Università della Calabria
La proposta di una ‘nuova’ Costituzione che emerge dalla revisione costituzionale costituisce, al contempo, un attentato alla universalità dei diritti e alla eguaglianza dei cittadini nei diversi territori del Paese (in ragione delle scelte operate in materia di devolution), un attacco alla democrazia partecipativa (attraverso la personalizzazione politica e istituzionale della carica del Presidente del Consiglio, che potrà sciogliere il Parlamento quando lo riterrà politicamente più opportuno ai fini del consolidamento della maggioranza che lo sostiene), nonché un quadro confuso e incerto nel funzionamento dei poteri costituzionali, e soprattutto del procedimento legislativo. Tali ragioni impongono ai cittadini di conoscerne i contenuti e di bloccarne il seguito. Lo strumento referendario può costituire, a questo livello, un nuovo pronunciamento dei cittadini del Paese a favore dei valori e delle regole della Carta costituzionale che hanno assicurato pace e giustizia sociale nella metà di secolo che abbiamo alle spalle.
Come si dirà meglio in seguito, il Premier, da queste riforme, risulta sostanzialmente eletto a base popolare e con poteri di ‘determinare’ (cioè di decidere) la politica nazionale e di sciogliere le Camere in ipotesi di contrasto con il suo indirizzo politico.
Ci muoviamo, così, a passi di gigante verso forme di ‘di democrazia populistica’ anche nel nostro Paese, quando solo associamo tali nuove scelte costituzionali a quelle legislative in materia di nuovo sistema elettorale, di controllo del sistema radiotelevisivo (legge Gasparri) e alle recenti disposizioni di censura della stampa in materia di diffusione di notizie relative a procedimenti giudiziari in corso (in altri termini, il silenzio stampa imposto per legge, che ha già portato il Governo Berlusconi a conoscere le dure (ma per quest’ultimo risibili) censure delle competenti Istituzioni comunitarie. Evito di aggiungere il lungo elenco delle molte leggi ad personam varate dal Governo in carica, e che hanno fatto la fortuna del suo Premier.
Sartori ha osservato di recente come la forma di governo accolta nel nuovo testo di revisione costituzionale richiami da vicino una formula ampiamente fallimentare, quella israeliana, che per gli effetti di instabilità politica di cui si era resa responsabile è stata presto accantonata in quel Paese. In ogni caso, la forma di governo parlamentare del Paese viene definitivamente abbandonata in favore di un Premierato di fatto elettivo, che in un Paese con la sua tragica storia dittatoriale (poi non così remota) dovrebbe risvegliare più di un distratto.
Rispondono a questa “nuova democrazia” fondata sulla (pressoché esclusiva) investitura diretta dei governi, la volontà di attutire fortemente (fino quasi a farli scomparire) meccanismi di equilibrio che i costituenti del ‘48 avevano assegnato al Capo dello Stato ed alla Corte Costituzionale; equilibri – questi ultimi – che nel complesso hanno funzionato bene, nel loro ruolo di equilibratori del sistema fondato comunque sulla rappresentanza e sul Parlamento.
Questo ed altro c’è nel testo di riforma costituzionale ora in corso di referendum costituzionale confermativo. Occorre che tutti siano edotti e decidano – in modo libero e informato – se esprimere o meno consenso su una nuova Carta costituzionale che è scritta non da tutti ma dalla sola maggioranza parlamentare del momento (invero, in modo non molto diverso dalla prassi già inopinatamente instaurata dal centro-sinistra nella precedente Legislatura).
Ora è il momento della riflessione, della coscienza critica, dell’invito alla ragionevolezza da parte di tutti, che, tuttavia, dopo i reiterati e gridati “ricatti” leghisti) ha a propria disposizione il solo strumento referendario per bocciare il progetto di una nuova Costituzione, al contempo autoritaria ed inefficiente. L’organizzazione di molti Comitati in difesa della Costituzione (che è fra le poche realtà di cui il Paese dovrebbe andare fiero, avendoci garantito sessanta anni di pace, di democrazia e di crescita civile) costituisce attualmente l’impegno civico prevalente di tutti i democratici.
