Questa raccolta di poesie satiriche dedicate a Cosenza ispira un sentimento vero e profondo. Il suo è però un riso nervoso condito da una bonomia di fondo, da uno spirito in cui prevale l'arguzia e l'ironia sulla denuncia e la provocazione.
Cosenza è l'oggetto di questa raccolta di componimenti epigrammatici. "Ahi! Serva Italia" sembra riecheggiare la funesta ira dantesca, la sua profonda amarezza nel vedere la propria patria derisa e maltrattata.
"E mo' ti frichi", sembra urlare Franco, rivolgendosi alla "sua" città natale. Oltre tutto sua perché è qui che ha trovato il suo modo di esprimersi, l'ha interiorizzata, è diventata parte di sé. La necessità si è tramutata in una scelta consapevole e condivisa. Si è creato un legame profondo di amore, un sentimento forte che si trasforma in odio, in ribellione per lo stato miserevole in cui versa.
L'A. a Cariati ha passato gli anni della sua fanciullezza trasferendosi successivamente in città per ragioni di studio e di lavoro. Cosenza diventa la sua patria, diventa il teatro delle sue vicende, il terreno dove combatte la sua quotidiana battaglia dell'ordinario. Entra a far parte di una koinè numerosa e variopinta, che ha trasformato la demografia di Cosenza nel corso dell'ultimo mezzo secolo. La città nella prima fase ha vissuto un imponente movimento di accrescimento demografico arrivando a superare i 110.000 abitanti. Non si trattava, come è ovvio, del saldo naturale della popolazione, ma di una forte capacità di attrazione della dimensione urbana. Dopo secoli di mimetizzazione nel territorio, dove si nascondevano i briganti, e si sfuggiva all'oppressione della rapacità fiscale dei governi, il nascente benessere portava ad uno spontaneo aggregarsi dei calabresi in spazi ristretti, a ricercare una dimensione di vita urbana, a desiderare i benefici della civiltà.
Cosenza è diventato il melting pot dell'intera provincia, dove si sono concentrati i bruzî di ogni dove, per la prima volta nella storia riuniti in un'unica dimensione metropolitana che ha profondamente influenzato la cultura e le tradizioni, ha riunito vizi e virtù della provincia, ha trasformato il linguaggio.
La città non ha saputo tuttavia rispondere ai nuovi bisogni di questa nuova umanità che si riuniva tra le sue "mura", non ha saputo offrire un adeguamento degli standard qualitativi. La programmazione urbanistica è stata debole se non assente, incapace di dare delle risposte adeguate ai bisogni dei vecchi abitanti e dei nuovi arrivati. La città si spopola nuovamente. Una componente importante cerca e trova soluzioni nei comuni limitrofi. Inizia il lungo declino che ha portato la popolazione ad un livello di circa 70mila abitanti. Il decremento demografico avviene "intra moenia", mentre il territorio dell'area urbana subisce un profondo sconvolgimento esaltando la riscoperta dell'urbanità, che la si costruisce altrove, in spazi più ampi. Nasce una città che straripa oltre i ristretti confini amministrativi. La spontaneità della crescita supplisce all'assenza della politica, alla mancanza di una pianificazione urbanistica coordinata del territorio, avvalendosi della presenza e dello sviluppo dell'Università. In una regione caratterizzata da una una dispersione accentuata della popolazione e dall'assenza di una dimensione urbana si tratta di una grande rivoluzione sociale che ha profonde ripercussioni anche nella vita culturale della città.
La comunità si fonde e si confonde nella nuova generazione creando un elemento unificante nella condivisione delle esperienze. I padri tuttavia rimangono attaccati alla loro origine, mantengono integro il cordone ombelicale con i loro paesi di origine.
Francesco Nigro Imperiale è un esempio paradigmatico di questa nuova umanità che si è andata formando. Ha un rapporto profondo con la sua città, e mantiene ben salde le sue radici, che i suoi figli hanno reciso senza rimpianti riconoscendosi nella nuova koinè.
Quando si allentano i freni inibitori il registro linguistico ritorna nel grembo materno, si affida alle espressioni tramandate dalla memoria, alle ossessioni della propria infanzia. Nei momenti di amore o di collera, infatti, usa il dialetto jonico con molti influssi cosentini nel lessico e nella costruzione sintattica. Riferendosi al linguaggio usato, infatti, egli stesso lo classifica come "dialetto provinciale cosentino-jonico". Non il dialetto parlato nell'area ionica della Calabria, ma una contaminazione di quel dialetto da parte di un cosentino acquisito.
Come avviene nella stragrande maggioranza di coloro che vengono sradicati dalle origini familiari, in Francesco Nigro Imperiale si è prodotto uno sdoppiamento della personalità. Egli interiorizza la dimensione urbana, diventa protagonista, orgoglioso della sua crescita, ma lo fa mantenendo ferme le sue radici, interpretandola con la propria sensibilità umana e culturale.
