Rapsodie e scene di vita degli albanesi di Calabria

Papas Prof. Giuseppe Ferrari, Teologo dell'Eparchia, Docente all'Universitą di Bari. Lungro 1959. Tipografia SCAT- Cosenza

Alla Beata memoria 
di Papa Benedetto XV
gli albanesi grati

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INDICE:
  1. Introduzione
  2. Vdekja e Skanderbekut - La morte di Skanderbegh
  3. Shqiteza - Il cigno bianco
  4. Tė fala katundit - Addio al villaggio
  5. Ngushti Moresė - La scommessa della Morea
  6. Kostantini e Jurėndina - Costantino e Garentina
  7. Trimi vasha e ajri - Il giovane, la fanciulla e la brezza
  8. Kėnga e brumit - Canto del lievito
  9. Kėnga dasmore - Canto nuziale
  10. Qiparisi e Dhrieja - Il cipresso e la vite
  11. E ikura - La fuga
  12. Kostandini i vogel - Costantino il giovane
  13. Rina e Radavani i vdekur - Rina e il fratello Radavani
  14. Skanderbeg Vellamjes - Skandėrbeg della Vellamja
  15. Viershe e graxeta - Epigrammi e distici
  16. Vėllamja motėrma

Introduzione

L'Eparchia greco-albanese di Lungro si accinge a festeggiare quarant'anni di attivitą, in mezzo alle sue popolazioni. sparse in Calabria, Lucania, Puglia, Abruzzo. La fiorente vita spirituale e liturgica, l'attivitą culturale, l'attaccamento alle avite tradizioni bizantine e albanesi, la coscienza, sempre pił sentita, d'un ruolo di grande importanza nel mondo cristiano, ai fini di una maggiore comprensione tra le du concezioni di vita, orientale ed occidendale, questi e molti altri fatti, dimostrano la sapiente lungimiranza della venerata memoria di Papa Benedetto XV, che la volle, la creņ e la protesse e della S. Congregazione per la Chiesa Orientale, che , ogni giorno di pił arricchisce i villaggi della Eparchia di opere veramente insigni.

In questo medesimo anno 1959, si celebra in Italia il centenario del Risorgimento non si puņ passare sotto silenzio il grandioso contributo dato alla Causa da questi albanesi della Calabria, tra i quali moltissimi i «Papades» i sacersoti greci, e tutti, indistintamente, sacerdoti e laici, alunni dei grandi Vescovi Bugliari e Bellusci, educati nel Pontificio Istituto di S. Demetrio Corone. I nomi dei Baffa, dei Mauro, dei Damis, degli Stratigņ, dei Bellizzi, dei Bellusci, dei Dorsa, del Placco, dei Basile, dei Camodeca, edi tanti altri, sono nomi illustri e cari alla Patria e a tutti gli Albanesi.

D'altra parte, popolazioni richissime di canti e di tradizioni popolari, gli Albanesi di Calabria hanno attirato l'attenzione degli studiosi di dialettologia e di tradizioni popolari dei maggiori centri di cultura d'Europa e d'America. In questi ultimi anni, numerose sono state le pubblicazioni sulla lingua, sugli usi e costumi dei nostri paesi, non solo in Italia e in Albaia, ma anche in germania, in Francia, in Inghilterra, e negli Stati Uniti.

Bene ha fatto, perciņ il Comitato pro festeggiamenti ad organizzare una manifestazione folcoristica e a pubblicare questa piccola raccolta di canti popolari. L'una e l'altra saranno un dono, certamente gradito, per gli illustri ospiti, che verranno ad onorarci.

I nn. 1-2-3-4 ricordano la nostra emigrazione dall'Albania e dalla Grecia, ai lidi d'Italia. Il n. 4 si canta qundici giorni dopo Pasqua, nella Domenica «tôle;n Myrofņron» dalle colline che sovrastano i villaggi e sull'imbrunire. Il n. 13 si canta nelle ridde dell'Ascensione (Analipsis), nel pomeriggio, prima di recarsi in Chiesa per i Vėllamja. Avviandosi verso la Chiesa, si danza il n. 14, proprio perchč il rito si celebra dopo il banchetto comune e si ricorda la triste fine di un traditore, che non mantenne la sua Fede. Il n. 5 č certamente il pił famoso, con tema noto a molti popoli. Popolarissimo anche in Grecia. conosciuto sotto il nome di «O Vurkolakas». Nei nostri villaggi č d'obbligo, uscendo di Chiesa, dopo il rito dei Vėllamja, sebbene si senta, un po' dovunque, per tutto il periodo di Pasqua. Queste rapsodie sono tutte del ciclo di primavera, ciclo particolarmente ricco. Le altre sono del ciclo matrimoniale. I nn. 7-10-11 si cantano durante il fidanzamento. L'8 e il 9 rispettivamente quattro giorni prima del matrimonio e il girono dell'incoronazione. Il 12. dopo il matrimonio, con la «Vallja mbė kangjel» (danza particolare).

Alcuni di questi canti, in tutto o in parte, sono stati gią pubblicati dal De Rada, dallo Scura e da altri, per non parlare delle recenti pubblicazioni fatte in Albania, all'Universitą di Tirana.

Moltissimi sono ancora inediti. Il n. 7 vede la luce, per la prima volta, ed appartiene alla raccolta fatta dal Prof. Dorsa, nella prima metą del secolo scorso, a Frascineto, e di cuk io conservo il manoscritto.

Non č il caso di parlare dei Viershė e Graxeta, perchč, di essi, ancora oggi si possono raccogliere, nei nostri paesi, a migliaia.

Ho inserito infine il rito dei Vėllamja e Motėrma, con la parte popolare e l'azione liturgica greca, cosģ come si svolge, senza nulla aggiungere o togliere, ache perchč questo rito tende a scomparire.

Sono sicuro di aver fatto cosa gradita a tutti gli albanesi.

Papas Prof. Giuseppe Ferrari, Teologo dell'Eparchia, docente all'Universitą di Bari. Lungro, settenbre 1959.

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Vdekja e Skanderbegut

Testo arbrėsh

Skoj njė ditė mijegullore
mjegullore e helmore,
foka qielli doj tė vaitonej,
pra tue e ditur me shi
nga tregu njė thirmė u gjegj,
ēė hiri e shtu lipin
ndėr zėmrat e ndėr pėlleset!
Ish Lekė Dukagjini:
ballėt pėrpiq me njė dorė
shqir leshtė me jatrėn:
- «Trihimisu, Arbėri!
Eni zonja e bularė
eni tė vapėhta e ushtėrtorė,
eni e qani me hjidhi!
Sot tė varfėva qėndruat,
pa prindin ēė ju porsinej,
ju porsin e ndihnej.
E mė hjenė e vashavet,
mė harenė e gjitonivet,
as kini kush tė ju ruanjė.
Prindi e Zoti i Arbėrit
ai vdiq ēė somenatė;
Skanderbeku s'ėshtė mė!»
Gjetin sjpitė e u trihimistin,
gjetin malet e u ndajtin,
kambanart'e qishėvet
zunė lipin mbė vetėhenė;
po ndėr qiell tė hapėta hinej
Skanderbeku i pa-fanė!

Traduzione italiana

Passņ un giorno nebbioso,
nebbioso e malinconico,
quasi pianger, pare, volesse il cielo.
Venne il novo mattino
tetro, pioviginoso;
dalla piazza s'udģ tremendo un ululo,
sparse nei cuori il gelo,
nei palagi portņ lacrime e lutto.
Plorava urlando Lek Dukagjino,
con una mano si percotea la fronte
e con l'altra strappavasi i capelli:
- Scuoti dal piano al monte
tutti i cordini tuoi, scuoti, Albania,
agli occhi nostri tutto
s'oscura il mondo: Skander non č pił!
Matrone e cavalieri qui accorrete,
venite qui, soldati e poverelli,
il Grande a calde lagrime piangete.
Orbi oggi tutti siete
del padre, della guida, dell'aiuto;
oggi avete perduto
quei che vi custodģa
l'onore delle vergini,
dei villaggi la pace e l'allegria.
Grave giorno di lutto!
Stamane č morto il Principe,
il padre dell'Albania,
s'oscura il mondo tutto:
Skandergeg non č pił! -
Alla feral notizia
i palazzi tremār dai fondamenti,
cadder le rupi e seppelir le fonti;
dai campanili delle chiese in lenti
tocchi annunziār le squille il grave lutto.
In alto, dell'empireo
s'aprģ l'etereo velo
e Skanderbeg magnanime
e sventurato in gloria entrņ nel cielo.

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Shqiteza

Testo arbrėsh

Shqiteza e bardhė e bardhė
lėure fėrshėllinzėn
tė shkrehet dejti
ka ana e desprit,
tė nisen anizit.
E par' e anivet
ėshtė ngarkuar pjono trima;
e dyt'e anivet
ėshtė ngrakuar pjono vasha;
e tret'e anivet
njen pjotė bukė e verė.
Ato nisen e mė bien
ndė pėrroit Kalavrisė.
Fanmira mbi katund
sbardhulonjėn vashazit
bilat e tė huajvet
ndėr rehjet e ruanjėn.
E njė mall i fshehurith
i shprishet ndė zėmėrt
e njė lotė e bukurėz
i pushtron syzit!