Per farlo invitiamo la cittadinanza attiva, i circoli culturali, le forze politiche e sindacali ad esprimere ed organizzare la massima vigilanza e il più netto contrasto politico-culturale di cui saremo capaci. I giovani, che forse oggi non comprendono il mondo degli adulti, domani potrebbero ringraziarci per questo.
Per parlarne in modo non astratto, appare opportuno, innanzitutto, richiamare alcuni essenziali dati statistici, che, molto più di quanto possa fare una argomentata analisi, possono aiutare a comprendere l’impatto della devolution sui cittadini calabresi.
Secondo le stime di Eurispes, la Calabria, a devolution vigente, sarebbe gravata dal 9% di pressione fiscale aggiuntiva per vedersi assicurati i servizi di cui attualmente dispone. Secondo le stime di Sole 24 ore, al contrario, l’aumento previsto delle tasse a seguito della devoluzione è individuata in una misura del 24,37%. Nell’uno come nell’altro caso, per la Calabria sarebbe un vero e proprio disastro, semplicemente perché non c’è oggi una base sociale fiscalmente capace di farsi carico di questo aumento tributario (eguale valutazione deve farsi per 11 altre Regioni del Paese).
Ma i dubbi aumentano se dal dato fiscale si passa a quello giuridico-costituzionale. Se la riforma devolutiva si propone di cambiare il quadro attuale delle competenze regionali (concorrenti ed esclusive), come viene formalmente previsto, non può non porsi l’interrogativo il contenuto innovativo della stessa rispetto al quadro costituzionale delle norme vigenti (dopo la revisione degli anni 1999/2001); in particolare, non può non porsi il quesito centrale se la devolution non metta in questione principi fondamentali di uno Stato moderno, come quello della eguaglianza dei cittadini, a prescindere dal territorio in cui essi vivono.
Da un punto di vista strettamente giuridico, non c’è dubbio per chi scrive che riconoscere alla competenza “esclusiva” delle regioni le materie della sanità, dell’assistenza, dell’istruzione non incide (nel senso che non può incidere costituzionalmente parlando) sulla garanzia dell’eguale trattamento dei cittadini rispetto ai corrispondenti diritti fondamentali sanciti da specifiche disposizioni costituzionali (principio di eguaglianza, diritto alla salute e all’assistenza sociale, all’istruzione, per quanto riguarda la presente riflessione). Secondo la previsione dell’art. 117 Cost. (secondo comma, lettera m), e in base alle specifiche previsioni costituzionali di garanzia dei diritti fondamentali contenuti nella prima parte della Costituzione (per come richiamati nello stesso novellato art. 117, I co., Cost.), l’esercizio dei poteri regionali risulta limitato e condizionato dal rispetto della Costituzione e pertanto dei diritti fondamentali (che, in quanto tali, sono inviolabili e pertanto non derogabili in ogni parte del territorio nazionale). A far valere tali garanzie sono chiamati i legislatori e, in ultima istanza, i giudici (ordinari, amministrativi ma soprattutto quelli costituzionali). Peraltro, è osservazione corrente fra gli esperti della materia che non servano più di un paio di sentenze della Corte costituzionale per fare definitivamente giustizia di questa eccentricità (qualora approvata), cui la Lega assegna tanto valore simbolico. D’altra parte, le forze centriste dell’attuale maggioranza non hanno ritenuto di dovere lasciare agli atti del dibattito parlamentare un orientamento di netto contrasto (tranne che per la discutibile nuova legge elettorale, la cui furbizia ‘levantina’ è stata ben presto disvelata nei suoi più reconditi propositi), mentre Alleanza nazionale ha ritenuto di potersi ‘accontentare’ della reintroduzione in Costituzione dell’‘interesse nazionale’, soppresso nella precedente revisione costituzionale.
Dov’è, dunque, il problema che tanto si ritiene di dover sottolineare e che angustia giuristi, politici, e soprattutto i cittadini delle regioni fiscalmente deboli (fra cui tutte quelle meridionali) ?
La risposta deve individuarsi nell’asserzione normativa contenuta nella richiamata lettera m dell’art. 117 Cost., nella parte in cui prevede che alla legge statale sia riservata la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali”, se letta, come occorre fare, in unum con un’altra disposizione costituzionale, quella dell’art. 119 Cost. (sul c.d. federalismo fiscale), secondo la quale il principio della ‘territorialità dell’imposta’ deve consentire ai territori (incisi fiscalmente) di provvedere, con le risorse derivanti da tributi ed entrate proprie, nonché dalle compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio, alle prestazioni (servizi sanitari, assistenziali, scolastici) erogate sul territorio.
