Luigi d'Aquino, un generale per tutte le stagionidi Oreste Parise Mezzoeuro Anno XI num. 43 del 27/10/2012 |
Rende, 24/10/2012
Scrisse pagine gloriose con l'esercito di Murat
Soldato borbonico, ebbe un ruolo nell'esercito repubblicano nel 1799 e poi al servizio di Napoleone diventando uno dei militari più amati da Gioacchino Murat. Con la Restaurazione gli fu affidato il compito di riorganizzare l'esercito napoletano dedicandovisi con passione. Alla sua morte, avvenuta in giovane età, gli furono rifiutati gli onori militari.
Luigi d'Aquino nasce a Cosenza nel giugno del 1771 da Giuseppe e dalla nobildonna Isabella Mangone. Muore a Napoli il 28 giugno del 1822, all'età di 51 anni affetto dall'alternarsi di podagra e sinagra, forme di gotta che colpivano i piedi e le mani. La sera precedente, presagendo la sua fine, aveva detto a sua madre: "Domani io non sarò più: deh! non cercate militari onori alle mie esequie; vi sarebbero senza un dubbio negati". "Ne punto s'ingannava", precisa il suo biografo Mariano D'Ayala, "chè nel meriggio, avuta la remissione delle peccata ed il conforto degli angeli, l'ultimo respiro esalava; e senza la veste per tanti anni nobilmente vestita, oscuro ei fu menato nelle latomie della onoranda fratria San Ferdinando".
Egli era uno di quegli uomini straordinari che calpestarono i campi di battaglia di tutta Europa, dalla Francia all'Austria, alla Spagna. Partecipando attivamente agli avvenimenti politici e acquisendo una esperienza unica che solo in piccolissima parte riuscì a mettere al servizio della sua terra, per i timori e i sospetti che circondavano gli uomini che potevano essere pericolosi portatori di germi di libertà.
Quell'anno 1822 si respirava un pesante clima di repressione dei moti avvenuti solo qualche mese prima e la sua figura di valoroso soldato dell'armata napoleonica lo rendeva un personaggio pericoloso, perché personificava l'idea di libertà e di costituzione. Sebbene non risultasse di aver partecipato direttamente alla sommossa, si temeva che i suoi funerali solenni avrebbero potuto richiamare i "rivoluzionari" e riaccendere la miccia della rivolta.
Era un militare di carriera vissuto in un momento molto tormentato del Regno di Napoli, che aveva visto per ben tre volte un ribaltamento della situazione politica: la fuga di Borboni nel 1799 e l'instaurazione della repubblica, la rivincita sanfedista, l'arrivo dei francesi con Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat poi, la restaurazione legittimista del 1815 con il secondo ritorno dei Borboni. Questi ribaltamenti radicali non consentivano a nessuno di mantenersi neutrale, poiché gli eventi lo investivano con la loro crudezza e la nettezza di una scelta che diventava una colpa al mutar degli eventi. Lo stesso disegno della Restaurazione di voler ripristinare l'ordine e la legalità del vecchio mondo assolutistico si rivelò subito un disegno molto fragile e fu investito da una lunga serie di moti che spesso assumevano un carattere internazionale che interessavano tutta l'Europa, i più famosi dei quali si verificarono nel 1821 e poi nel 1848.
Il biografo di Luigi d'Aquino scrive nel 1845 mostra un grande imbarazzo nel raccontare gli eventi, si parla di re e di repubblica senza precisarne i nomi. In alcuni passaggi mostra la sua simpatia verso le idee egalitarie della rivoluzione, ma tesse sempre l'elogio della monarchia borbonica. Considerati i tempi era consigliabile estrema prudenza.