Traduzione italiana

Alla canzon del candido cigno
s'acqueta il mare,
e le galere profughe
s'apprestano a salpare.
La prima colma di fanciulli, ed era
di giovanette piena la seconda,
ma la terza galera
carca di vettovaglie e seteria.
Staccavasi dalla sponda
e innanzi va la compagnia dolente
verso i calabri lidi in occidente.
Ma allor che le straniere
donne in sembiante lieto
accorreranno per vedere i profughi,
un affetto segreto
ai peregrini il core
gonfierą di dolore,
e di soavi stille
si veleran le tremule pupille.

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Tė fala katundit

Testo arbrėsh

Gjith'e veshur ndėr tė zeza
duall njė vashė ka hora,
vate marrė uratzėn
uratėn e dheut tė tyre.
Pėrpoqi mėnin e zi
e kėputi degė tė fjetėm;
pėrpoqi mollėn e kėputi
dega me molla t'erma.
Mbjodh lule ndė prėhrit,
prana u vuri tue qarė
propopin'e dheut tyre:
- «O tė fala dheu ynė,
tė fala, se mė tė lėm
e s'kam tė tė shoh u mė!
Nėng kam dhe u ku tė vete,
pa njė horė ku tė mėnojė,
pa njė shpi te ku tė mbjidhem.
Kėto dega e kėto lule
veshken si tė tė jenė larg,
fare mallin dhe mė nxierrė.

Traduzione italiana

Avvolta tutta in un luttuoso ammanto,
dalla cittą una fanciulla uscģo;
con le pupille bagnate di pianto
prese commiato dal suolo natio.
A un gelso moro s'accostņ per via
e ne divelse un ramoscel frondoso;
poi vide un melo e colse, come pria,
carco di pomi un bel ramo odoroso.
E molti fiori nel grembiul raccolse:
i belli, i cari fior del patrio suolo;
indi al paterno loco si rivolse,
proruppe in pianto e diede corso al duolo:
- Addio! per sempre addio! terra natia,
terra dei padri miei che lieta amai,
salve, ch'io ti abbandono, o patria mia,
o patria mia, non ti vedrņ mai pił! ...
Ed in bali del fato, alla malora,
raminga me ne andrņ di villa in villa,
né fia cittą dove trovar dimora,
né tetto ove raccogliermi tranquilla.
Ma questi rami del mio suol natio
e questi fior, come saran lontani,
pria d'appagar il tenero desio
avvizzeranno, ahimé! tra le mie mani ...

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Ngushti Moresė

Testo arbrėsh

Ish njė turk shumė i keq,
ish me njė tė lidhurith
mosnjeri e guxon' t'i fjit,
po njė vash'e Arbėreshe
kuturisi e m'i foli:
- «Zot, ndo je ti aq i keq,
do tė vemi njė ngusht bashkė:
Cili nesh tė dirė
mė tė pirė qelqe me verė?
Ti vė pra tė lidhurin
e u vė shtran' e terjorisur
me gėlpenje tė mundashtė.» -
Turku dish e qe kutjend,
vasha porsiti kriatet:
- «Kur t'i shtini verė Turkut,
pjot ju kupėn m'e ja bėni,
kur mė shtini verė mua,
pjot kupėn mos m'e bėni,
pikėn uj' edhe m'i shtini». -
Pra ndė mest tryesės,
ajo e kuqe e tuke qeshur
mbė tė marrė qelqin me verė
i shtu brėnda borė tė bardhė.
Turku i marrė nga ajo harč,
tue pirė e mbjuar kupėn,
dal ndė thronit u qikar,
atje i qėlloj gjumė.
Zonja vashė tė lidhurin
armatosi e u nis me tė,
dreq zallit detit.
Hipi hani tė rahur erės,
pėrtej detin u prė.
Po si ra te zalli i huaj,
ndėnj' si e stisurėz
e pėrier detit:
Mori e bukura Morč,
si tė lė u mė sė tė pe!
Atje kam u zotin tatė,
atje kam u zonjėn mėmė,
atje kam ahe tim vėlla:
gjith tė mbuluar nėn dhe!
Mori e bukura Morč,
si tė lė u mė sė tė pe!

Traduzione italiana

Era un turco assai fiero
e seco avea, legato, un prigioniero.
Nessun avea l'ardire
di favellar con lui; ma l'ebbe l'animo
una patrizia giovane
ed a quel turco fiero prese a dire:
- «Signor, benchč tu sia cotanto altero,
sempre che tu lo vuoi,
poniamo una scommessa tra di noi,
gareggiando al bicchiere,
il vin chi di noi resista a bere.
Tu metterai in premio il prigioniero
ed io porrņ il mio letto immacolato
di serici serpenti ricamato.» -
Della scommessa il turco fu assai lieto;
ma le sue ancelle ella ammonģ in segreto:
- «Allor che al turco il vino mescerete
colma colam la tazza gli farete,
ma quando a me voi mescerete il vino,
sempre vuota lasciatela un tantino,
ed ogni volta che me lo versate
qualche goccetta d'acqua mescolate.» -
Banchetta la donna accesa in viso,
tutta gioia e sorriso
e astuta, pria di bere,
mettea la neve dentro il suo bicchiere.
Rapito dal quel gaudio il turco altero,
bevea le tazze senza prendere fiato,
ma il vin lo vinse e gli annebbiņ la mente
e sulla sedia si piegņ accasciato
e vi si addormentņ profondamente.
Le armi ella diede allor al prigioniero,
s'avviarono entrambi verso il mare
e rifugiati sopra un bastimento,
presero il largo con prospero vento
e si fermaron nel lido straniero.
Discesi, al mare le pupille fisse,
stette impietrita la fanciulla e disse:
- «O mia bella Morea,
dal dģ che che ti perdea
io pił non ti ho veduta!
La mamma ivi ho lasciata,
lasciato ho mio fratello: ivi la muta
spoglia del padre č sotterrata!
O bella mia Morea,
dal dģ che ti perdea
io pił non ti ho veduta!

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Kostantini e Jurėndina

Testo arbrėsh

Ish njė mėmė shumė e mirė,
kish nėndė bil hadhjarė
e tė djetėtėn njė vashė,
ēė ja thojėn Jurėndinė (Harėndinė).
Sa t'e kishin mbė krushqi,
vejn' e vinė ndė dhet tė tyre
bil zotėrash e bulerė,
njera ē'erth njė trim i largė.
E jėma e tė vėllezėrit
nėng dojėn se ish keq larg.
Vetėm doj e pramatisnej
i vėllau Kostantini:
- «Bėme, mėmė, kėtė krushqi». -
- «Kostantini, e bir'im,
ē'ė pramatia jote,
aq larg ti tė m'e shtyesh?
se nd'e ndafsha u pėr hare,
pėr hare pran ng'e kam;
e nd'e ndafsha u pė helm,
u pėr helm nėnd e kam». -
- «Vete, mėmė, e mė t'e siell».
E martuan Jurėndinėn,
e qelli ndė Veneti.

* * *

Erth njė vit keq i rėndė,
ēė i kuarti asaj zonjė
nėndė bilt te njė luhadhė
e njė i djetėza bilė
ajo ish ndėr Veneti.
Shpia mė qindroj e zezė,
pa njėri e vetme.
Mbajti lipin dhjetė vjet
pė tė dhjetėt t'bilzit.
Kur shkuan dhjetė vjetėt,
erthe Shtunia e pėrshpirtė,
ėma u nis e vate n'Qishė:
tek e djathta njė qiri,
me tė jetrėn pėr leshi,
i bardh, i shpjeksurith.
Nga varr ish njė qiri
njė qiri e njė vajtim;
po te varr Kostantinit
dy qirinj e dy vajtime:
ulurith, pėrgjunjurith,
rihej kryet tek ai varr,
e tri herė tue shėrtuar,
me shėrtim gjaku tė dhėmbur,
aq sa Qisha u hundua,
m'i thėrrit birit tė saj:
- «Kostantin, o bir'im,
zgjohu, bir, se jam jat'ėmė!
Kush ėshtė besa ēė mė dhe?
Tė m'sjellsh atė bilėn time,
atė Jurėndinėzėn?
Besa jote nėn dhe ...!»