La questione nasce proprio qui. Non pare improbabile ipotizzare che, in presenza di tale vincolo fiscale, nei fatti, si potrà frantumare il sistema dei servizi (ora nazionale) in materia di istruzione e di sanità/assistenza sociale. In conseguenza di tale frantumazione, infatti, potremmo avere venti sistemi regionali differenziati in materia di sanità/assistenza sociale e di istruzione (per fermarci a questi due servizi fondamentali dello Stato sociale), con tutte le conseguenze di competitività fra sistemi, che potrebbero comportare ulteriori impoverimenti delle regioni ‘deboli’ a favore di quelle ‘ricche’, in ragione di movimenti migratori interni verso quelle regioni dove i servizi pubblici (soprattutto in materia sanitaria e di istruzione pubblica) siano più qualificati. Nulla di nuovo sia chiaro; da tempo gli ammalati gravi conoscono questa penosa migrazione. Si tratta naturalmente solo di esempi, ma gli studiosi di scienza delle finanze conoscono molto bene queste problematiche e da tempo le vanno scrivendo? Ma chi li legge, chi li ascolta? Con la revisione in corso, in conclusione, avremmo, molto di più di quanto già non avvenga sulla base di quella ora vigente: una “Repubblica spezzatino”, o se si vuole una “Repubblica à la carte”!
Tale differenziazione, che in via di principio potrebbe valorizzare e responsabilizzare i territori e i ceti politici regionali e locali, diviene molto pericolosa per lo ‘statuto dei diritti’ dei cittadini, e soprattutto per l’eguaglianza, allorché si pensi a ciò che potrà concretamente realizzarsi nelle regioni ricche ed in quelle povere. Nell’ambito della Conferenza Stato/Regioni/Autonomie locali, il ceto politico delle regioni più forti (fiscalmente), in altri termini, avrà buon gioco a sostenere che le regioni che contribuiscono di più all’erario pubblico avrebbero più diritti da godere/rivendicare in termini di risorse e di servizi più abbondanti e maggiormente qualificati. Ma se questo avverrà – e non è irragionevole pensarlo, almeno nel presente quadro politico del Paese – inevitabilmente, le risorse per la solidarietà interregionale, e dunque le risorse necessarie per garantire a tutti i cittadini i servizi dello Stato e della cittadinanza ‘unitaria’ e ‘sociale’, non saranno più sufficienti ad assicurare che i servizi pubblici nelle regioni più povere possa essere assicurato nei ‘livelli essenziali’. Per essere più espliciti, avremo una sanità e una istruzione pubblica fortemente differenziati nelle diverse regioni e tale da creare cittadini di serie “A” e cittadini di serie “B”; tutto ciò sulla base di una interpretazione della disposizione costituzionale sui “livelli essenziali” che divengono meri livelli di ‘non indecenza”. Peraltro, si potrebbe ragionevolmente temere che tutto potrà/potrebbe provocare possibili rotture nella ‘coesione sociale’ del Paese e perfino possibili questioni di ordine pubblico nei territori ai quali vengono nei fatti negati gli stessi servizi di cui godevano in costanza del precedente testo costituzionale.
È compatibile tutto questo con un modello di Stato che è, e che rimane, anche dopo la riforma costituzionale, uno Stato unitario a base sociale? La risposta da parte di chi scrive è fortemente dubbiosa.
Leopoldo Elia, uno dei costituzionalisti più autorevoli del Paese, giurista cattolico impegnato in politica, già Presidente della Corte costituzionale, ha bene sottolineato come la forma di governo italiana, ‘debole’ e oggetto di riflessione da più decenni, potrebbe certo essere razionalizzata, ma non deve essere ‘pervertita’. Dalla criticata ‘paura del tiranno’, che era alla base delle deboli scelte costituzionali del ’48 in materia di forma di governo, si rischia di passare, ora, ad una vera e propria tirannia del Premier elettivo.
