capo de' micheletti, certo Milans del Bosco; d'Ambrosio col primo battaglione dirizzava lo scopo verso il fronte di terra, ma d'Aquino co' suoi lungo la riva del mare, supera le prime case, s'impadronisce di una batteria, mette il fuoco a tre grandi barche armate, e sloggia dappertutto l'inimico. Furono chiari per valore i capitani Forcella, della Posta, Doria, d'Estengo, Serrano, Lombardi, Giannettini, ed i tenenti de Petris, Costa, Du Marteau, Martinez e Tomaselli, e fra questi Serrano, Martinez, e du Marteau, non che il caporal Cesarini s'ebbero la gloria di torre al nemico quattro bandiere. Accrebbero eziandio la fama de' nostri la risoluta ardentissima scalata di Girona, cominciando colà a segnalarsi il sergente maggiore Prete, primo ad ascendere animoso una delle scale, ultima da quella discendendo, ed i passaggi del Lobregat addì primo di luglio e 2 settembre, in cui ebbesi fra le perdite a rimpianger la morte del valoroso uffiziale de' granatieri de Petris, siccome furon dolorosamente sentite le morti del tenente della seconda compagnia de' nostri granatieri Poerio nel ripigliare il villaggio di Esplugar sullo scorcio di novembre, dell'altro Valenzuola nella difesa di un ridotto intorno al Monte di Giove nel giorno sesto di dicembre, e del capitano Doria il dì appresso. Per tal guisa ebbesi termine la prima guerra di Catalogna, perocchè la vernata era sopra, e facea d'uopo provvedere alle bisogne.

E colà i due battaglioni nostri diedero chiaro a vedere di che sono capaci i napoletani sotto buone regole, ed aggiungi che non era il fiore della soldatesca, poi che venne astrettamente coscritta da' cittadini meno reputati e non dagli uomini camperecci, né dagli artifici. Il generale supremo dettava, fra tante lodi de' nostri, queste parole in un suo ragguaglio: “e d'Aquino e d'Ambrosio sonosi coperti di gloria per il loro coraggio ed intelligenza”. E la maestà del re, lieto di simiglianti nomini di guerra, creava sotto il dì 9 del mese di novembre cavalieri dell'ordine reale delle due Sicilie tutti gli uffiziali superiori che militavan nelle Spagne; sicché il gran Cancelliere dell'ordine e grand'Aquila della legion d'onore principe di Bisignano con lettera del 12 ne mandava al d'Aquino la decorazione e l'avviso.

Poi sul cominciare dell'anno 1809 giugneva il corpo di esercito del supremo capitano Saint-Cyr, e nelle molteplici faccende per giungere a Figueras, sempre la divisione Lecchi era antiguargo, e spiccava siccome sua avanguardia il reggimento napolitano, in cui d'Aquino, dispiegando il calore più singolare, ed una fermezza di esempio a tutti, non fu mai secondo, comunque emulo grande si avesse nel d'Ambrosio. Nella quale spedizione fu assai chiara la fazione combattuta in Esquirot: altro bravo perdemmo, il tenente Forni, il nostro capo battaglione ebbe ucciso il cavallo, e riportarono ferite i tenenti Manes e Giuliani.

Viene quindi l'assedio di Girona al batter di giugno, e qui ben altro spazio vi vorrebbe ed altro scrittore per bene narrare l'impeto con cui le compagnie scelte napolitane guidata dal capo battaglione Macedonio Casella si fecero a montar la breccia, comechè vi trovassero un trinceramento munito protetto, contando trentasette morti ed altrettanti feriti: fra' primi il prode aiutante maggiore de Dominicis ed il sotto tenente de Crescenzi; fra' secondi il capo battaglione intrepido Palma, i capitani Giannettini, Forni, e Pepe, ed i tenenti Nini, Scarpelli e du Marteau. Nè il valore e la gagliardia del d'Aquino rimase senza un premio; perocchè per brevetto del dì 28 agosto veniva innalzato a maggiore del sopradetto corpo, cioè tenente colonnello delle presenti nostri ordinanze. E poiché le malattie e i disagi della guerra avean posto la divisione del generale bresciano fuori ogni possibilità di continuare a travagliarsi, anche i soldati del reggimento napolitano, cui si apparteneva Luigi, trassero a Roses il dì 25 settembre, avendo colà lasciato il nome di Francesi d'Italia per l'ardore con cui sapevan essi pugnare.

