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Mezzoeuro

L'abate Giovanni Conia e la questione della lingua calabrese

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XII num. 9 del 2/3/2013


Rende, 27/2/2013


Poeta dialettale dell'Ottocento

Difese strenuamente il calabrese come una lingua dalle grandi capacità espressive, aveva destato l'attenzione di Cesare Lombroso che ne esaltava le sue capacità di rappresentare in toni vivaci i quadri tipici della vita calabrese

L'abate Giovanni Conia è un poeta dialettale dimenticato di fine ottocento. Come tanti altri autori di quell'epoca o antecedente, le notizie biografiche sono molto scarse e frammentarie. e molto simili tra di loro. Di famiglia contadina con una discreta agiatezza che gli consente di poter frequentare il seminario, completa la sua formazione a Napoli, si reca a Roma per poi ritornare ala traquillità del suo paesello. La scelta religiosa è quasi obbligata per chi vuole affrancarsi dalla miseria materiale e dalla servitù baronale. Il seminario è un luogo di formazione e di avanzamento sociale, poiché l'abito talare consente di poter entrare nel novero dei "galantuomi" e costituisce un sistema sicuro di salire qualche gradino nella scala sociale per tutta la famiglia. L'analfabetismo era una piaga endemica dei paesi calabresi che colpiva tutta la popolazione fatta eccezione per gli ecclesiastici e i nobili che potevano permettersi istitutori privati. È evidente che la scelta del talare molto spesso non era dettata da sincera vocazione religiosa, ma da costituiva un investimento per l'intera famiglia, poichè consentiva la formazione dello sparuto numero di intellettuali presenti in ciascun paese. La produzione letteraria era prevalentemente di carattere religioso, ma negli autori si mostrava spesso una vena libertina, una licenziosità come avviene in autori come Domenico Piro (Duannu Pantu).

Abate ConiaLe poche notizie sono fornite dall'Accattatis, nel Dizionario del dialetto calabrese, e riprese da Mario Mandalari, in Anecdotica di storia, bibliografia e critica (Catania Tipografia Francesco Galati, 1895) pubblicati alla fine dell'Ottocento.

"L'abate Giovanni Conia nacque in Galatro nell'anno 1752. Si addisse ben presto alla carriera ecclesiastica: il dì 4 novembre 1793 entrò nel possesso della chiesa parrocchiale di Caridà; nel 1797 ottenne l'erezione di quella parrocchia a chiesa ricettizia, rinunziando poi a quella cura delle anime nel dì 1 novembre 1799, perchè promosso al governo della chiesa parrocchiale di Zungri. Pare che da questa chiesa sia passato alla chiesa di Laureana di Borrello col titolo di Arciprete; quindi fu canonico Arciprete della cattedrale di Mileto e Rettore, Professsore di Teologia in quel Seminario diocesano. Dopo la morte di Monsignor Enrico Capece-Minutolo, che fu Vescovo di Mileto dagli 11 luglio 1791 'a 6 maggio 1824, il Canonico Conia fu incardinato alla diocesi di Oppido Mamertino, ed ebbe quivi successivamente gli ufizi di Rettore e Professore di Teologia dommatica in quel Seminario, e le dignità eccelsiastiche di Canonico Protonotario, tesoriere e Cantore della Cattedrale. Morì nella città di Oppido, a' 7 febbraio 1839, della età di anni 87" scrive il Mandalari.

"Molte sono le questioni sollevate dalle incerte notizie che si hanno intorno alla sua vita. Conia, invitato a Roma dai superiori e nominato predicatore apostolico così da poter parlare in presenza del Papa nella Cappella Sistina, preferì tornare nella sua diletta Galatro. Fu successivamente parroco di Caridà; ebbe il governo della chiesa di Zungri; fu arciprete della chiesa di Santa Maria degli Angeli e di San Giorgio taumaturgo a Laureana di Borrello e nel mese di maggio del 1826 entrò nel capitolo di Oppido.

Grazie ai suoi meriti di teologo, di oratore, di umanista, il venerabile abate fu chiamato a far parte dell'Accademia Florimontana di Monteleone, e il principe Filangelo Vibonese, al secolo Don Raffaele Potenza, che ne era il fondatore, lo accolse col nome di Floribo Elidonio".