Spiegando il nocciolo di queste affermazioni, intendiamo proporre alcune brevi linee di analisi sulle proposte di riforma in materia di forma di governo, ora in corso di definitiva approvazione. Per aiutare una migliore comprensione del problema sollevato, riepiloghiamo in modo essenziale le scelte innovative operate dalla maggioranza parlamentare, che sono tali da rendere la forma di governo del Paese un Premierato ‘forte’ ed anzi ‘assoluto’.
Le linee fondamentali del progetto, sono le seguenti: a) il Presidente della Repubblica è vincolato, nella nomina del Primo Ministro, dagli esiti elettorali, nel rispetto di una legge elettorale che obbliga al collegamento fra il candidato Primo Ministro e i candidati alla elezione alla Camera; b) il Primo Ministro illustra il programma di governo alle Camere, senza dover ottenere la fiducia (iniziale); il Primo Ministro nomina e revoca i ministri; ‘determina’ (nel testo ora vigente ‘dirige’ soltanto) la politica generale del Governo; può chiedere alla Camera di esprimersi con voto conforme su qualunque proposta del Governo e in caso di voto contrario deve rassegnare le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della Camera dei deputati; c) qualora il Primo Ministro, sotto sua ‘esclusiva’ responsabilità, chieda lo scioglimento della Camera, il Presidente della Repubblica deve procedere; d) permane la mozione di sfiducia della Camera, che ha come effetto lo scioglimento della Camera medesima; e) Il Presidente della Repubblica non procede allo scioglimento della Camera dei deputati qualora sia presenta e approvata una mozione da parte di quest’ultima “nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si designi un nuovo Primo Ministro”.
Così richiamate in modo essenziale le scelte accolte nel testo di revisione costituzionale approvato (– che peraltro identificano formule e istituti pressoché identici alla forma di governo della nostra Regione, per come accolte nello Statuto –), si tratta di comprendere se ed in che misura l’assetto di governo proposto risulti squilibrato ed anzi contrario agli stessi principi basilari del costituzionalismo liberal-democratico (separazione e controllo reciproco fra i poteri costituzionali; riserva di legge in materia di diritti fondamentali).
Se la critica deve riguardare innanzitutto la rottura dell’equilibrio del rapporto legislativo-esecutivo disciplinato nella seconda parte della Costituzione (per come teorizzato dai padri del liberalismo moderno, fra cui, soprattutto, Locke e Montesquieu), non deve ignorarsi come un simile assetto squilibrato (a tutto favore dell’esecutivo e al suo interno del Premier) finisca per incidere, ledendole, sulle libertà fondamentali dei cittadini, contenute nella prima parte della Costituzione.
In altri termini, con una simile riforma si mette nelle mani della maggioranza parlamentare, e quindi del suo leader unico, la delicatissima materia dei diritti fondamentali. E ciò lo si fa senza prevedere uno statuto costituzionale dell’opposizione per il quale le forze parlamentari di minoranza possano ricorrere alla Corte costituzionale a tutela dei diritti stessi, per come avviene in altri ordinamenti costituzionali.
Lo squilibrio costituzionale di cui si parla si produce sia nel rapporto fra Governo e Parlamento, a tutto favore del primo e del suo dominus (il Premier), sia nel rapporto fra Governo/Primo Ministro e Presidente della Repubblica.
Nel primo caso, si determinano in modo compiuto le conseguenze piene della ‘democrazia di investitura’, per la quale il Parlamento è esautorato da ogni potere concreto di indirizzo e di controllo sull’esecutivo, a meno di non utilizzare come extrema ratio l’arma letale ed autodistruttiva della mozione di sfiducia (o quella, parimenti difficile da punto di vista politico, di una mozione di sfiducia construens). Dunque, con la minaccia di scioglimento della Camera, il Primo Ministro può tenere in scacco continuativo il Parlamento.
Rispetto al secondo rapporto, la riforma riduce, fino a distruggerlo, il ruolo di ‘potere neutro’ del Presidente della Repubblica, che tanta moderazione e saggezza può apportare (ed ha apportato) al sistema politico-costituzionale nei momenti di particolare crisi in cui quest’ultimo può venire a trovarsi (e si è concretamente trovato nel corso del tempo).