"Le vite dei più celebri capitani e soldati napoletani dalla giornata di Bitonti fino a' giorni nostri" scritto da Mariano D'Ayala sembra a posteriori una appassionata difesa ante litteram dell'esercito di Francischiello, diventato il simbolo di impreparazione e inefficienza, gettando sui meridionali l'infamante accusa di essere dei codardi incapaci di combattere "per la patria e per l'onore". L'incoerenza e l'indecisione che caratterizzavano la politica estera del governo borbonico, creavano uno stato di disagio e di incertezza nei comandi militari, che subivano sempre pesanti sconfitte a causa della disorganizzazione, la scarsa preparazione degli arruolati e la carenza dell'equipaggiamento. Gli uomini d'armi trattati nel libro sono a lui contemporanei o del secolo precedente poiché l'obiettivo era quello di dimostrare che il coraggio e le virtù marziali non appartenevano ad una ipotetica età dell'oro, ma erano ancora ben presenti. La difficoltà è rappresentata dal fatto che le pagine più luminose sono state scritte dalle truppe napoletane arruolate sotto l'egida francese in chiave antiborbonica, una eccessiva manifestazione di filofrancesismo poteva costare caro nel 1845.Nato nella patria de' Parrasio, de' Telesio, de' Quattromani, de' Serra e di tanti cospicui uomini di lettere, il giovanetto vivacissimo bene prometteva di sè fin da' primi primissimi anni, e fu mandato a Napoli a côrre più fiorita e più scelta educazione nel collegio de' nobili, dove per quel sentimento di dignità e di amore a sé stessi, onde non è mai difetto in cuor calabrese, fece ogni suo potere per andar meritando la predilezione de' maestri, il rispetto de' reggitori, l'amore de' colleghi. Dal quale convitto, poi ch'ebbene compito gli studi, andò a farsi meglio addentro in filosofia dal suo celebre conterraneo ed amico, abate Salfi, il quale in quel volger di tempo dettava in Napoli lezioni di cotal prima scienza. Il Trattato di Parigi firmato nel 1783, che pose ufficialmente fine alla guerra d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America sembrava aver posto le premesse per un lungo periodo di pare in Europa, ma il fuoco covava sotto le ceneri. Racconta il D'Ayala: "Ma in mezzo a sì ingannevol calma, apparecchiavasi quella terribile rivoluzione, le cui scosse aveansi pure a sentire in lontanissime contrade. Nembi di armati, che rinnovavano la memoria delle antiche incursioni, inondan l’Europa tutta quanta. I novelli conquistatori sono inspirati dal bellicoso ardimento della vittoria. L’Italia è invasa: le legioni napolitane, che pugnato avean valorosamente ne’ campi di Tolone e di Lombardia, sono per imperizia o per imprudenza de’ capi, debellate; più agevolandone la rotta il numero prodigioso rispetto a’ nemici: Il popolo è costernato. La capitale città vien minacciata, un accordo si statuisce, la repubblica partenopea è proclamata; molti l’avean sulle labbra, secondo illustre scrittore, moltissimi nella testa, ma assi pochi nel cuore". Il 14 luglio del 1789 era scoppiata la rivoluzione francese che doveva sconvolgere l'intero assetto politico europeo. Con l'avvento di Napoleone Bonaparte al comando dell'armata d'Italia, a seguito delle sue folgoranti vittorie, in quasi tutta la penisola italiana furono create repubbliche ricalcate sul modello francese. Anche il regno di Napoli fu investito dall'esercito francese del generale Championnet e fu costituita ala Repubblica Napoletana, cui aderirono con entusiasmo i rappresentanti più illuminati della nobiltà e