* * *

Si u ngris e u mbill Qisha,
pjassi varri n'katrish:
njo, te drita e qirinjvet,
u ngre varrit Kostantini.
Kyeja ē'ai kish te varri
mė u bė njė kalė i brimtė,
me tė zezė paravithe:
guri ēė pushtronej varrin
mė u bėnė njė fre ari.
Vukullat ē'ishin te varri
mė u bėnė njė freari.
Ai u hip te kalli
e si ajrith i zi,
eshtra mbi eshtra,
sipėr krahėvet njė fjuturak
me njė shpatė tė ngjeshurėz,
iku dhja si duallith
e mė vate Veneti.
Arru pas dijtur
te shpia e sė motrės.
Ēoi ndė shesht, para pėllasit,
tė bilt e sė motrės,
ēė bridhjėn pas ndallandishet.
- «Ku vate zonja jot'ėmė?»
- «Ėsht te vallja pėr ndė horė»
Vate tek e para valle:
- «U gėzuash, e para valle!»
- «Mirė se vjen, bir bujari!
Cila tė pėlqenurith?»
- «Gjithė tė bukura ju jini,
gjithė tė zonė mė e kini!
Mos m'e patė Jurėndinėn,
Jurėndinėn time motėr?»
- «Pėr tė parith, nėng e pamė,
pėr tė gjegjurith m'e gjegjtim;
shi' tek e dyta valle!»
Ardhur tek e dyta valle,
u qas e i pyeiti:
- «U gėzuash, e bardha vashė!»
- «Mirė se vjen, bir bujari».
- «Ėshtė me ju Jurėndina,
Jurėndina ime motėr?»
- «Ec pėrpara se m'e gjėn,
me xhipunin llambadhori
e me cohė tė vėlushtė».
Ardhu tek e trejta valle,
- «Kostantini, im vėlla!!»
- «Jurėndinė, lėshou, se vemi,
ke tė vishė me mua ndė shpi"»
- «Po thuam ti vėllau im,
se ndė kam t'vinjė ndėr helme,
vete veshem ndėr tė zeza,
ndė na vemi mbė hare,
unė tė marrė stolitė e mira».
- «Nisu, motėr, si t'zu hera».
E u vu vithe kalit.

* * *

Udhės ēė ata mė vejėn,
fėrshėllejėn zogjzit:
«i gjalli me t'vdekurin!»
U pėrgjeq Kostantini:
- «Ai zok ėshtė ēot
e nėng di atė ēė thot!».
E motra i pruar fjalėn:
- «Kostantin, vėllau im,
njė shėng tė keq u shoh:
kraht'e tu tė gjerėzit
janė tė muhulluariz!»
- «Jurėndinė, motra ime,
kmnoi i dufeqevet
krahtė mė muhulloi.»
- «Kostantin, vėllau im,
njetėr shėng tė keq u shoh:
lesht tėnd tė durrudhjarė
ėshtė tė pjuhurosurith»
- «Jurėndinė, motra ime,
mė tė bėnjėn syzit,
tė marrė ka pjuhuri kalit
e ka drita e diellit».
Erth kundrela dheut saj:
- «Kostantin, vėllau im,
pse drita e t'mi vėllezėrve
edhe t'bilt e zotit lalė
as duken na dalė pėrpara?»
- «Jurėndina, motra ime,
janė pėrtej, thomse ndė rrolet,
se erdhėm sonde e nėng na prisjėn».
- «Po njė shėng tė liq u shoh:
dritoret e shpisė sanė
ato janė t'mbilltura,
po t'mbilltura e tė nxijta».
- «Fryn vorea malevet».
Erdh e shkuan nga Qisha.
- «Lemė tė hinjė ndė Qish tė truhem».
Ajo, vetėm, shkalėlevet lart,
hipi dreq tek e jėma.
- «Hapėm derėn, mėma ime!»
- «Kush mė je aty te dera?»
- «Zonja mėma, jam Jurėndina!»
- «Mba tutje, bushtra vdeke,
ēė mė more nėndė biltė,
e me zėn' e sime bilė,
erdhe ni tė m'marrshė mua».
- «O hapme ti, zonja mėmė:
vetėm jam u Jurėndina!»
- «Kush tė suall po, bila ime?»
- «Mua mė sualli Kostantini,
Kostantini im vėlla»
- «Kostantini? ... e ni ku ė?»
- «Hiri mb'Qishė e ėshtė e truhet»
E jėma zgardhulloi derėn:
- «Kostantini in vdiq!!!»
U mba e jėma tek e bila,
u mba e bila tek e jėma,
vdiq e bila edhe e jėma!

Traduzione italiana

C'era una madre molto buona:
nove nobili figli aveva,
e la decima una donzella,
che si chiamava Jurentina (Garentina).
Per averla inmatrimonio
andavano e venivano dalla loro terra
figli di signori e cavalieri,
finchč ungiovane da lungi giunse.
La madre ed i fratelli s'opponevano,
perchč da troppo lontano (paese) egli era;
acconsentiva e ne trattava solo
il fratello Costantino.
- «Fa, o mamma, questi sponsali» -
- «Cos'č mai questa insistenza
di mandarla cosģ lontano?
Chč se un giorno io nella gioia la vorrņ,
nella gioia non l'avrņ;
nč se un giorno nel dolore io la vorrņ,
nel dolore non l'avrņ.
- «Andrņ io, mamma, e te la condurrņ.
Di Costantin sulla parola
maritossi Jurentina,
e se ne andņ nella lontan Venezia.

* * *

Giunse un anno assai funesto
che mietč a quella signora
in una battaglia sola i nove figli,
e la decima, l'unica figlia,
in Venezia si trovava.
Oscura se restņ la casa,
solitaria e desolata.
Dieci anni il lutto vi regnņ:
per i dieci figli suoi.
Poi, trascorsi i dieci anni,
venne il Sabato dei Morti.
Uscģ allor la madre e si recņ in Chiesa:
nella destra un cero aveva,
con l'altra man strappavasi i capelli
bianchi, disciolti.
Sopra ciascuna tomba un cero,
un cero ed un lamento;
ma sulla tomaba di Costantino,
due ceri e due lamenti (pianti):
dimessa, in ginocchio
il capo ella battea su quella tomba;
tre volte levossi un alto gemito,
un gemito di sangue,
e ne tremņ la Chiesa
mentr'ella il figlio suo chiamava:
- «Costantino, figliolo mio,
ti sveglia, o figlio, tua madre io sono!
La parola che mi hai dato, dov'č mai?
Di condurmi tu mia figlia,
la mia figlia Jurentina?
La tua parola č sotto terra! ...»

* * *

Quando si fece sera e chiusa ormai la chiesa,
ecco, qui quattro lati si fendč la tomba,
ed ecco, al chiaror delle candele,
sorger dalla tomba Costantino.
a Croce che proteggea la tomba
ne divenne un cavallo brioso
dinera gualdrappa adornato;
la pietra che copria l'avello
si cambiņ in argentea sella;
e in aureo freno si trasformarono
gli anelli della tomba.
Ei montņ a cavallo,
e nelle tenebre, qual vento,
il mantello sulle spalle svolazzante,
la spada al cinto,
volņ via dall'avello
ed a Venezia giunse.
Era gią giorno
quand'ei a casa giunse dalla sorella.
Nella piazza trovņ, dinanzi al palazzo,
i figli della sorella,
che inseguivan le rondini.
- «Dov'č mai la tua signora madre?»
- «Nella ridda per la cittą.»
Ed ei raggiunse la prima ridda:
- «Salve a voi, o della prima ridda!»
- «Benvenuto ne sia, figliol di nobil casta!»
Qual pił tra noi t'affascina?
- «Belle voi tutte siete
e di nobil signore voi tutte degne,
ma per me voi fascino pił non avete!
Vista voi forse avete Jurentina,
Jurentina mia sorella?»
- «Vista noi non l'abbiamo,
ma si l'abbiamo udita;
vedi pił in lą nella seconda ridda».
Alla seconda ridda giunto,
avvicinossi e chiese:
- «Salve a te, bianca fanciulla!»
- «Benvenuto ne sia, figlio di nobil casta!»
- «Forse tra voi č Jurentina,
Jurentina mia sorella?»
- «va' innanzi ancora e ve la troverai
col giubbetto indorato
e la "zoga" di velluto».
Alla terza ridda giunse:
- «Costantin, fratello mio!
- «Jurentina, ti sciogli e andiamo
ché meco a casa devi tornar».
- «Ma tu dimmi, fratel mio,
ché se a lutto mi conduci,
le gramaglie io vestirņ;
e se, invece, al gaudio andiamo,
delle pił belle vesti m'adornerņ»
- «Come t'ha colta l'ora t'incammina».
E sulla groppa posela del suo destriero.

* * *

Lungo la strada ond'essi andavano
cinguettavano gli uccellini:
«il vivo con il morto:»
- «Ma tu senti fratel mio,
cosa cantono gli uccellini?»
Le rispose Costantino:
- «L'uccellino č stolido
e non sa quel ch'ei si dica».
Ma riprese la sorella:
- «Costantin, fratello mio,
funesto indizio io vedo:
le tue ben larghe spalle
ahimč sono ammuffite!»
- «Jurentina, mia sorella,
dei fucili il denso fumo
ammuffite ha le mie spalle.
- «Costantin, fratello mio,
un altro funesto indizio io vedo:
la ricciuta chioma tua
tutta in polvere ridotta».
- «Jurentina, mia sorella,
ti si adombrano gli occhi
che il destriero solleva polvere
ed il sole te li abbaglia».
Giunti poi al natio loco:
- «Costantin, fratello mio,
perchč mai i miei fratelli
ed i figli del signor zio
non li vedo incontro a noi?»
- «Jurentina, mia sorella,
forse al disco or essi giocano,
né attendeanci questa sera».
- «Ma un altro funesto segno io vedo:
le finestre di casa nostra
serrate sono,
serrate ed annerite!»
- «La tramontana qui dai monti infuria».
Passaron poi presso la Chiesa:
- «Lasciami entrare a pregare un poco».
Ella, soletta, su per le scale,
giunse difilato dalla mamma.
- «Aprimi la porta, o madre mia!»
- «Chi č costģ presso la porta?»
- «Jurentina io son, signora mamma!»
- «Lungi va', crudele Morte,
ché nove figli m'hai rapito
e di mia figlia la voce or simulando
viene a rapir me pure».
- «Apri, oh apri, mamma mia:
sola son io, son Jurentina!»
- «Chi ti ha condotto qui, figliola mia,
- «Costantin mi ha qui condotta,
Costantino il fratel mio.
- «Costantino, e dov'č ora?»
- «In chiesa entrato ei prega»
La porta spalancņ:
- «Morto č il mio Costantino!!!»
Abbracciossi la mamma alla figlia,
abbracciiossi la figlia alla mamma,
morģ la mamma morģ la figlia.