Compostosi con legge del dì 22 settembre 1808 il reggimento de' veliti cacciatori della guardia regia, e volendo viemeglio guiderdonare il d'Aquino delle più illustri fatiche e delle glorie, in data del d' 2 marzo 1810 era tramutato con lo stesso grado nel sopraddetto reggimento governato dal colonnello Laroque. E richiamato qui in Napoli tostamente dalle Spagne, ei vi giungeva appunto in quel tempo che le soldatesche eran mosse quasi tutte quante verso il campo del Piale nell'ultima Calabria. Poco tempo discorso, eragli affidato siccome colonnello, il comando del secondo reggimento delle fanterie denominato Regina, e addì 11 marzo dell'anno appresso, cioè 1811, il conte di Mosbourg ministro del pubblico erario gli palesava con ilarità, avergli il re concesso e titolo di barone e dote in rustici, che alla somma giugnesse di 25 mila seicento quaranta ducati. Così resta sicuro un prode soldato, che la sua vecchia età, se mai il nemico ferro ne rispettasse la vita ne' campi, non ha a discorrer fra' disagi e gli stenti e le strettezze.

La battaglia di Lipsia, una delle più feroci e sanguinose abbian mai combattuto le moderne milizie, menò a rovina l'esercito francese, che vi perdette nientemeno che i seicento fra mille. Ritornava in Francia Napoleone per riparare dietro il Reno, ed il cognato, vedendo vacillar sul suo capo la corona, lasciava i campi delle pugne e nell'agone entrava de' politici avvolgimenti, fermando triegua dapprima e colleganza poscia coll'Austria. Ei stesso va capitanando l'esercito in quella guerra del 1814, onde furon parte quattro nostre divisioni: la prima sotto i cenni del Carrascosa, sotto quelli dell'Ambrosio la seconda, la terza del principe di Strongoli, e di Lecchi la quarta. Fu breve questa campale stagione, ma gloriosa pe' soldati napoletani, massime ne' fatti di Rubiera, Reggio e Guastalla, non che alle sponde del Tanaro. E Luigi d'Aquino, già innalzato a maresciallo di campo in quell'ora, valorosamente guidava la prima brigata della legion seconda; meritando con decreto del dì primo novembre la medaglia d'onore, “la quale”, dettata il rescritto, “sarà un attestato innanzi a tutta la nazione della real soddisfazione, e della stima che fa la maestà sua de' sentimenti di ONORE e FEDELTÀ che la distinguono”.