della borghesia. La Repubblica ebbe vita breve, ma conseguenze disastrose per la feroce repressione che ne seguì, che decapitò il Regno delle migliori intelligenze. Racconta il D'Ayala. Formavasi la Guardia Nazionale, ed invece di esser questa la forza del popolo, malamente credevasi poterne fare la forza dello stato. L’invidia e la gelosia de’ Francesi non permisero l’ordinamento delle nostre soldatesche, credendo a tutto bastare essi soli, per sempre rappresentar da padroni. Poscia ma con indugio, e poco giovandosi degli antichi soldati, venne componendosi la legione campana di fanteria, retta dal colonnello Agamennone Spanò, l’altra governata dallo Schipani dell’arme medesima, e quella di cavalleria obbediente a' cenni del Federici, uno de’ cui reggimenti era capitanato dal valoroso Ferdinando Pignatelli. E quasi nel tempo stesso ordinavasi la "Legione nazionale calabrese" per opera principalmente del prode Pasquale Salerno di Castrovillari. Alla quale si appartenevano quelle vittime illustri del forte di Vigliena, dove assai notevoli per ardire invitto furono il Sersale che colà comandava, Giuseppe Antonio Verardi dell’antica e nobil città di Taverna, ed Antonio Toscano. Medesimamente in questa calabra numerosa legione noverato l’ardentissimo giovane Luigi d'Aquino cosentino eletto capitano tostamente. Né si mostrò audace e valoroso sol quando eran favoreggiate le pubbliche faccende, anzi il coraggio crebbe e di valore allorché giù precipitavano in meno di cinque mesi i concepimenti e le speranze della parte pensante del paese. Epperò sostenendo insino alle ultime pruove il decoro nazionale, fu fatto alla fine prigioniere co’ tanti altri in Castel Sant’Elmo, non ostante l’articolo V della capitolazione, in cui leggonsi queste parole: "La guarnigione sarà imbarcata sopra la squadra inglese fintantoché saranno preparati i bastimenti necessari per trasportarla in Francia". E v’eran sottoscritti Mejan, il tenente generale duca della Salandra, Troubridge capitan di vascello comandante il Colloden e le milizie inglesi e portoghesi innanzi al castello, ed il capitano cavalier Belli preposto alle soldatesche della maestà dell’imperatore delle Russie. Ma al d’Aquino riusciva di fuggir via sotto la divisa di soldato francese, siccome poco innanzi co’ soldati di MacDonald eransi salvati e l’abate Salfi ed il medico catanzarese Giovanni Bianco. Recatosi quindi in Francia, il general Giuseppe Lecchi scrivevagli in Bourg il dì decimoquinto del mese de’ fiori (floréal) l’anno ottavo della rivoluzione di Francia. “Cittadino, io vi paleso che per decisione del generale in capo Berthier in in data del dì 12, approvata dal primo console della repubblica francese, il quale conferma l’ordinamento della italica legione, voi siete terminativamente nominato capitano. Saluto e fratellanza".Con l'esercito francese egli militò per circa un quinquennio fino al 1806, quando i francesi al comando del generale Damas riconquistarono il regno di Napoli nominando re il Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone. Il contingente napoletano scrisse pagine gloriose tanto che il celebre storico Carlo Botta scrisse che essi riuscirono in “imprese che paiono impossibili, e più a coloro che le hanno effettuate. Non le crederebbe la posterità se il secolo nostro, tanto abbondante raccontatore, non una ma cento testimonianze non fosse a tramandarne". "E quanto il vigore e l’animo di questi soldati italiani e del capitano Luigi d’Aquino, non è a dirsi a parole" scrive D'Ayala.