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Trimi, vasha e ajri

Testo arbrėsh

Trimi:
Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha:
Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja:
Mbė tutje ndė verėt,
kur tė lulėzonjė molla
si kish vasha kryethit.

Trimi:
Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha:
Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja:
Mbė tutje ndė verėt,
kur tė lulėzonjė ulliri
tė mė siellė ulinjt e zezė,
si kish vasha syzit.

Trimi:
Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha:
Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja:
Mbė tutje ndė verėt,
kur tė lulėzonjė thana,
si kish vasha hundėzėn.


Trimi:
Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha:
Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja:
Mbė tutje ndė verėt,
kur tė lulėzonjė shega,
tė mė siellė shegėn e kuqe,
si kish vasha faqjen.

Trimi:
Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha:
Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja:
Mbė tutje ndė verėt,
kur tė lulėzonjė girshia,
tė mė siellė gjėrshinė e kuqe,
si kish vasha buzėzėn.

Trimi:
Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha:
Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja:
Mbė tutje ndė verėt,
kur tė lulėzonjė ftoi,
tė mė siellė ftuan e bardhė,
si kish vasha gjirthin.

Traduzione italiana

Giovane:
La brezza tu m'invia.

Fanciulla:
T'acqueta, o giovin, ché a te la manderņ.

Coro:
Pił in lą in primavera,
quando fiorisca il melo
sģ come il capo (di fiori adorno) la fanciulla avea.

Giovane:
La brezza tu m'invia.

Fanciulla:
T'acqueta, o giovin, ché a te la manderņ.

Coro:
Pił in lą in primavera,
quando l'ulivo in fiore
si carchi di bacche nere
sģ come gli occhi la fanciulla avea.

Giovane:
La brezza tu m'invia.

Fanciulla:
T'acqueta, o giovin, ché a te la manderņ.

Coro:
Pił in lą in primavera,
quando il corniolo in fiore
(porti il suo gentil frutto)
come il nasino la fanciulla avea.

Giovane:
La brezza tu m'invia.

Fanciulla:
T'acqueta, o giovin, ché a te la manderņ.

Coro:
Pił in lą in primavera,
quando il melagran fiorito
mi porti il suo rosso frutto
come la guancia la fanciulla avea.

Giovane:
La brezza tu m'invia.

Fanciulla:
T'acqueta, o giovin, ché a te la manderņ.

Coro:
Pił in lą in primavera,
quando il ciliegio in fiore
si porti le ciliege rosse
come la bocca la fanciulla avea.

Giovane:
La brezza tu m'invia.

Fanciulla:
T'acqueta, o giovin, ché a te la manderņ.

Coro:
Pił in lą in primavera,
quando il cotogno in fiore
m'offra il suo frutto candido,
sģ come il seno la fanciulla avea.

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Kėnga e brumit

Testo arbrėsh

Se ti vashėza hadhjare,
me mbė shpi t'ėm'ėm e t'ėt atė,
sa hadhjare edhe dėlirė,
ēė mė ngjeshėn ata brumė,
ngjeshe fort e ngure shumė.
Bėn kuleēė e m'i dėrgo
gjithė gjirivet mbė shpi,
gjithė gjitonėvet mbė derė,
tė t'mburonjė buka ndėr duar,
tė tė shtohen ditėt e mira,
tė t'zbardhet ajo jetė
pjot me dritė e me hare
si e bardhėz je ti vetė.

* * *

E kur njė bir tė ketė ajo zonjė,
mė ju rritėt e ju bėftė trim,
me defugen ndėr duar
e me shpatėzėn ndė brest.
Pra nd'amahjit m'e dėrgoftė
sa t'i priret mbė shpi
me hie pjot e me argjėnd,
e turkeshėzėn m'i sjelltė
pėr hare tė gjitonisė.

* * *

Se njė vashėz kur tė ketė,
mė ju rritėt e m'i pastė hje,
m'e martoftė dymbėdhjetė vieē
e pastė miell e mė bėftė kuleēė,
e pastė tri nore kriate
t'i kujdesjėn nga menatė
bijt'e shpin' e asajė zonjė
e t'i bėjėn hje pėr monė.

Traduzione italiana

O giovinetta di grazie adorna,
con in casa e padre e madre
quanto di grazie ornata, igenua tanto;
tu che ora quel lievito m'impasti,
spianalo forte e induralo assai.
Fa' le ciambelle e mandale
ad ogni casa dei parenti,
ad ogni porta dei vicini
che il pane in man ti si moltiplichi,
ché ti accresca il numero dei dģ felici,
ché la tua vita sia radiosa
di luce piena e d'allegria
cosģ come radiosa sei tu stessa.

* * *

E quando un figlio quella signora n'abbia,
possa egli crescere e farsi un baldo giovane
che sappia maneggiare il suo fucile
e la spada al cinto porti.
Poi baldanzoso parta per la guerra,
e salvo a casa ritornato,
d'argento carco e d'onore grande,
con sé riporti ancor la giovanetta turca
per allietare del vicinato il coro.

* * *

Una figliola poi quella signora n'abbia
e bella cresca e le sia d'onore,
e a dodici anni la possa maritare,
e m'abbia sempre farina e farsi torte
e ancora tre donzelle assai prudenti,
ch'ogni mattin si prendan cura
dei figli e della casa della signora
e le siano sempre a decoro.

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Kėnga Dasmore

Testo arbrėsh

Gratė 1:
Ulu nusė, e lumja nuse,
t'erth era ē'vete nuse,
vete nuse kėjo zonjė
ndė krahėt tė njėj zoti
tė zbardhet njė shpi e re.


Gratė 2:
Ju po shoqe e gjitnone
krehėni mirė kėshetėthin,
piksn'ja butė e bėni palė,
mo e kėputni ndonjė fill,
t'e varesėnjė kėjo herė.

Gratė 1:
Mbi thron e zotėrisė
ni bukur kėshetėluar
me kezė tė llambarme,
me forėn e jarit tėnd,
o hjea e vashavet
ngreu se mėnove shumė.

Gratė 2:
As mėnoi ndo njeri
se mėnoi sonja e jėma
tė m'i bjenej cohėn
mos t'i fjuturonj shpejt.
Ni ēė doni t'e anangasni,
tek e prasmja kėjo herė?
Monu shkepti dielli.

Vashat (pėr nusėn):
Vet m'i ambjedhur ku do vend,
bėra lulet tufa tufa,
gjithė gjirivet ja dėrgova.

Gratė 1:
O nuse vashė dėlirė,
kuj je molla e pa-mbjelė,
e lulėzuar mbi dhe,
shtunur rrėnjėt pa botė?

Vashat:
ė se jam un'ajo mollė
ēė s'potisi mosnjeri,
vetėm qielli mė lulėzoi,
vetė dielli mė zbukuroi.

Burrat (jashtė me dhėndrrin):
Ndallandishe xerk-bardhė,
hape shpejt e m'u buthto,
se t'erth jari ndė derė.

Gratė brėnda:
Qeti, shokė, se ėshtė e zėnė,
kemi shqėndėzit ndė finjė,
kemi bukėzit te furri,
sa t'i nxiermi e prana vjen.

Burrat jashtė:
Po ti zot e dhėndėrrith
mos mė ec ni trėmburith,
se ngė vete tė luftoshė,
po mė vete tė rrėmbeshė
atė krye-mollezėn,
atė mes-purtekėzėn.

Gratė mbrėnda:
Porsi hera t'erth e nise,
pash ti hje, motra ime,
por si dielli kur del,
por si vera e qelqevet,
porsi peta ndėr mbėsallėt;
njota jashti tė mbullihet,
jashti e gjthė jeta e huaj;
Si pėllumbe e qiellvet,
me mallin e shokut tėnd,
ti e lumja edhe nėn shi ...

(Kur hiri dhėndri ndė shpit)

Gratė:
Mirri ti poka, motra ime,
mirr falim ti nga shoqet,
nga shoqet e gjitonet:
mirr uratėn e s'at'ėmė
tė s'at'ėm'e tė t'yt eti.

Vashat (pėr nusen):
Ēė tė bėra u mėma ime,
e mė nxire ti gjirit tėnd,
gjirit tėnd e vatrės sate?