È da dire, in verità, che molta della filosofia sottostante alle attuali scelte di Premierato risultavano presenti, nelle legislature precedenti, anche nelle proposte di riforma delle forze politiche di centro-sinistra (ora divenute minoranza ed esplicitamente autocritiche sulle scelte fatte in passato). Si veda, in proposito, la Relazione di minoranza all’A.S. 2544, nonché i lavori del recente Convegno Astrid (Associazione per gli studi e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche, presieduta dal sen. Bassanini) del 3 aprile 2005 (di cui la stampa ha dato ampio riscontro).
In conclusione, il modello di governo che ora si prospetta si allontana dalla Manica (modello britannico) per avvicinarsi alla fallimentare esperienza israeliana. Non richiama, infatti, il modello britannico perché il Premier inglese non dispone del potere di scioglimento delle Camere (e d’altra parte lo stesso può essere sostituito dalla sua maggioranza con altro leader, come è puntualmente avvenuto nell’avvicendamento fra la Thatcher e Major); si avvicina fortemente, invece, a quello israeliano, cioè ad un Premierato espressamente elettivo con potere di scioglimento, modello di cui peraltro Israele si è presto disfatto per i suoi conclamati limiti di instabilità politica.
In una domanda finale da parsi è da chiedersi se al legislatore di revisione costituzionale siano pienamente disponibili le scelte relative al rapporto fra i poteri/organi e con quali limiti. A noi sembra che la risposta possa essere positiva ma solo a condizione che la riforma avvenga nel rispetto dei “principi supremi” dell’ordinamento, fra i quali rientrano certamente quello democratico e quello, connesso, della separazione/equilibrio/controllo fra i poteri costituzionali.
L’analisi dell’insieme delle scelte operate ci porta a concludere che la revisione della forma di governo contiene ampie illegittimità costituzionali in ragione della carenza di adeguati limiti nel bilanciamento fra i poteri costituzionali attivi Né si può ragionevolmente pensare che a farle valere sia il solo Presidente della Repubblica in sede di promulgazione della legge di revisione costituzionale. Per una risposta democraticamente matura, naturalmente, occorre pensare e organizzare adeguate iniziative di contrasto da parte della opinione pubblica avvertita e da parte del mondo culturale, sociale e politico.
L’analisi delle più significative linee di riforma della seconda parte della Costituzione proprone ora alcune osservazioni, molto generali e parimenti critiche, sul Senato federale, sulle relative modalità di elezione, sui poteri e sui rapporti con gli altri organi costituzionali.
Non c’è dubbio di sorta che il legislatore di revisione costituzionale sia riuscito a fare del suo peggio nel progettare la riforma di questa parte dell’ordinamento costituzionale. Essa è tanto inservibile che una parte della stessa maggioranza parlamentare se ne è resa ben presto conto. Basti citare, per tutti, le numerose interviste rilasciate dal Presidente del Senato, all’indomani del primo voto sulla riforma. Per il sen. Marcello Pera, infatti, “il testo approvato trasforma il Senato federale in un minotauro: una testa americana innestata su un corpo italiano … rischiamo di trovarci un Governo che non può governare se non negoziando ogni volta con il Senato. Una prassi che avrebbe enormi costi per il Paese! E che, oltre tutto, farebbe esplodere i conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni sul tema centrale dell’interesse nazionale. Si finirebbe così per trasferire surrettiziamente dal Parlamento alla Consulta una funzione impropria di ‘sindacato politico’”.
In conclusione, – e fuoriuscendo dalla metafora prima richiamata – si può certamente prendere atto che la maggioranza (come aveva fatto a suo tempo il centro-sinistra) abbia legittimamente inteso riformare la riforma della Costituzione utilizzando i suoi numeri parlamentari, ma nel farlo essa deve rispettare la logica dei sistemi democratico-costituzionali. In tale ottica, si vuole osservare che se voleva attuare un federalismo tanto declamato e agognato, non poteva che scegliere fra le soluzioni costituzionali fin qui note come pienamente funzionanti, senza lasciarsi andare ad innaturali innesti, che già in natura creano mostri.
Sotto tale profilo, l’esperienza costituzionale ci dice che non c’è molto spazio di scelta se si vuole una scelta federale seria (cioè sistemica e funzionante): o si sceglie di seguire il modello di Senato tedesco, fondato sulla rappresentanza indiretta delle regioni (in realtà, si tratta di Stati, Laender), o si sceglie quello nord-americano, che è eletto direttamente dai cittadini. Di ognuno dei due modelli si conoscono funzionamento e relativo rendimento istituzionale.