Il suo eroico comportamento era notato negli alti comandi, tanto che a seguito dell’ordinamento delle soldatesche cisalpine, "il ministro della guerra scriveva a d’Aquino essere stato nominato capitano di terza classe nella seconda mezza brigata di linea, le cui stanze erano a Como, governata da colonnello Lecchi". Nel 1806 Giuseppe Bonaparte si insedia sul trono di Napoli. "E senza andar ripetendo cose oramai risapute", scrive il D'Ayala, "conferito il trono di Ruggiero a Giuseppe Bonaparte con imperiale editto del dì 30 marzo, il capitano Luigi d’Aquino veniva dopo non guari di tempo addì 23 giugno eletto aiutante maggiore del primo reggimento delle fanterie napolitane di battaglia, innalzatovi a capo di battaglione al primo dì del mese di dicembre. E fu tanta la sua solerzia e la diligenza e la sollecitudine nell’ammaestramento di que’ giovani coscritti che nel maggio dell’anno seguente (1807) già il re passava a rassegna quel reggimento, dalla divisa bianca e da’ rivolti celesti; e sul batter di luglio già muoveva di Capua alla volta d’Italia e poscia delle Spagne". (continua)
(da "Le vite dei più celebri capitani e soldati napoletani dalla giornata di Bitonti fino a' giorni nostri" di Mariano D'Ayala, Napoli 1845)
Nel tessere io l'elogio del prode Luigi Antonio d'Aquino, morto in giovane età maresciallo di campo dell'esercito nostro, mi farò dapprima a ragionare di suo illustre casato, perché più gloria e prezzo ne venga alla virtù del suo ingegno, alla grandezza del cuore, al valor della mano. Né per questo mi perderò in troppe e lunghe e vane parole, bastandomi solamente far cenno di que' diligenti e antichi monografi delle nostre ricchissime Calabrie, i quali intorno a' d'Aquino lungamente discorrono. Il Barrio, innanzi tutti, queste parole (latine originariamente) detta nella celebrata sua opera - Della vetustà e del sito della Calabria. Di questa città (Belcastro) fu San Tommaso cognominato d'Aquino, esimio dottore, cenobita dell'ordine de' Predicatori, figliuolo di Landolfo, il quale tenea signoria su questa città e sulle terre vicine, e di Teodora. Né vien denominato Aquino, perché fosse Aquino la patria, ma perché questo è il nome della sua famiglia gentilizia. Co' fatti sussistono eziandio i d'Aquino in molti luoghi calabri, siccome Cosenza, Tropea ed altrove, ricchi uomini e nobilissimi; e fra altri vive a tempi nostri Cesare, parente al divo Tommaso. Laonde nel secolo XVI, l'anno 1571 che il Barrio pubblicava in Roma la sua pregiatissima istoria, era questa la universal sentenza. Senzaché in tutte quante le descrizioni o singole o generali delle provincie del reame di Napoli, sempre fra' cospicui casati cosentini leggesi questo de' d'Aquino insieme agli Abenanti, ai Barracca, a' Cavalcanti, a' Matera, a' Sersale, agli Spiriti, a' Tirella ed a molti altri ancora.
Così registraro nelle loro opere il Beltrano, il Mazzella, il Costo, il Rossi, il Campanile, il Sanbiasi, l'Altimari ed il Fiore. Ma più antichi monumenti si hanno di questa illustre prosapia cosentina; perocché ne' nostri Archivi diplomatici solenne scrittura conservasi dell'anno 1307 il dì 18 del mese di novembre, la settima indizione, nella quale Roberto Duca di Calabria e general vicario del regno di Sicilia commette ad Adenulfo de Aquino giustiziero in val di Crati, intimo consigliere e devoto suo, un importante negozio. Ed avvene un'altra ancora indirizzata da re Ladislao nell'anno 1407 ad Andrea de Aquino da Cosenza fedele e consigliero nostro diletto.
Pure lasciando dall'un de' lati le antiche pergamene, piacemi più a tempi vicini discendere, cioè nel 1677 fra Giuseppe de Aquino si avea la commenda denominata di Tancredi nell'ordine augusto gerosolimitano di Malta, nel quale esercitò eziandio l'officio di capitan d'arme a guerra, siccome era la forma del dire, nella Lingua italica. E fratello di lui fu Marino, onde venne Carmine; e questi il quale generò Tommaso, disposata la nobil donna Isabella Mangone, n'ebbe nel giugno dell'anno 1771 secondo figliuolo Luigi.
Dopo il
ritorno dei Borboni riorganizzò l'esercito
Valoroso combattente al fianco di Murat, partecipò alla repressione dei moti
carbonari del 1821
La Spagna si registrò una rivolta antifrancese che diede vita a una guerra terribile sanguinosa. Due battaglioni napoletani furono inviati a sostegno delle truppe francesi, mentre sul trono di Napoli di insediava Gioacchino Murat.