Gra e burra (pėr prindėt):
Paç uratėn ti, o bilė,
si tė t'In zoti edhe tonėn:
le zakonezit ēė ke
e mė mirr ata ēė gjėn
tek shpia ku vete nuse
Ēė do bėfshė pastė hje;
ėmrat tanė ndėr tu bij
tė pėrthėnė na bėfshin nderė.

(Tue vatur mbė Qishė)

Burrat:
Kėtje lart kėtje pėr mali
atje ish njė shesh i math
tek kullotėnjin thėllėzat;
m'u lėshua kėtje njė petrit,
mė tė hjeshmen e zgjodhi,
m'e ngreiti pėr qielli

Gratė:
Se petrit e stra-petrit,
mė lėsho thėlėzėzėn!
Njota, keq, si e rrėmbeve,
lotėshit bunarėn gjinė!

Burrat:
As e lėshon as e largon
se m'e do pėr vetėhenė.

(Kur dalėn nga Qisha)

Gratė:
Hapu mal e bėhu udhė,
tė mėshkonj  kėjo thėllėzė:
ky petrit me krah'argjėndi
bėn tė bjerė e s'ka ku tė bjerė.

Burrat:
Bie ndė derėt e s'vjėhrrės.

Gjithė bashkė:
Se ti zonjė e shegė e pjekur
dil mb'udhė tue hajdhepsur,
e m'j ec pėrparani,
Shtroji mėndafsh pėr nėnė kėmbė,
brez t'artė shtyri ndėr xerke
e m'i lidh e m'i shtrėngo.

Traduzione italiana

Coro di donne 1:
Siedi, sposa aventurata,
di tue nozze č giunta l'ora;
dallo sposo accompagnata
questa nobile signora
muove nozze, e la novella
sua magion di se s'abbella.

Coro di donne 2:
O compagne, e voi vicine
le sue chiome pettinate,
mollemente le intessete
ed a palla le intrecciate
nelle bianche fettuccine;
alcun fio non svellete,
perchč l'ora infaustirete.

Coro di donne 1:
Via sorgi dal trono tuo aulico,
o ben pettinata signora,
ti brilla la keza sul crine,
orgoglio hai del baldo guerriero;
o vanto e decoro delle vergini,
amor di parenti e vicine,
via sorgi, che tardi tu ancora?

Coro di donne 2:
Nessuno, nessuno ha tardato:
la mamma soltanto ha indugiato
nel comprale la zog, perchč
non s'involi sģ presto da sč;
come voi or cercate affrettarla
in questi ultimi istanti, non so!
Č un momento che il sole spuntņ.

Coro di donzelle (per la parte della donna):
Qua e lą bei mazzetti di fiori
io raccolsi ed a tutti i parenti.

Coro di donne 1:
Sposa, fanciulla ingenua,
di chi tu sei il melo che non fu mai piantato
entro terrena aiula,
e le radici estendi senza posarle al suol?

Coro di donzelle:
Son io, son io quel melo,
che alcun non ha innaffiato,
ma per virtł del cielo fiorģ mia grazia sola,
bella mi ha fatto il sol.

Coro di uomini (dall'esterno):
O rondinella dal bianco petto,
apri la porta e mi ti mostra,
ché sulla soglia č il tuo diletto.

Coro di donne (dall'interno):
Tacete, amici, ella č impedita:
abbiamo i panni entro il bucato,
e ancor nel forno il pan serrato,
non appena abbia finito, tosto, amici, ella verrą.

Coro di uomini (dall'esterno):
Ma tu, signore e sposo giovine,
perché t'avanzi cotanto timido?
Tu non muovi oggi a combattere,
muovi a rapir la bella vergine,
che come mela ha la guancia rosea,
che ha la vita snella e flessibile.

Coro di donne (dall'interno):
Poiché l'ora č ormai suonata,
va', sorella, avventurata;
sii a tutti di decoro come il sole rutilante,
come il vino scintillante nel bicchiere cristallino,
come il pan d'apparecchiata mensa 
sta sul bianco lino;
per te l'estraneo mondo č ormai serrato,
e nel desio del tuo compagno amato,
come la colomba la vol tu spazierai,
sotto il nembo felice ognor sarai.

(Mentre lo sposo entra in casa della sposa)

Coro di donne:
Prendi, sorella mia, prendi commiato
dalle compagne tue, dal vicinato;
te benedica la dolente madre,
te benedica il premuroso padre.

Coro di donzelle (per parte della sposa):
Che ti ho fatto, o madre mia, 
che dal tuo seno
 e dal focolar mi scaccia via?

Coro di donne e di uomini (per parte dei genitori):
Come ti benedice il nostro cuore,
ti benedica, figlia, anche il Signore;
lascia i costumi che hai
e prendi quelli che ritroverai
nel nuovo tetto che t'accoglie sposa;
t'esalti l'opra tua in ogni cosa,
e i nostri nomi nei figlioli tuoi
perpetuati, sian d'onore a noi.

(Mentre il corte si avvia in Chiesa)

Coro di uomini:
Una bella e spaziosa
pianura sovra i monti distendeasi,
e in quella le pernici pascolavano;
piombņ dall'alto un'aquila,
ghermģ la pił graziosa
e via volņ pei cieli.

Coro di donne:
O aquila, fra l'aquile sovrane,
la mia pernice rendimi!
Eccola, trepida intimorita,
inonda il sen di lacrime!

Coro di uomini:
Non l'abbandona l'aquila
ché per sé la desidera.

(Mentre il corte esce dalla Chiesa)

Coro di donne:
Apriti, monte, e ti tramuta in via
perchč passar vi possa questa pernice mia,
questa pernice e l'aquila che ha l'ali d'argento;
Ha di posarsi intento e van cercando il suolo
ove raccoglier possano il lor volo.

Coro di uomini:
Cadran presso la porta della suocera:

Tutti insieme:
O tu, signora suocera, matura melagrana,
scendi in istrada e appressati
al loro incontro; serici
tappeti stendi sotto i piedi loro
e una cintura d'oro
gitta al lor collo e avvincili. 

 

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Qiparisi e Dhrieja

Testo arbrėsh

Bėri kėshillėonja Lenė
po vetėm me trezė bujarė
nėnė mollė e nėnė dardhė,
nėnė kumbullzėn e bardhė,
tė martojin dhrinė e bardhė,
tė m'i jipin qiparisin:
«Qiparis i hjeshmi
ēė tė jep tina jot'ėmė?»
«Ēė palė mua mė taksi tata».
Malin mė taksi me kafsha,
mė taksi fushazit me ara,
perivol edhe me lule,
pjot me zoq e me kangjele,
katėr kuej e t'armatosur,
katėr shatra kaluar»
«Thuaj ti dhri e dhriza e bardhė,
ēė stoli tė taksi yt atė»
«Ēė stoli mė vjoi mėma?
Nėndė cohė e nėndė linjė,
nėndė brezėz tė rėgjėndė,
nėndė keza tė vėlushta
tė tėrjorme me ar,
nėndė sqepez tė hollė
edhe sqepin me kurorė
mė jep pesė nore kriate
edhe mua t'bukurėn!»

Traduzione italiana

Radunņ a consiglio donna Elena
i tre nobili bugliari
sotto il melo,sotto il pero,
sotto l'ombra del bianco pruno:
maritar con il cipresso
si volea la vite bianca.
- O cipresso, ella le chiese,
o cipresso d'ombre estese,
che daratti mai tua madre?
- Ha la mamma a me promesso
pien d'armenti una montagna,
un giardino pien di fiori,
che d'augelli ha lieti cori,
due pariglie di giannetti
con complete bardature
e due coppie di valletti.
- O mia vite, bianca vite,
qual corredo, di' tu pure,
t'ha promesso il signor padre?
- A me il babbo m'ha promesso
nove zoghe tutte nuove,
nove keze vellutate
tutte in oro ricamate,
nove ancor sottili veli,
nove ancelle assai fedeli
ed ancor la mia beltate.