Al contrario, il modello di Senato emerso dalla riforma costituisce un ibrido irriconoscibile e soprattutto destinato a non funzionare (essendo in potenziale conflitto permanente con la prima Camera, e per questo aggravando ulteriormente il carico di lavoro della Corte costituzionale, e potendo limitare in ogni sua scelta il Primo Ministro). Non parlo per carità di patria del procedimento legislativo, che è davvero peggio del ‘gioco dell’oca’.
Un simile Senato è eletto con sistema proporzionale (diversamente dalla prima Camera), dura sei anni, non può concedere la fiducia al Governo ma non può essere sciolto dal Primo Ministro. La conseguenza è quella di un Primo Ministro, con poteri ‘assoluti’ (rispetto alla prima Camera), che dovrà continuamente negoziare con il Senato per l’approvazione della legislazione (che è di ambito estesissimo) riconosciuta alla competenza di quest’ultimo organo (quasi quattro quinti della legislazione), con effetti che sono facilmente immaginabili. Verrebbe da chiedere se qualcuno ha spiegato ai conducatores dell’attuale maggioranza l’effetto della legislazione di riforma appena approvata.
Fuori da (troppo facile, ma necessaria) polemica, poiché parliamo di questioni tremendamente serie, in quanto riguardano l’organizzazione della democrazia del Paese, così, una simile riforma, se voleva dare un assetto costituzionale al federalismo, ha completamente fallito nel compito.
Si tratta di una riforma davvero ‘schizofrenica’. Da una parte, infatti, si rafforzano oltre ogni limite i poteri del Primo Ministro che, come abbiamo già detto, cumula nelle sue mani i poteri di Bush e di Blair ma senza i contropoteri che Bush e Blair conoscono nei loro sistemi costituzionali. E, dall’altra, lo si sottopone al veto (alla negoziazione continua, che è poi la stessa cosa) del Senato, che si è visto riconoscere poteri di co-decisione di grande portata.
Infine, tutto ciò poco o nulla ha a che fare con una rappresentanza territoriale del Senato, salva una disposizione corporativa che limita l’elettorato passivo ai soggetti che hanno già ricoperto cariche elettive regionali. Non si comprende davvero se siamo in presenza, come qualcuno ha già detto, di una ‘sceneggiata’, una sorta di commedia che si recita sulla Costituzione, o piuttosto di una ‘tragicommedia’. Nell’uno come nell’altro caso, si può comprendere perché si sia pensato di mettere le mani sulla stessa composizione della Corte costituzionale, 7 dei cui membri, sul totale dei 15 (nuova composizione), saranno controllati dai partiti (melius, dal Senato federale, integrato dai Presidenti delle Giunte delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano).
2. Referendum costituzionale e democrazia
Con linguaggio il più semplice possibile (e scusandomi con i tecnici del diritto), proporrò in conclusione al lettore quattro brevi riflessioni per aiutare a farsi un giudizio sulla riforma costituzionale, in corso di definitiva approvazione.
L’oggetto della riflessione critica riguarda la modifica di una delle disposizioni centrali della Costituzione, quella relativa al referendum costituzionale, previsto dall’art. 138 Cost. vigente, come eventuale, nella sola ipotesi che il testo di revisione costituzionale non sia stato approvato in seconda lettura con la maggioranza qualificata dei due terzi di ciascuna delle due Camere e ne abbiano fatto richiesta i soggetti titolari del potere di iniziativa referendaria.
Con la revisione approvata, l’art. 138 Cost. viene modificato con una disposizione abrogativa. Con tale modifica si rende in ogni caso obbligatorio il referendum costituzionale (mediante l’abrogazione dell’art. 138, III co., Cost., che limita il referendum alle sole ipotesi di revisione a maggioranza non qualificata).
In altri termini, si rende normale la revisione costituzionale ‘a colpi di maggioranza’ e si impedisce il ripetersi di referendum disertati dal corpo elettorale, come nei recenti casi del Friuli Venezia Giulia e del referendum confermativo boicottato dalla Casa delle libertà (si trattava del referendum, del 7 ottobre 2001, avente ad oggetto la revisione del Tit. V approvata dall’Ulivo ).