Ma le aperture del gabinetto nemico non erano state che stratagemmi per porre infra due l'animo del re, il quale bene avrebbe potuto congiungersi agli eserciti di Francia, e con nocevoli diversioni per dar molta apprensione alle forze riunite delle nazioni, cui eran troppo incomportevoli i pervenuti. E senza le giornate di Chaumpaubert, di Montemiraglio e di Castel-Thierry forse che le ratifiche non sarebbero né manco in Modena giunte addì 6 di marzo. Ma dissimulate e tergiversate le faccende sino alla fine del congresso, anzi insino al febbraio del 1815, si andò da ultimo smascherando la politica. Sia licenziata, dicevasi, una parte dell'esercito regio, ritornino le Marche all'antico signore, centomila tedeschi rafforzino le schiere napolitane. Eran pretesti per sciogliersi da ogni obbligazione; sicchè fatta in Vienna addì 8 di aprile quella diplomatica dichiarazione de' nostri legati duca di Campochiaro e principe di Cariati, la guerra fu rotta fra gli eserciti di Austria e di Napoli. Nel qual agone novello, rimane il nostro Luigi a reggere quella brigata, comechè una grave disgrazia a lui soprasti sul capo dopo tante glorie e tante pruove di coraggio invitto e di fede. Era ad Imola sul cominciare di aprile e s'indiresse poscia a Cento, e lo stesso giorno che i napoletani, massime il Filangieri, si rendevan chiari sulle sponde del Panaro, il general d'Aquino entra in Ferrara, sforzando il presidio tedesco a ritirarsi in cittadella. Ed uguale intrepidezza ed ardire si dimostrava ai cenni del supremo reggitore della sua divisione, allora quando il dì 7 investirono i nostri il ponte di Occhiobello, cui ed opere e soldati grandemente rafforzavano. Vi volevan grosse artiglierie da espugnare, ed invece dalla furia e dall'impeto speravasi tutto il successo, né l'impeto e la furia posson prevalere a soldati da parapetti difesi. Sei volte d'Aquino, che avea tolto il principal comando per palla fredda arrivata alla gamba del d'Ambrosio, con la sua brigata e con l'altra Medici muove all'assalto, e sei volte ostinatamente trae a riassaltare, perdendovi molti soldati, e rimanendovi feriti alquanti uffiziali. E qui tante speranze acerbamente deluse, un reggimento modenese col generale Bianchi, due altri toscani con Nugent, vaghezza di vivere riposato, cioè sdegno alle imprese ed al decoro italiano, comandava il re nell'adunato consiglio di ministri e capi dell'esercito, rimaner ne' campi la soldatesca a fortificarsi, non ad assaltare o a combattere. Di poi caduta Carpi in poter dell'Austriaco, la seconda legione trasse in Mirandola, minacciando al fianco l'avversario ed arrestandone il moto a pericolo de' soldati del Carrascosa. La perdita infine di Spilimberto addì 15, costrinse il d'Aquino a muovere per Budrio e Lugo sopra Ravenna, e fu allora tutto l'esercito volto in ritratta con bel disegno di guerra. Imperocchè i due capitani tedeschi eransi, a nostro pro, divisi, e noi divisi li combatteremmo a Macerata, quando la lor distanza era massima appunto, e da' monti scendeva Bianchi verso Tolentino e Neipperg alle opposte pianure del Cesano. Le mosse furono sapientemente regolate, e le schiere napolitane con d'Aquino all'antiguardo vennero postate dietro il Ronco, accampando Carrascosa a Forlimpopoli, il centro tra Bertinoro ed il fiume Savio, la riserva in Cesena e Cesenatico. Ma il nemico, imprudente nella notte che fu sì gloriosa pe' napolitani guidati dal maggiore Malchevsky, divenne guardingo e prudente il dì appresso; sicchè Gioacchino perduta speranza di battaglia, comandava batter le vie di Rimini, con bell'ordine ritirandosi, e di Pesaro, Fano, Sinigaglia, giungendo ad Ancona il dì 20. I quartieri generali austriaci erano a Tolentino ed a Jesi, dilungantisi quattro giorni di faticoso cammino. I soldati di Carrascosa rattenevan quelli di Neipperg, tredicimila uomini, lungo il corso del Metauro i quali poderosamente tenevan Pergola. Erano già in Macerata le altre quattro divisioni, cioè le due della guardia, e quelle di d'Ambrosio e di Lecchi. Le quali, come spunto il dì secondo di maggio rompon da Macerata su' campi della Rancia, e sempre d'Aquino precede tutti con fierezza,, rinculando il nemico verso Montemilone, tra il Potenza ed il Chienti, insino a che, dopo bel valore dimostrato dal terzo reggimento leggiero governato dl prode colonnello Michel, non venne ferito il d'Ambrosio, e non andò mancando il giorno. Ma la necessità e la forza pongono sventuratamente misura al valore degli uomini. Tentato ch'ebbe sempre Luigi le vie di vincere o di morire, avea pur finalmente ad ecclissarsi per malignità di casi, ma non al certo per mancamento d'animo o di militar religione. Ed io geloso ricercator di verità, deggio esser dolentissimo di queste parole, che una lettera(1) di Gioacchimo smentirà – “Il generale d'Aquino, che dopo la ferita del prode in guerra general d'Ambrosio, guidava la seconda legione, diffidando della impresa, o contumace per indole, disobbediva al comando di avanzare e suoi reggimenti, sino a che minacciato ubbidì”.