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E ikura

Testo arbrėsh

Kur leve, leve ti vashė
u ndė derėt tėnde jeshė
lutje e parkalesja,
parkalesja tinė Zonė
tė mė lehėshe njė sy-zezė.
Sy-zezė vasha m'u le.
Kur m'urrit e u bė kopile
edhe zėmra  lulėzonej,
poksenitė u m'i dėrgova.
Vasha doj, po nėng desh
ajo bushtra e jėma.
- Vashė, ti mos u helmo,
se tė butinj u t'ėt ėmė.
Biejta u nj' parė kaliqe
e sė jėmės ja dėrgova,
proksenitin dhe m'i prora.
Jėma desh, po ahjerė s'desh
i jati mose i vrėrėt.
- Vashė, ti mos u helmo,
se tė  butinj u t'ėt atė.
Njė tereqe tė vėlushtė 
bjeita e ja dėrgova t'etė.
proksenitin dhe m'i prora.
Jati desh po ahiera s'desh
i vėllau qen mixorė
ēė duall e foli pjot me forė:
- Vashė, ti mos u helmo,
se t' ndryshinj u t'ėt vėlla.
Bjeita nj'brez tė rėgjėndė
me mahiere damaskine
tė vėllaut e ja dėrgova,
proksenitin dhe m'i prora.
Mbrezulloi ai mahjerėn,
po tė motrėn s'kutėndoj.
Njė tė dielėz menatė
m'u nisa e vajta vetė.
Me ēova ndė kamarėt
ēė kėshenė mė pjeksnej:
kėsheti ish njė villostar
ēė pjekshej me file ar
t'ardhur nga Anapuli
e mbi shir i vėj palė.
Pika lotė i bji ndė gji,
po ato s'ishin pika lotė,
se ish zjarrmi i t'dashurit.
E tėfala e i ndėjta dorėn,
vithe kalit pra m'e vura
e s'shtura sheshevet.
Duall pėrpara i vėllau
me tė katėr lalėrat
e me shtatė kushėrinj:
- Mba, ti trim, kallin dalė,
sa t'i taksin palėn.
Palėn ēė desha u mora,
vashėn tė bardhė si bora:
sytė e saj dy-mij dukatė,
vetullat njetėr dy-mij,
buza njetėr aqėvetė,
vetėhea pra gjithė njė jetė,
Ndėnji e priti ai mb'amahj
tek urėza e lumit,
ku ju rrodhtin mbė t'lavosur.
Atje ran tre o katėr,
pra kolarti ai ka kali
me pas t'bukurėn.
Atje u pushtruan gurė.
Kur lulėzoi vera,
trimi u bi njė qiparis,
vasha u bi njė dhrizė e bardhė
e u kumbis te qiparisi
me tė gjatin villostar.
Suall rushė dhria e bardhė;
shkojin tė sėmurmit
hajin e shėronshin;
shkojn tė lavosurit,
bėjn fjeta qiparisi,
ja vėjin lavomėvet
e ato dėlirėshin.

Traduzione italiana

"Bella fanciulla quando sei nata,
alla tua porta stavo a sedere,
Iddio pregando che ti largisse
pupille nere".
Con gli neri essa mi nacque
e quando crebbe negli anni e in core
la giovinetta ridea, mandai
l'ambasciatore.
Accondiscese colei. _ Si oppose
l'acerba madre - "Ma tu di ciņ
pensier non darti, fanciulla mia,
la piegherņ".
acquisto feci di bei calzari
ed alla madre li regalai,
cosģ fidenti gli ambasciatori
le rimandai.
Mutņ la madre. Il padre allora,
burbero, irato, negņ il permesso.
- "Ma non ti dolga; spero, o fanciulla,
piegar anch'esso".
Un ammanto tutto velluto
comprar io volli pel genitore
e a lui ritorno feci di nuovo
l'ambasciatore.
Mutņ anche il padre. L'empio fratello
venne, si oppose, parlņ severo,
- A te l'ambascia no punga il core,
placar lo spero, -
D'argento un ricco cinto comprai
con damaschina lama fulgente
e a lui tornaron gli ambasciatori
novellamente,
La spada ei cinse, ma pur no volle ...
accondiscendere ai preghi miei;
una domenica mattina io stesso
andai da lei.
Nelle sue stanza ella era intenta
ravviar le chiome con bel lavoro;
eran le trecce tralci intessuti
di fili d'oro.
Sopra la nuca stringeale a palla,
stille di pianto pioveano in petto,
pianto non era, era il disio
del suo diletto.
Salve, le dissi, la man le porsi,
la tolsi in groppa al mio destriero
e via pei campi siccome il vento
volņ il corsiero.
Quattro avea zii, sette cugini,
fummo inseguiti da tutti quanti,
all'improvviso l'empio fratello
ci uscģ davanti.
- Allenta il corso del tuo cavallo,
perchč la dote io qui prometta
a questa figlia di galantuomo, 
fermati e aspetta.
- L'ebbi la dote che volli: questa
vergine bianca qual neve, mille
ducati e mille valgon soltanto
le sue pupille.
Altri duemila valgon le ciglia
ed altrettanto la bocca ardita;
non ha poi prezzo, ma un mondo intero
val la sua vita.
E lģ, sul ponte della fiumana
a la battaglia ratto s'accinse;
torno la turba degli aggressori
a lui si strinse.
Caddero al suolo tre o quattro e poi
piombņ il garzon gił dalla sella,
a lui d'accanto, trafitta anch'essa
cadde la bella!
E dagli irati ambo di pietre
furon coperti nel loco istesso,
ma in primavera da quel garzone
nacque un cipresso.
E la fanciulla gentile e candida
in vite bianca si tramutņ,
i lunghi tralci tese e al cipresso
s'avviticchiņ.
Maturņ l'uva la vite bianca
e se, scorrendo di la i malati,
ibianchi grappoli assaporavano,
eran sanati.
Se poi le foglie di quel cipresso 
coglien, passando, di la i feriti
e su le piaghe le distendean 
eran guariti.

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Kostandini i vogel

Testo arbrėsh

Kostandini i vogėlith
tri ditė dhėndėrrith, 
ato shkuar tri ditė,
me nusen tė re tė re,
i erth karta i zotit madh,
ai tė vej ndė ushtėrėt.
Kostandini ahiera
vate te kamara e t'et
tė jatit e s'ėmės
e m'i puthi dorėn
e m'i lipi uratėn.
Pra gjeti tė dashurėn
holqi e m'i dha unazėn:
- "ėm timen, zonja ime,
mua mė thirri zoti i madh
e kam vete nd'ushtėrėt,
tė luftonj pėr nėndė vjet,
nd'ato shkuar nėndė vjet,
nėndė vjet e nėndė ditė
e u mos t'u priersha,
vashė, tė mė martonesh!" -
Fare nėng foli vasha.
Nxuar e m'i dha unazėn.
Mbet e ndonji ajo ndė shpi,
njera ēė shkuan nėndė vjet,
nėndė vjet e nėnde ditė.
Pa pjaku i viehri
(se mose trima bujarė
dėrgojin e m'e dojin)
bija ime, i tha, martohu!
As fol vasha e bardhė
e m'i bėnė krushqi hadhjare.


* * *

Te pėllasi zotit math,
pėr menatje, Kostandinit
po m'i vate nj'ėndrrėz
keq shumė e trėmburėz,
ēė m'i trėmbu gjumin.
Zgjuat e kujtuarith,
holq'e dha njė sherėtim
sa m'e ghegji zot'i madh
i mbyllur spėrvjerėshit
ka noti'e natės.
Si u ngre menatet,
bėri e i ranė daulevet.
Mbjoth akolėzit mbė rreth:
- "Se ju akolėzit e mi,
tė vėrtetjėn mė thoni:
kush mė shėrtoi sonde?" -
Gjithė e gjenė e s'u pėrgjenė,
u pėrgjegj po Kostandini:
- "shėrtova un'i mjieri?" -
-"Nga ė helmėsia jote?" -
- "Helmėsia ime largė,
sot martohet ime zonjė!" -
- "Kostandini, i miri im,
zdrepu grazhdėvet e mi,
zgjidh ti kalin mė tė shpejtė,
tė shpejtė si qifti,
tė jesh ndė katund mbė herė". -





* * *

Rrodhi vrap trimi e zgjidhi
kalin tė shpejtė si qifti
e i hipi e i ra mbė shporė.
Pak u prė ditėn e natėn
njera ē'ngau te dheu tij
mbė t'u ditur e diella.
Njo u pėrpoq me t'an e lashtė:
- "Ku vete ti tatė loshi?" -
- "Vete ku shkretia ime
mė qell tė gramisem,
se pata njė bir tė vetėm
m'e martova shumė tė ri,
me vashėn ēė deshi vetė.
Tri ditė po ndėnj dhėnderr,
pra i erth karta i zotit math,
ēė e deshi tek amahi.
Biri im, i pjotė helm,
vashės i propri unazėn:
u kam vete nd'ushtėrėt,
tė luftonjė pėr nėndė vjet,
nėndė vjet e nėndė ditė
e u mos u priersha,
mba ti unazėn e martohu,
se vetė jam u nėnė dhe.
Ani sot vasha martohet
e pushkat ēė shkrehjėn
thonė vdekjen e birit tim;
e unė vete gramisem". -
- "Priru prapė ti, tatė lashtė,
se yt bir vjen njėmend." -
- "Mė  rruash, i bukur djalė,
ēė mė dhe laim tė mirė,
se im bir mė vjen nani!" -
Trimi shkoi e i ra mbė shporė,
mos t'e ēoj tė vėnė kurorė.
Te hera e Meshės s'madhe,
m'arru te katundi tij
dreq ndė derė tė Qishės,
kur arrėnej nuja
e dhėndrri e hora ndaj
e mė qandoj fjamurin:
- "Se ju krush e ju bujarė
duamni edhe mua nun
te martesa e kėsaj zonjė."-
- "Mirė se vjen ti trim i huaj,
trim i huaj e i hjeshėm,
mirė se vjen te gėzimi jonė." -
U hap qisha e hijtin.
Atje erth pėstaj hera
trimi tė ndėrroj unazat;
por ndėrroi e i la te gjishti
vashės unazėzėn e tij.
Zonjės si m'i vanė sytė,
e njohur mė ju dhifis,
lotėt mė ju rrukullistin
sumbulla sumbulla faqes kuqe,
pikė pikė gjirit bardhė!
Kostandini ēė m'e pa:
- "Ni ju priftra e bujarė
mbani dalė ato kurorė.
Kostandini, kuror'e parė,
kėjo vashė lidhi pėr monė,
Kostandini u ndėr tė gjallė!!!" -