"Colà, quasi in sull’arrivo, valicati i Pirenei e battuto il sentiero per Figueras Girona e Matarò, due battaglioni del primo nostro reggimento, uno de’ quali comandato dal d’Aquino entrano insieme con uno squadrone di cavalli nella cittadella di Barcellona, cacciandone via i reggimenti valloni che la presidiavano; quando il supremo capitano di quella divisione Giuseppe Lecchi, avea contemporaneamente comandato ad un battaglione del quinto reggimento italiano l’assalto del forte Montjovi il quale è torreggiante sopra la montagna, daddove prende quel nome spagnuolo, monte di Giove in italiano, ed ha poche opere forti che lo possano ragguagliare per aspri siti e naturale importanza. E ne contrastò il possesso lungamente il bravo Emmanuele Alvarez cui pur fu tolto di forza alla fine; tramutandosene il governo nelle mani del colonnello del reggimento napolitano".
Allora lo stendardo della rivoluzione è fieramente inalberato dagl’Insubri, e primi corronvi forsennati gli abitanti di Manresa, i quali rivocarono alla memoria i tempi di Filippo V. Per la qual cosa Duhesme, cui era fidato quell’esercito di osservazione su’ Pirenei orientali comanda: il generale Chabran muovere con la sua divisione su Tarragona, e la brigata Schouartz dirizzasi appunto verso la sovraindicata parte catalana.
E colà i due battaglioni nostri diedero chiaro a vedere di che sono capaci i napoletani sotto buone regole, ed aggiungi che non era il fiore della soldatesca, poi che venne astrettamente coscritta da' cittadini meno reputati e non dagli uomini camperecci, né dagli artifici. Il generale supremo dettava, fra tante lodi de' nostri, queste parole in un suo ragguaglio: “e d'Aquino e d'Ambrosio sonosi coperti di gloria per il loro coraggio ed intelligenza”. E la maestà del re, lieto di simiglianti nomini di guerra, creava sotto il dì 9 del mese di novembre cavalieri dell'ordine reale delle due Sicilie tutti gli uffiziali superiori che militavan nelle Spagne; sicché il gran Cancelliere dell'ordine e grand'Aquila della legion d'onore principe di Bisignano con lettera del 12 ne mandava al d'Aquino la decorazione e l'avviso.
Molti furono gli episodi che misero in luce l'ardore e la capacità di combattere dei napoletani, in particolare il D'Ayala narra l'assedio di Girona “al batter di giugno, e qui ben altro spazio vi vorrebbe ed altro scrittore per bene narrare l'impeto con cui le compagnie scelte napolitane guidata dal capo battaglione Macedonio Casella si fecero a montar la breccia, comechè vi trovassero un trinceramento munito protetto, contando trentasette morti ed altrettanti feriti: fra' primi il prode aiutante maggiore de Dominicis ed il sotto tenente de Crescenzi; fra' secondi il capo battaglione intrepido Palma, i capitani Giannettini, Forni, e Pepe, ed i tenenti Nini, Scarpelli e du Marteau. Nè il valore e la gagliardia del d'Aquino rimase senza un premio; perocchè per brevetto del dì 28 agosto veniva innalzato a maggiore del sopradetto corpo, cioè tenente colonnello delle presenti nostri ordinanze. E poiché le malattie e i disagi della guerra avean posto la divisione del generale bresciano fuori ogni possibilità di continuare a travagliarsi, anche i soldati del reggimento napolitano, cui si apparteneva Luigi, trassero a Roses il dì 25 settembre, avendo colà lasciato il nome di Francesi d'Italia per l'ardore con cui sapevan essi pugnare”. L'accostamento ai francesi era un grandissimo complimento poiché in quel momento i francesi erano considerati i migliori combattenti d'Europa, che sotto il comando di Napoleone avevano sconfitto tutte le armate europee. Luigi d'Aquino rimase in Spagna per circa due anni e poi venne richiamato in patria da Murat.