Ma il re che minacciavalo il dì 3, poteva il dì 5 scrivergli a Porto di fermo: “Io ho saputo da lunga pezza penetrare il fondo de' vostri cuori, io li ho trovato pieni di onore e di patriottismo, e mi spero che l'esercito continuerà a meritare questa bella divisa: onore e lealtà senza macchia”.

Non testimone io del fatto, né fra quelli che il poteron sentire a narrare da spassionati uomini e fedeli e diligenti, non mi è stato concesso che di attingerlo da persone, cui mancar di fede sarebbe la cosa istessa che tradire. Luigi d'Aquino toglieva la superior tutela della seconda legione quando i rovesci eransi troppo apertamente manifestati, né gli errori son sempre peccato di volontà, lo sono talvolta d'intelletto. E poi che acuto avea l'ingegno, e somma perizia nelle faccende della guerra ma della politica, ei con troppa lealtà soldatesca così parlava al Lecchi, che di conserva dirizzavasi verso le frontiere. Battere questa ritratta per tentare uno sforzo nel Regno, ei parmi cosa che non che riprovevole, pericolosa, e che vuol dir questo, se non comprometterci vanamente e senza frutto? Mio avviso sarebbe, recarsi il re in Francia prestissimamente, ed i suoi da' casi di Napoleone aspettare. Se lieta in viso sorriderà a colui la fortuna, chi impedirà a Gioacchino di qui tornare novellamente a prender le redini per poco d'ora abbandonate dello imperio; e se avversa poi si volesse a quello dimostrare, sarà pur forza ch'egli alla fatale sentenza con noi modestamente si sobbarchi.

Dunque, rispondeva quel tristanzuolo del bresciano, mutato d'animo col mutar d'anni e di fortuna, consigliereste voi una abdicazione, o generale? … E sì dicendo, animava di sprone il cavallo, al re traeva difilatamente, e con quell'invidia che prende color di zelo, e va scusando sotto il titolo della sincerità la calunnia e la frode, affannoso parlavagli:

Tutto è perduto: il mal seme è penetrato insino a' generali: ecco il parlar di d'Aquino. - E bollente quegli d'irrefrenabile sdegno, incontro a quel capitano si precipita a corsa, e con invettive men che regie il vilipende aspramente, prigione mandandolo nella fortezza di Pescara, perchè giudicato poscia venisse da competente tribunale di guerra. Gran danno per Luigi, che tristissime conseguenze ne derivarono: ché se gli affari pigliato avessero aspetto di letizia, innocentissimo dichiarato lo avrebbe la militare sentenza, né la viltà di alcuni o la malvagità di altri si sarebbe giovata di queste meno occulte per richiamare almanco su altro subietto l'universale intento, non altrimenti che per rendere armonica la sua tela, abbassa di tinte il pittor sapiente alcune delle sue cento figure. Ma non va così giudicando il tanto notevol capo della Stato maggiore Millet, il quale coll'impeto ond'era animato ne' campi dell'Egitto accanto al suo generale Verdier, protegge e difende con sicurezza la immeritata sventura di Luigi. E indettandosi col costui aiutante di campo capitano Bianco, esperto e valoroso nelle arti di guerra, dotto ed egregio nelle lettere e nelle scienze, fu di guisa conserta la faccenda, che la partita di dodici soldati a cavallo, alla cui vista era ignomisiosamente consegnato il generale, battesse la sua via, e questi libero muovesse verso Popoli in prima e quindi per Chieti. Ed il generale Carrascosa in Capua subitamente il chiama per metter nella mani di lui qualche comando, bene persuaso della verità e della buona fede di quel discorso, tuttochè fuori proposito ed imprudente anzi che no.