Traduzione italiana

Il giovani Costantino
sposo fu per tre di.
Ma, trascorse tre sere
con la tenera sposa
ebbe ordin dal sovrano
di raggiungere le schiere.
Allor dei genitori Costantino,
nelle stanze salģ,
baiņ ambo la mano
e d'esser benedetto chiese loro.
Indi cercņ la sposa,
trasse e le dič l'anelo.
- "Rendi anche tu, o signora,
l'anello a me; il Sovrano
ha gią fatto l'appello,
seguir dovrņ le schiere,
nove anni ho da combattere;
ma trascorsi nove anni,
nove anni e nove giorni
ch'io non sarņ tornato,
sgombra dal cor gli affanni,
signora, rimaritati.
Restņ muta la giovane,
trasse e gli dič l'anello;
nella casa di lui tacita e sola
stette finche passarono
nove anni e nove dģ
e poi di continuo
a lei la man di sposa
nobili giovanetti richiedean.
Il suo canuto suocero
disse: "Figliola mia, ti rimarita", -
La bianca donna udģ
l'annunzio silenziosa,
e con gran pompo fu promessa sposa.

* * *

Nel palazzo del sovrano,
entro il sonno mattutino,
fece un sogno Costantino,
fece un sogno spaventoso,
che dal sonno lo destņ:
e, turbato, pensieroso,
Costantino sospirņ.
Quel sospiro udģ il Sovrano,
chiuso in serica cortina,
e destato la mattiina,
fe' rullare i suoi tamburi
e le guardie e i cavalieri
a raccolta egli chiamņ.
- Su, m'udite, o miei securi,
siate meco veritieri,
chi stanotte ha sospirato?
Tutti tacquero i guerrieri,
sol rispose Costantino:
- "Io, l'afflitto, ho sospirato!" - 
- "Oh! fedel mio Costantino,
da che nasce il tuo sospiro?" -
- "Signor mio, del mio martiro
lungi č molto la cagione;
oggi stringe l'amor mio
nuove nozze in mia magione.
- "Costantin, figliolo mio,
nelle stalle mie discendi,
a tua posta scegli e prendi
il cavallo pił veloce,
sprona, dagli in sulla voce
ch'ei qual nibbio vola e va',
giungi a tempo in tua cittą." -

* * *


Nelle stalle discese Costantino
e un veloce destrier, veloce come
il nibbio, sciolse dai presepi. In groppa
balzņ, spronollo e via pei campi, poco
il dģ e la notte riposando; all'alba
di domenica, giunse alla sua terra.
E s'incontrņ col vecchio genitore,
e il genitore non conobbe il figlio.
- "O venerando veglio - questi chiese - 
dimmi, dove tu muovi i tardi passi?" -
- "Io me ne vo dove la mia sventura 
spingemi, in cerca d'un'alpestre rupe,
da cui precipitar possa il mio frale;
ebbi un figliol assai leggiadro, e molto
giovine ancora a fauste nozze io strinsi.
Solo tre dģ fu sposo, indi chiamato
dal Sovrano alla guerra, addolorato
il figliol mio restituģ alla donna
il nuziale anello e a lei disse:
- "Donna, partir m'č forza e per nove anni
m'avrą la pugna. Scorsi qui nove anni,
nove anni e nove dģ senza che io torni,
dell'anello disposi e ti marita,
ché sotterra io sarņ.". La nuora mia
nuove nozze oggi chiamano, e gli spari
ch'odi di festa, annunziano la morte
di mio figlio, e di morte in cerca io movo. -
E Costantino a lui: - O venerando
veglio, ritorna sui tuoi passi, or ora
verrą tuo figlio. - Gioine e leggiadro,
salve, ché rechi a me tanta novella,
che Costantino mio sta per venire. -
Il giovine spronņ, ché non trovasse 
gią maritata la sua dona, e, giunto
nella cittą, della gran messa all'ora
ei si fermņ alla porta della chiesa
mentre veniva il nuzial corteo
da grande moltitudine seguito,
ed ivi Costantino piantņ il vessillo.
- Parenti e cavalieri, ame sia dato,
per cortesia, venir da paraninfo
alle onoranze della sposa anch'io. -
E disser tutti: - O giovine straniero,
giovin leggiadro, assai da noi gradito
giungi nel gaudio della nostra festa. -
Si spalancņ la porta della chiesa
ed entrarono. Allor che a Costantino
toccņ la volta di scambiar gli anelli
scartņ l'anello dello sposo e il suo
vecchio anello alla sposa ei mise in dito.
Mirņ colei l'anello e il riconobbe,
impallidģ: scendeano rotolando 
per le guancie le lacrime e pioveano
a stille a stille su l'eburneo petto.
E Costantino vide e gridņ forte:

- Adagio, o sacerdote e cavalieri,
non intrecciate pił quelle corone;
altra corona un dģ legņ in eterno
il cor di Costantino e di costei,
né morto č Costantino, vive e son io!

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Rina e Radavani i vdekur

Testo arbėrėsh

Rina buar tė vėllanė,
tė vėllanė Radavanė.
Tri ditė m'e kėrkoj,
tri ditė me diellin,
tri natė me hėnėzėn,
pastaj m'e gjeti tė vrarė,
tė vrarė e krye-prerith,
te sheshi Anapulit.
I ndhtin tė  varfėrit,
je vu mbė mushkė tė zezė
e m'u pruar dreq prapė.
Udhės lodhur, te njė pėrrua
u prė e,zdrepur, e mbuloi
me fjamur e vetėtij.
Shkoj ortej'e Arminoit:
-  "Ėm njė pikė ujė Rinė." -
- "Ujėt s'kam ku tė t'e jap." -
- "Ėme ndė grusht tėnd, moj Rinė." -
- "Grushti im i pjotė unaza,
pikėn ujė nėng e mban;
atė pikėn ēė mban 
kat ja ruanj zotit t'im.
Po ti qen, ti tradhėtur,
ti mos fol kėshtu me mua,
se ndė zgjofsha tim vėlla,
copa e thela bė t'ju bėnjė.
- Rinė, tė qofsha truarith,
sa t'kaptonjė u kėtė mal,
mos zgjo ti t'ėt vėlla,
kėtė mal e jatėrin.
Ata ikur, Zonja Rinė
zu hjidhi mbi tė vėllanė:
- Radavan, vėllau im,
ndė nani tė trėmben
lip kur ishe i gjallė!

Traduzione italiana

Perdč Rina il fratello
il fratello Radhavano,
ed ella lo cercņ,
gemendo nel suo duol,
tre lunghi dģ col sol,
tre notti all'aria bruna
col raggio della luna,
ma sempre invano.
Infine ella trovņ
il fratel suo ucciso
nella piazza di Nauplia,
il capo aveano al misero reciso.
Pianse Rina il fratello;
gli orfani l'aiutarono
e il pietoso fardello
la donna caricņ su un mulo nero
e ritornņ sul percorso sentiero.
Lungo il cammin, la sera,
presso un torrente ella si riposņ;
la spoglia del fratello scaricņ,
e con la sua bandiera
sul suolo la coprģ.
Passa intanto di lģ
il feroce Arminņ con la sua schiera.
- Rina, una goccia d'acqua mi concedi.
- Io non ha dove dartela, lo vedi.
- Ffa della man una scodella.
- Le dita mia son cariche di anella
e l'acqua ne cadrą,
ma se una goccia vi si fermerą,
quella goccia č serbata al mio signore.
Tu, cane e traditore,
con me non indugiarti pił a parlare,
perchč se mio fratello sveglierņ,
ridurre a brani abrani vi farņ.
- Rina, per caritą, non t'adirare,
lascia che questo monte
passiamo e l'altro che gli sta di fronte.
Partiro i tristi e intanto
sul fratel Radhavano
Rina proruppe in pianto:
- Fratello mio, fratello Radhavano,
se ancora tanto timore
ispira il tuo valore,
tal che la gente fugge impaurita,
pensa quand'eri in vita!