In questa raccolta breve, ma molto significativa, dà uno spaccato della vita cittadina, un affresco da cui emergono le silhouette dei tanti personaggi che la popolano, le sagome degli edifici, i fantasmi delle mancate realizzazioni. Ne vengono delineati solo i profili, i contorni in nero, ma che ad un occhio attento rivelano tutti i particolari, ne fanno risaltare vizi e virtù. Non vi sono attori, non si individuano protagonisti di uno sviluppo distorto, di una mancato governo del processo di crescita. Protagonista assoluta è la stessa città, con i suoi guasti e le sue amputazioni, con le sue delusioni e le sue ferite vecchie e nuove, con le sue vie ed i suoi palazzi, con le sue attese e le speranze che ha alimentato.
Sullo sfondo si intravede la "Politica", l'ombra di un grande vecchio, le sagome dei nuovi padroni. Restano tutti sullo sfondo, indefiniti, ma definibili da coloro che vivono la città. Il vero protagonista resta tuttavia la città, con le sue vie e le sue piazze, gli umori e gli odori, con il brulicare della gente nello struscio serale a Corso Mazzini, i nuovi quartieri e i viali affollati dai cani che portano a spasso i propri padroni.
Francesco Nigro Imperiale sente sua la città, a lei si da con tutta l'anima, ma sente che la città lo tradisce nelle sue aspettative, nelle sue aspirazioni di un elevamento del livello di vita civile. Tra gli scrittori calabresi, Corrado Alvaro aveva descritto mirabilmente "l'ansia di vivere nella babele cittadina".
Nella precedente raccolta di poesie "Jurilli", la poesia "Cusenza 'ntru core", l'ha cantata con accenti lirici delicati e gentili, accarezzandola con l'alito lieve con il quale declamava i suoi versi. Ora alza la sua voce in "rime sdiegnuse" per rimproverarle tutti i tradimenti, le promesse mancate, i giuramenti violati. Da qui le cattarìe, i dispetti, le invettive, i mottetti che vi dedica.
Scattare è proprio della molla che, toccata, si muova o sospinga, secondo il Tommaseo: uno sproloquio pieno d'insolenze. cattari vale invece schiattare, crepare, scoppiare, secondo l'Accattatis. Entrambi esprimono un senso di ribellione e di ira, uno scoppia di collera e di indignazione proprio dello strambotto, il breve componimento poetico di origine popolare e di contenuto satirico, condito da una sottile arguzia. "Chi puazzi scattari dille rise", mentre si denunciano carenze e malefatte. Castigat ridendo mores, come direbbe Jean de Santeuil, o secondo lo stesso A.:
... è bilènu ca sbiella
Fùjia ffora sbuòmmicata,
po' scuntrusa è sc-cattariata!
Scorrendo i suoi versi vi è un florilegio delle promesse mancate: il planetario, il métro, le scale mobili per salire al Castello come saette, il Ponte di Calatrava. Le realizzazioni discutibili, come Piazza dei Bruzi con il suo guerriero all'ammollo in una vasca dal colore cupo. Vengono impietosamente messe sotto accusa i molti disservizi della città: la carenza di un efficiente servizio di trasporto urbano e di parcheggi, la pulizia urbana, l'ingloriosa fine dell'elisoccorso, il carattere monco del progetto universitario ancora privo delle facoltà di giurisprudenza e di medicina, Viale Parco con i suoi filari di pioppi, uno scandalo continuo, ridotto ad una pattumiera.
Un senso di sottile nostalgia pervade il ricordo del ciuf-ciuf, il trenino a vapore che come un drago metallico entrava in città sbuffando, mentre dal suo sfiatatoio si levava un'alta colonna di fumo bianco ed un agro odore di carbone ardente. Lo si vedeva salire ansimante lungo le pendici della Sila per portare il suo carico nelle nevi immacolate. Non vi è più la stazione, non vi è più il trenino, vittime di un inevitabile tributo al progresso e di una scellerata programmazione dello sviluppo territoriale.
Altrettanta malinconia si legge tra le righe della descrizione dello struscio di Corso Mazzini. Si motteggiano sfaccendati della città, "pulitici e lecchini", prufessuri e furficisti, ma resta l'ammirazione per la bellezza in fiore che si concede con arroganza allo sguardo:
"tra sfigati e cilandruni
llà spassianu 'e guagljune!
aggammate e tutte belle,
bionde, brune e sanguinelle.
In "Gente di Aspromonte", quando il brigante Antonello si arrende ai carabinieri esclama: "Finalmente potrò parlare con la Giustizia. Che ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!".
Con questi versi, Francesco Nigro Imperiale ha voluto dire il fatto suo alla città. Lo ha fatto con rabbia ed ironia, liberandosi di un peso: il desiderio a lungo represso di denunciare i tanti guasti prodotti dal malgoverno, da una classe politica approssimativa che ci ha riempito le orecchie di "finuocchij 'e timpa", senza riuscire a creare la città moderna ed europea che tutti abbiamo sognato.
La lettura è piacevole, le righe scorrono veloci. L'augurio è che resti ben impressa nel lettore la denunzia di uno stato di degrado e la volontà di reagire.
Oreste Parise
Cosenza, 14 novembre 2006