“Compostosi con legge del dì 22 settembre 1808 il reggimento de' veliti cacciatori della guardia regia, e volendo viemeglio guiderdonare il d'Aquino delle più illustri fatiche e delle glorie, in data del d' 2 marzo 1810 era tramutato con lo stesso grado nel sopraddetto reggimento governato dal colonnello Laroque. E richiamato qui in Napoli tostamente dalle Spagne, ei vi giungeva appunto in quel tempo che le soldatesche eran mosse quasi tutte quante verso il campo del Piale nell'ultima Calabria. Poco tempo discorso, eragli affidato siccome colonnello, il comando del secondo reggimento delle fanterie denominato Regina, e addì 11 marzo dell'anno appresso, cioè 1811, il conte di Mosbourg ministro del pubblico erario gli palesava con ilarità, avergli il re concesso e titolo di barone e dote in rustici, che alla somma giugnesse di 25 mila seicento quaranta ducati. Così resta sicuro un prode soldato, che la sua vecchia età, se mai il nemico ferro ne rispettasse la vita ne' campi, non ha a discorrer fra' disagi e gli stenti e le strettezze.
La su permanenza nel Regno non durò a lungo, poiché fu chiamato a combattere insieme a Murat nella nuova campagna di guerra scatenata da Napoleone che si concluse con la disastrosa disfatta di Lipsia.
La battaglia di Lipsia, una delle più feroci e sanguinose abbian mai combattuto le moderne milizie, menò a rovina l'esercito francese, che vi perdette nientemeno che i seicento fra mille. Ritornava in Francia Napoleone per riparare dietro il Reno, ed il cognato, vedendo vacillar sul suo capo la corona, lasciava i campi delle pugne e nell'agone entrava de' politici avvolgimenti, fermando triegua dapprima e colleganza poscia coll'Austria. Ei stesso va capitanando l'esercito in quella guerra del 1814, onde furon parte quattro nostre divisioni: la prima sotto i cenni del Carrascosa, sotto quelli dell'Ambrosio la seconda, la terza del principe di Strongoli, e di Lecchi la quarta. Fu breve questa campale stagione, ma gloriosa pe' soldati napoletani, massime ne' fatti di Rubiera, Reggio e Guastalla, non che alle sponde del Tanaro. E Luigi d'Aquino, già innalzato a maresciallo di campo in quell'ora, valorosamente guidava la prima brigata della legion seconda; meritando con decreto del dì primo novembre la medaglia d'onore, “la quale”, dettata il rescritto, “sarà un attestato innanzi a tutta la nazione della real soddisfazione, e della stima che fa la maestà sua de' sentimenti di ONORE e FEDELTÀ che la distinguono”.
Anche sul fronte italiano le armate francesi in cui combatteva orgogliosamente Murat si volsero al peggio, tanto da subire una pesante sconfitto ad Occhiobello costringendolo a sottoscrivere una pace separata con gli austriaci nella speranza di poter dissociare il suo destino da quello del suo illustre cognato e mantenere il regno.
In quel momento di grande confusione Luigi d'Aquino fu accusato di insubordinazione per non aver eseguito gli ordini che gli venivano impartiti.
Secondo il racconto del D'Ayala, che lo difende strenuamente dall'infamante accusa. “Tentato ch'ebbe sempre Luigi le vie di vincere o di morire, avea pur finalmente ad ecclissarsi per malignità di casi, ma non al certo per mancamento d'animo o di militar religione. Ed io geloso ricercator di verità, deggio esser dolentissimo di queste parole, che una letterai di Gioacchimo smentirà – “Il generale d'Aquino, che dopo la ferita del prode in guerra general d'Ambrosio, guidava la seconda legione, diffidando della impresa, o contumace per indole, disobbediva al comando di avanzare e suoi reggimenti, sino a che minacciato ubbidì”.
Ma il re che minacciavalo il dì 3, poteva il dì 5 scrivergli a Porto di fermo: “Io ho saputo da lunga pezza penetrare il fondo de' vostri cuori, io li ho trovato pieni di onore e di patriottismo, e mi spero che l'esercito continuerà a meritare questa bella divisa: onore e lealtà senza macchia”.