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Skandėrbeg Vellamjes

Testo arbėrėsh

Skandėrbeg njė menatė
po m'e mbjoth trimerinė,
po m'e mbioth adhe m'e ftoi
me mish derri e lepurish,
me krera thėllėzazish
me ile mėshtjerrazish.
Kur ish pėr me fėrmuar,
duall ndėr dritosorezit,
skomollei njė spium.
- Se ju shokzit e mi,
tradhėtim ė ndėr ne!
Cili ndėr ju mė gjėndet
tė mė verė nd'atė rahj,
tė mė shorė ē'bėhet?
Mosnjeri ndėr ta m'u gjėnd.
Atje hipi kalėthin
e m'u nis e vate vetė,
e mė gjet tė pabesin:
- Se ti  qen e i pabesė,
o m'e sjell o t'e sjell!
Mė ja suall i pabesi
e m'i preu brezthin.
Mė ja suall Skanderbeku
we m'i preu krathin
e i lavosi kalėthin.
kur ata lujtojėn
mė m'e rrunė armiqt,
e m'u shtu ndėpėr ata.
Kur ish dy orė ditė
mė u pa i bjerrurith.
Ngrėiti syzit ndėr qiell,
lypi ėndejesė t'Inzoti:
Shėit i math, Shėn Kolli,
ndihem Ti se mė ke indihur!
Shtu syzit ndė nj'anė,
vu kufi tė kunatin:
- Dukagjini, im kunat,
pa sa ruajėm krahzit,
se Shėjt'i Math Shėn Kolli,
mė ngallosėn diellthin,
t'i jap mort kėtij qeni.
E m'u shtu ndėpėr ata.
Kur ish dy orė natė,
mė fėrnoi luftėnzėn
e perėndoi dielli.
-Se ti Zot e Zot'i math,
sa mė ke vrarith?
- Nėndė mij e gjashtė qind;
ca m'i vrava e ca i lavosa
e nėn shpatėn ghithė i shkova!
Fuqia ime nėng qe,
se qe dora e t'Inzoti;
por me nėndė qind trima,
ghithė tė zgjedhur nd'Arbėrit!

Traduzione italiana

Skanderbeg una mattina
riunģ la gioventł
e a banchetto la trattenne.
Vi era carne di cinghiali,
di leprotti e di pernici
e di lombi di vitelli.
Sul finire del banchetto
s'affacciņ alla finestra
e vi scorse una spia.
- Orsł, voi compagni miei,
qui qualcuno ci tradisce!
Chi tra voi si sente il cuore
di salire su quel colle
e veder cosa vi accade?
Ma nessuno a lui rispose.
Ei, montato sul cavallo,
sol soletto incamminossi
e incontrņ il Rinnegato:
- O tu, cane rinnegato,
su! colpisci! o ti colpisco!
Lo colpģ il rinnegato
ed il cinto gli tagliņ.
Lo colpģ poi Skanderbeg
ed un braccio gli tagliņ,
gli ferģ pure il cavallo.
Me nel mezzo del duello,
i nemici ecco arrivar:
tra loro Skander si gettņ.
A due ore dalla notte
Ei perduto si credeva,
alzņ al cielo allora il guardo,
chiese aiuto al sommo Iddio:
- Tu, gran Santo, San Nicola,
come sempre ancor m'aiuta!
Indi si guardņ intorno
e vi scorse il cognato:
- Dukagjin, cognato mio,
sol mi guarda tu le spalle,
ché il gran Santo, San Nicola,
per me il sole fermerą
perchč uccida io questo cane.
E gettossi nella mischia.
A due ore della notte
la battaglia era finita,
ed il sole tramontava.
- Signor mio, mio gran Signore,
quanti tu ne hai uccisi?
- Nove mila e seicento,
altri uccisi altri feriti,
io passai a fil di spada!
Ma non fu pel mio valore:
fu la mano del gran Dio
con novecento giovani
tutti scelti in Albania!

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Viershe e graxeta - Epigrammi e distici

Testo arbėrėsh

1

Shkova ka dera e ng'ish njeri
dola ka udha e nėng tė pe,
kėrkova gjitoni mbi gjitoni
e mosnjeri mė tha se ti ku je;
njė miegullėz e zezė m'u vu nd sy,
m'u salltin trutė e m'u err gjithė ky dhe;
me sytė mbė lotė u prora prapė ndė shpi,
i pisruar si zoku pa fole.

2

Thėllėzėz ēė ka mali fjuturove
e prėzė mua erdhe e m'u kumbise,
mė ruajte me ata sy e trutė m'i mbjove
e mbrėnda te kjo zėmėr ti m'u stise.

3

Oi mes-holl'e dredhrėz si dhri,
njatėr, si ti, kopile nėng ė mė,
se bukurizit tėnd ng'i ka njeri
e u i ziu shėrtonj e gjumė ngė zė.

4

E losen, bukuritė - si borė kur vera e ēon,
si nj'yll ēė nd'errėsitė - shkrehet e strallambar
pėstaj shuhet ky linar - e gjindja na harron.

5

Ishin dy thėllėza ndė njė degėz ftoi
e mė e madhja keq mua mė pėlqeu,
kurmin m'e ēeli e zėmrėn m'e shpoi,
si petriti m'e pa mua m'e rrėmbeu.

6

U dolla jashtė e pe si vejin retė,
kėshtu pėr tina, vashė, mė sillen trutė.

7

Kisha njė zėmėr e ti, vashė, m'e more,
nana ti rri me dy e u pa fare.

Traduzione italiana

1

Passai per la tua porta e non vi era nessuno;
uscii verso la via della fontana e non ti vidi;
cercai di vicinato in vicinato
e nessuno seppe dirmi dove tu eri;
una nube nera mi velņ gli occhi,
mi vacillņ la mente e mi s'oscurņ il mondo intero;
con gli occhi gonfi di lagrime tornai a casa
triste come un uccello che ha perduto il nido.

2

Pernice, che dal monte sei volata
e sei venuta a posare a me d'accanto,
mi hai guardata con quegli occhi e mi hai ripiena la mente
e mi ti sei murata dentro questo cuore.

3

O flessuosa, agile come la vite,
un'altra fanciulla come te non v'č,
chč la tua beltą non hanno l'altre,
e sospiro io misero e non prendo sonno.

4

Dissolvesi la brezza - come neve in primavera,
come stella che nell'oscuritą - fila splendente;
pi questa luce spegnesi - e tutti ci dimenticano.

5

Erano due pernici su un ramo d'albero
e la pił grande a me piacque assai,
mi accese il corpo e trapassommi il cuore,
come il falco la vide, me la rapģ.

6

Uscii fuori e guardai come vagavano le nuvole,
cosģ per te, fanciulla, vagano i miei pensieri.

7

Avevo un cuore e tu, fanciulla, me l'hai preso:
ora tu ne hai due ed io son senza.

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Vėllamja e motėrma

Ditė e Analipsit, djemat e katundit bėjėn vėllamjen;  vashat bėjėn motėrmat, veē jo bashkė.

Mbjidhen ndėr dy shpi; nga njė qellėn tė ngrėnė, t'hanė ghithė bashkė. Pas drekės, djemat me djemat e vashat me vashat, zėnė vallen e tue kėnduar kėngėn e Skandėrbekut venė mbė Qishė. Te dera e Qishės, hijėn tue kėnduar "Anelifthis en dhoksi ..." Vėhen rrotull pėrpara Ikonostasit, mbi Sollenė. Pėrpara Korės sė Zotit Krisht ėshtė njė tryes e vogėl e veshur e kuqe e mbi tryesėn Vangjeli.

Atje rri Zoti me petragjilin e thotė: "Evlojitos e Theos imon ... Vasilev uranie ... Ajos o Theos ... Dhoksa Patri ... Panajia Trias ... Dhoksa Patri .. Pater imon ... Oti su estin ..."

Ghithė kėndojėn: "Anelifthis en dhoksi ..."

Kė Zoti veshėn Fellonin e thotė: "Qe iper tu kataksiothine imas ..." e kėndon Vangjelin.

Gjithė vėhėn nėn Vangjelit pėrgjunja, djema e vasha. Pėstaj ngrėhen e puthiėn Librin Shėjtė. Kur gjithė e puthėn, Vangjeli vėhet mbi tryesėn e djemat vėnė dorėn e djathė persipėr. Zoti i mbulon duart me Petrahjilin, thotė: "Tu Kyriu dheithomen" e lutjen. 

Pastaj njeri-iatrit zėnė njė cimb dora tue thėnė: "Cimb njė e cimb dy, vėllau i je ti". Pas djemavet bėjėn ashtu edhe vashat, me dorėn mbi Vangjelin, Zoti i thotė lutjen e kėshtu zėnė cimbin tue thėnė: "Cimb njė, cimb dy motra ime je ti".

Kur gjithė sosjėn, thonė bashkė, vashat vashavet e djema djemavet: "Gjaku um ėshtė gjaku yt, shpirti im ėshtė shpirti yt". 

I thotė Zoti: "Ruhi, bij, ka lėtiri, si druri ka topra". Pėrgjeghen ghithė: "Derk e lėti mos e sill mbė shpi, se t'ēan poēe edhe kusi".

Tė vėhet re se vashat e djemat nėng mund' tė ndėrronjėn gjakun bashkė; ndė se e bėjen, bėhen njė gjak su vėlla e motėr e s'mund t'martohen.

Zoti i bekon, thotė. "Etisin e Apolysin", puthjėn Korėn e Zotit Krisht e Shėn Mėrisė tue kėnduar "Anelifthis ...". Dalėn nga Qisha mbė valle tue kėnduar kėngėn e Besės (Kostantini e Jurendina).

Rrethonjėn gjithė udhėt e katundit e, tue sėrposur, mbjidhen ndė shpit.


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