Entrate le forestiere milizie nel nostro reame, sempre rendendosi necessarie al possesso di perduti dritti; e ricomposto l'esercito nazionale, siccome per il trattato di Casa Lanza; addì 21 luglio di quell'anno era chiamato il maresciallo di campo d'Aquino ad una delle brigate della prima legione, che avea il Carrascosa ad ordinare, e con le stanze in Messina. Ed egli, che non avea forse l'uguale nell'esercito per saper comporre nuove milizie, sì per sottilissima diligenza di tutt'i particolari di una amministrazione, e sì ancora per severità di disciplina e per quel cemento ond'un tutto abbisogna, quanto sono cotante le parti, componeva in Ischia il reggimento Farnese, e tutti gli altri a mano medesimamente ridusse; sicchè l'era malagevol riconoscere la nuova cerna dal veterano agguerrito. Poi l'anno succedente sotto la data 20 settembre era chiamato a comandar la brigata composta de' reggimenti real Palermo, terzo e quarto delle fanterie leggiere, la quale era deputata a presidiare la quinta divisione territoriale, cioè le tre Calabrie, cui il tenente generale Nunziante governava. Colà indefesso soldato non sostò giammai da' suoi fastidiosi servigi, tanto più che eragli alquanto di peso la civil comunanza, dopo un caso sì acerbo della sua vita, nutrita dell'onore degli avi, illustrata del valore delle armi, e come se chiusa già fosse con una apposta macchia ond'egli avrebbe sempre rifuggito con ispavento.

Ma il rettore supremo dell'esercito bene volse in sua mente di far rimodellare alle armi tutti quanti i reggimenti napoletani per opera dell'Aquino, il quale aveasi maravigliosamente l'arte di rendere istrutta e disciplinata una soldatesca, il cui insieme era ancor quello di mal connessa moltitudine. Pe la qual cosa venia chiamata in Gaeta a timoneggiare le milizie colà a mano a mano raccolte, cui quel desiderato ligamento insertava. E soldato severo, non ei permise giammai che la potenza vigoreggiante delle conventicole vinto l'avesse sul nerbo dalla militar disciplina; talchè all'annunzio del reggimento costituzionale, non agli slanci diè luogo di fantasia e di disordine, ma in rigida festa armigera facevasi nobilmente a promulgare la spontanea volontà del Sovrano. Nè egli, adusato alle mutazioni politiche, e persuaso che sempre i fatti sottostanno alle idee, s'illuse giammai su que' vani conati e sulla condizione del paese, la quale non poteva consigliatamente in quel punto discordare dall'universal desiderio de' più potenti; chè se la Spagna, alquanto più maturata e forte, meglio pareva resistere, non era speranza di saldo duratura ordin di cose. Amicissimo poi e fra' più venerati di Gugliemo Pepe, non ambì Luigi di ascendere all'altro offizio del generalato, e s'ebbe invece il governo delle armi or in una ed ora in altra provincia.