Ad accusarlo era il generale Lecchi, al quale Luigi d'Aquino aveva dichiarato che sarebbe stato opportuno per Murat di raggiungere Napoleone e seguirne le sorti. “Se lieta in viso sorriderà a colui la fortuna, chi impedirà a Gioacchino di qui tornare novellamente a prender le redini per poco d'ora abbandonate dello imperio; e se avversa poi si volesse a quello dimostrare, sarà pur forza ch'egli alla fatale sentenza con noi modestamente si sobbarchi”.
Dunque, rispondeva quel tristanzuolo del bresciano, mutato d'animo col mutar d'anni e di fortuna, consigliereste voi una abdicazione, o generale? … E sì dicendo, animava di sprone il cavallo, al re traeva difilatamente, e con quell'invidia che prende color di zelo, e va scusando sotto il titolo della sincerità la calunnia e la frode, affannoso parlavagli:
Tutto è perduto: il mal seme è penetrato insino a' generali: ecco il parlar di d'Aquino. - E bollente quegli d'irrefrenabile sdegno, incontro a quel capitano si precipita a corsa, e con invettive men che regie il vilipende aspramente, prigione mandandolo nella fortezza di Pescara, perché giudicato poscia venisse da competente tribunale di guerra. Gran danno per Luigi, che tristissime conseguenze ne derivarono: ché se gli affari pigliato avessero aspetto di letizia, innocentissimo dichiarato lo avrebbe la militare sentenza, né la viltà di alcuni o la malvagità di altri si sarebbe giovata di queste meno occulte per richiamare almanco su altro subietto l'universale intento, non altrimenti che per rendere armonica la sua tela, abbassa di tinte il pittor sapiente alcune delle sue cento figure.
Il tribunale militare presieduto dal capo della Stato maggiore Millet, il quale “coll'impeto ond'era animato ne' campi dell'Egitto accanto al suo generale Verdier, protegge e difende con sicurezza la immeritata sventura di Luigi” lo assolve dall'accusa di alto tradimento e gli affida il compito di muoversi verso Popoli in prima e quindi per Chieti. Ed il generale Carrascosa in Capua subitamente il chiama per metter nella mani di lui qualche comando, bene persuaso della verità e della buona fede di quel discorso, tuttochè fuori proposito ed imprudente anzi che no.
Gli eventi precipitarono. A Napoli tornarono i Borboni e Murat fu fucilato a Pizzo Calabro nel suo tentativo di riconquistare il regno con un manipolo di fedeli.
I Borboni avevano l'urgenza di ricostituire le istituzioni e in particolare l'esercito. “Ed egli, che non avea forse l'uguale nell'esercito per saper comporre nuove milizie, sì per sottilissima diligenza di tutt'i particolari di una amministrazione, e sì ancora per severità di disciplina e per quel cemento ond'un tutto abbisogna, quanto sono cotante le parti, componeva in Ischia il reggimento Farnese, e tutti gli altri a mano medesimamente ridusse; sicchè l'era malagevol riconoscere la nuova cerna dal veterano agguerrito.
Poi l'anno succedente sotto la data 20 settembre era chiamato a comandar la brigata composta de' reggimenti real Palermo, terzo e quarto delle fanterie leggiere, la quale era deputata a presidiare la quinta divisione territoriale, cioè le tre Calabrie, cui il tenente generale Nunziante governava. Colà indefesso soldato non sostò giammai da' suoi fastidiosi servigi, tanto più che eragli alquanto di peso la civil comunanza, dopo un caso sì acerbo della sua vita, nutrita dell'onore degli avi, illustrata del valore delle armi, e come se chiusa già fosse con una apposta macchia ond'egli avrebbe sempre rifuggito con ispavento.