Quali sono significati e finalità della disposizione di modifica dell’art. 138 Cost.?
A prima vista, le nuove disposizioni sembrerebbero rafforzare la sovranità popolare di fronte a quella parlamentare. Sennonché, è da sottolineare che, nel contesto di una democrazia non più retta dal principio della rappresentanza proporzionale ma da quella (prevalentemente) maggioritaria, il referendum confermativo si trasforma in un evidente onere aggiuntivo per le minoranze (parlamentari e non) contrarie alle riforme. Queste ultime, così, non possono contare sull’astensionismo, che opera a solo vantaggio della maggioranza (che procede alle revisioni senza ampi consensi, ed anzi, come si è gia detto, ‘a colpi di maggioranza’).
Da tutto ciò si trae la conclusione che un istituto posto a tutela delle minoranze (il referendum ex art. 138 Cost.) viene stravolto e trasformato in una garanzia aggiuntiva per le maggioranze (parlamentari), di volta in volta protagoniste ‘sfrenate’ di modifiche della Carta costituzionale, come nel caso di specie.
Ma c’è un secondo centrale profilo che rende la riforma in discussione esplicitamente incostituzionale per violazione del criterio della omogeneità del quesito referendario. Il Prof. Pace, autorevole costituzionalista e direttore della rivista ‘Giurisprudenza costituzionale’ lo ha bene argomentato, in modo più che convincente, sulle pagine di diversi quotidiani nazionali.
La Corte costituzionale, nei giudizi di ammissibilità dei quesiti referendari abrogativi di leggi, si è più volte pronunciata nel senso della loro inammissibilità qualora privi dei requisiti della univocità e della omogeneità. Tali requisiti, previsti per i referendum abrogativi, devono valere a fortiori anche per la corretta sottoposizione della legge di revisione a referendum costituzionale (ex art. 138 Cost.) e ciò ai fini di un consapevole ed univoco giudizio dei cittadini elettori.
Si potrebbe dire: ma anche la sinistra nella precedente legislatura lo ha fatto (l. cost. 1/1997). E si risponde che già quella era una scelta sbagliata, pur avendo a sua giustificazione la considerazione secondo cui le associazioni esponenziali delle regioni e delle autonomie locali si fossero pronunciate favorevolmente e la stessa maggioranza lo aveva fatto fino alla sua repentina e strumentale decisine di fiale di opporsi. Tutto ciò dimostra, nel fondo, che la Costituzione è un documento di carta che vive ed opera solo in ragione della lealtà e dell’affidabilità dei soggetti chiamati a farla vivere (forze istituzionali ma anche forze politiche).
Così sintetizzata una questione che, oltre che tecnico-giuridica, è politica, e pertanto al limite fra la revisione e la rottura della Costituzione, pare opportuno sottolineare che, in via di principio, la Costituzione può essere indubbiamente revisionata (nella sua parte organizzativa). Ma per farlo, nel rispetto di una prassi risalente (solo di recente interrotta), occorre un consenso molto ampio delle forze parlamentari. Qualora non si segue questa strada maestra il rischio è quello di trasferire sulla Carta fondamentale un conflitto che è comprensibile ed è legittimo solo al momento della approvazione delle leggi ma che non può esserlo quando si tratta appunto della regola fondamentale della Comunità politica. Dal punto di vista tecnico, poi, la soluzione più corretta sarebbe quella di individuare come oggetto della revisione singoli e specifici istituti della Carta costituzionale in modo che il corpo elettorale si possa validamente pronunciare in sede di referendum costituzionale.
Di riforme costituzionali, allora, se ne parli solo quando e solo se sarà raggiunto nel Paese un’ampia maggioranza su specifiche proposte di riforma, e solo su queste il corpo elettorale sia chiamato a pronunciarsi e non su ‘indistinti pacchetti’ omnicompresivi.
In conclusione, la questione centrale da sollevare (oltre al merito delle scelte operate) riguarda, dunque, la correttezza e la legittimità costituzionale delle forme procedurali da seguirsi, senza deragliare verso ‘declinazioni plebiscitarie’ degli istituti e delle forme di democrazia referendaria. Se tali procedure non saranno rispettate, non si avrebbe una revisione bensì una ‘rottura’ costituzionale.