Alla nona luna cessati intempestivamente que' moti, in Napoli se ne tornava il maresciallo d'Aquino. Il quale già da lunga pezza travagliato ed affranto da un male, che affacciavasi quando in podagra quando in chiragra ed in idrope eziandio, fu presto a tale da mettere ogni speranza di vita nel mutamento dell'aere. Laonde assai solleciti i valorosi Ronchi ed Antonucci d'istaurare in lui la sanità fuggita, stimaron dapprina affarglisi i colli ridenti di Mergellina; ma peggiorò l'infermo e sulla pendice di Capodimonte gli giudicaron stanza migliore. Nientedimeno la vita era ormai disfrancata, i disagi del viver ne' campi si rendono bruttamente palesi nella età provetta, e sedici anni di guerra non interrotta valgon l'umano stadio possibile. Nulla si ottenne dagl'influssi diversi, sicchè ei fu sforzato di novellamente restituirsi nella metropoli, dove più facili tornavan le consulte dell'arte, e meglio era dato alla vecchia genitrice Marianna, di sopravvegliare al suo figliuolo dilettissimo. Povera donna! Quanto t'ebbe a durar lunga la notte del dì 27 giugno 1822 che il tuo Luigi affannoso e profondamente fioco ti annunziava la sua ultima partita: “domani io non sarò più: deh! Non cercate militari onori alle mie esequie; vi sarebbero senza dubbio negati”.

Né punto s'ingannava; chè al meriggio dell'altro giorno, avuta la remission delle peccata ed il conforto degli angeli, l'ultimo respiro esalava; e senza la veste per tanti anni nobilmente vestita, oscuro ei fu menato nelle latomie della onoranda fratria San Ferdinando.

Luigi d'Aquino mantenne sempre la dignità del proprio grado, distinguendo l'umiltà e la modestia della rimessione dell'animo e dalla bassezza. Fu franco e veritiero innanzi del principe e de' potentissimi, e dall'ossequio che loro rendevano rimosse maisempre ogni sembiante di timore di viltà di adulazione, abborrendo que' felloni ed ipocriti che si mostran sviscerati della persona adulata e ne travolgono il senno nativo. Fra tutti i mostri che contristano la terra, l'adulatore de' grandi è il più orrendo. Ebbe visceri di tenerezza non molle non ciarliera non inerte, ma tacita e indefessa operatrice di bene. Mostrò in guerra magnanimità di spiriti, benigninità di modi in pace. Non fu ambizioso, né conobbe quel turpe vizio, che fece deporre per poco a Cristo la sua usata mansuetudine, ed impugnò la sferza per cacciar via i profanatori del Tempio.

Gli amici dell'oro non posson aver cuore per gli uomini e per le leggi santissime del Vangelo. Sia benedetta adunque l'anima tua e la tua memoria, o illustre Luigi Antonio d'Aquino, e suo t'abbia pur ne' cieli riconosciuto il divo Tomaso!


NOTA

(1)- Monsieur le général, je désire que vous marchiez vous et votre général d'avant garde, à l'arrière de votre division. Les circonstances commandent imeérieusement cette précaution. L'honneur de l'armée, l'honeeur national dépend de la réunion de vos divisions, vous en êtez conséquentement les dépositaires. Demain, l'armée sera sur les frontières du royaume. Voudrions nous nous décider à les abandonner sans combattre, à un ennemi que nou avons battu dans toutes les rencontres? Les soldats de mon armée oseraient ils se présenter aux yeux de leurs concitoyens, comme des bandes de fuyards? Pourraient ils donner un spectacle aussi deshonorant pour la nation, aussi déchirant pur le coeur de leur roi, qui n'a pas craint de confier à l'attachement de ses généraux et à la bravoure de son armée, sa gloire et sa réputation militaire, la sureté de sa famille et l'indipéndence nationale? Non, non, sa confiance ne sera pas trompée: j'ai sû depuis longtemps pénétrer le fond de vos coeurs, je les ai trouvés pleins d'honneur e de patriotisme, et je me flatte que l'armée continuera à meriter cette belle divise, honneur et fidélité sans tache. Votre roi vous jure de ne vous abandoner et de combattre tant qu'il lui restera un soldat. Porto di Fermo 5 may 1815.
J. Napoleon

(Le vite dei più celebri capitani e soldati napoletani dalla giornata di Bitonti fino a' giorni nostri, di Mariano D'Ayala, Stamperia dell'Iride, Napoli 1843 pagg. 273-295)