Ma il rettore supremo dell'esercito bene volse in sua mente di far rimodellare alle armi tutti quanti i reggimenti napoletani per opera dell'Aquino, il quale aveasi maravigliosamente l'arte di rendere istrutta e disciplinata una soldatesca, il cui insieme era ancor quello di mal connessa moltitudine. Per la qual cosa venia chiamata in Gaeta a timoneggiare le milizie colà a mano a mano raccolte, cui quel desiderato ligamento insertava”.
Allo scoppio della rivoluzione del 1821 tutti si aspettavano che il vecchio soldato murattiano si schierasse dalla parte dei rivoltosi appoggiando la richiesta della concessione della costituzione.
“E soldato severo, non ei permise giammai che la potenza vigoreggiante delle conventicole vinto l'avesse sul nerbo dalla militar disciplina; talchè all'annunzio del reggimento costituzionale, non agli slanci diè luogo di fantasia e di disordine, ma in rigida festa armigera facevasi nobilmente a promulgare la spontanea volontà del Sovrano. Nè egli, adusato alle mutazioni politiche, e persuaso che sempre i fatti sottostanno alle idee, s'illuse giammai su que' vani conati e sulla condizione del paese, la quale non poteva consigliatamente in quel punto discordare dall'universal desiderio de' più potenti; chè se la Spagna, alquanto più maturata e forte, meglio pareva resistere, non era speranza di saldo duratura ordin di cose. Amicissimo poi e fra' più venerati di Gugliemo Pepe, non ambì Luigi di ascendere all'altro offizio del generalato, e s'ebbe invece il governo delle armi or in una ed ora in altra provincia”.
Guardato con sospetto dai Borboni, tradì le attese dei liberali. “Alla nona luna cessati intempestivamente que' moti, in Napoli se ne tornava il maresciallo d'Aquino”. Il suo corpo era ormai stremato da una vita troppo severamente vissuta, con i suoi sedici anni passati sui campi di battaglia di tutta l'Europa.
Morì subito dopo la conclusione dei moti, e non gli furono tributati gli onori militari riservati al suo grado.
Conclude Mariano D'Ayala. “Luigi d'Aquino mantenne sempre la dignità del proprio grado, distinguendo l'umiltà e la modestia della rimessione dell'animo e dalla bassezza. Fu franco e veritiero innanzi del principe e de' potentissimi, e dall'ossequio che loro rendevano rimosse maisempre ogni sembiante di timore di viltà di adulazione, abborrendo que' felloni ed ipocriti che si mostran sviscerati della persona adulata e ne travolgono il senno nativo”.
(Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, 1797)
Lorenzo Giustiniani, curatore di una delle più accurate descrizioni storico-geografiche del Regno di Napoli, alla voce Belcastro, smentisce categoricamente che sia la patria di S. Tommaso d'Aquino.
"Belcastro, città vescovile in provincia di Calabria Ultra suffraganea di Santaseverina. Vedesi edificata nelle falde degli Appennini, parte sopra un monte, e parte in pianura, distante dal mare miglia 8, da Cropano 4, e da Catanzaro 24. Non entro a parlare della sua antichità o su quali rovine fosse surta, perché le credo immaginazioni de' nostri scrittori, volendo alcuni che fosse l'antica Petilia ed altri che fosse stata l'antica Chona, e più ridicolo è il dire, che preso avesse il nome da Castore e Polluce, scrivendo l'Ughelli: Belcastrum sive Geneocastrum mediterranea est ulterioris Calabriae civitas a templo Castoris et Pollucis nuncupata". Ecco le false tradizioni del volgo adottate dagli scrittori per sempreppiù involgere la verità in una caligine tale da non più rinvenirla. ...
Il Barrio, il Zavarroni, ed altri scrittori calabresi, la vogliono padria di S. Tommaso d'Aquino: ma è certamente un loro delirio nel volere troppo estendere la loro Calabria, e nel volersi appropriare quasi tutti i più degni uomini del rimanente Regno di Napoli, a cagione di una φιλοπατρια (filopatria) molto condannabile.
Luigi d'Aquino di Mariano D'Ayala
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