Fu Gabriele Barrio trattò per primo la questione linguistica: "I calabri nel loro vernacolo si servono del latino, che impararono dai latini lì mandati dal Senato, sebbene conservino ancora molti vocaboli greci e vi siano com'è detto, alcune città greche e villaggi greci. E, oltre che di quei vocaboli latini, che ora sono comuni a tutta l'Italia, i Calabri si servono di molti altri, che non sono in uso in nessun altro luogo, per quello che ne so, fatta eccezione del Lazio. Perciò se il fiorentino Boccaccio avesse conosciuto bene il latino e il greco, non avrebbe mai detto che i Calabri parlano teutonico, e avrebbe saputo che i suoi Tusci, pessimamente fra tutti gli Itali, impiegano male la lingua latina, e parlano da semibarbari."

GalatroL'abate Conia elevò il calabrese al rango di lingua e si pose il problema del suo rapporto con l'italiano. Egli prendeva il dialetto reggino come espressione dell'intera regione, dimenticando la grande varietà locali che formano un insieme linguistico numerose e molto ben differenziato tale da far identificare centinaia di parlate diverse.

Una condizione nota già a Dante. "La sola Italia appare dunque differenziata in almeno quattordici volgari", scriveva l'Alighieri nel "De vulgari eloquentia". "Ora, anche questi volgari variano a loro volta (come, per esempio, i Senesi e gli Aretini in Toscana, i Ferraresi e i Piacentini in Lombardia); abbiamo inoltre notato che nella stessa città esiste un certo mutamento, come si è stabilito nel capitolo precedente. Pertanto, se volessimo contare le prime, seconde e ulteriori variazioni del volgare d’Italia, anche in questo piccolissimo angolo del mondo ci toccherebbe di giungere non solo a mille, ma anche a un numero maggiore di varietà linguistiche". Egli accenna solo fugacemente al dialetto calabro solo per affermare che è diverso dagli altri.

"Per prima cosa gl'interessò dimostrare che il dialetto calabrese non era un gergo, ma una lingua, e, in quanto tale, capace di appropriarsi di tutta la realtà" afferma Pasquino Crupi. Lo stesso Conia scrive nella lettera dedicatoria a Nicola Santangelo, ministro degli affari interni del Regno delle Due Sicilie, ... (Napoli 1834): La lingua calabra è pure una lingua tra le altre, e raggiunge quel fine che le altre raggiungono, cioè i comunicare ad altri pensieri, e forse con migliore successo delle altre ... Chiunque conosce la lingua calabra resta convinto ch'ella dalle molte lingue, donde deriva trasse non solo una forza maravigliosa nelle espressioni, ma quelle veneri ancora, delle quali è tanto ricca. Chi la conosce non ride a quest'assertiva. Non è essa inferiore alle lingue cosentina, e siciliana, anzi forse più dolce".

Alla fine dell'Ottocento la questione della lingua era molto sentita, poiché dopo l'Unità vi era l'esigenza di trovare una lingua unica che non si utilizzasse solo tra la componente colta della popolazione: circa il 90% della popolazione era analfabeta e si esprimeva solo in dialetto, pressocchè incomprensibile al di fuori dell'area in cui era diffuso.

L'uso generalizzato del dialetto era un ostacolo alla unificazione e questo aveva provocato una forte spinta a una politica di abbandone dei dialetti con la proibizione di introdurre autori dialettali nelle scuole.

"E l'Ottocento dialettale ha lo spessore di una forte denuncia non remissiva sul mancato appuntamento del Risorgimento con i problemi del Sud e della Calabria. Questo tema smuove la letteratura dialettale dai suoi abiti di domestica frequentazione con la cultura folkloristica e le dà uno slancio e uno sguardo di respiro nazionale. Nè solo: nell'Ottocento la poesia dialettale si converte in poesia popolare. È un fatto d'indubbia importanza, sol che si ponga mente alla questione che il poeta dialettale, quasi sempre di estrazione popolare, non ha llbertà di pensiero, non ha libertà di parola, il suo pensiero e la sua parola sono coatti. In questo contesto, invece, si tratta di un letterato che si prende delle licenze non sempre concesse alla poesia dialettale", afferma Pasquino Crupi.

Cesare Lombroso nel suo resoconto di viaggio "Tre mesi in Calabria", scrive che "Perciò credo prezzo dell'opera di trascrivere, prima che la tanto sospirata stregua dell'Unità giunga a cancellare queste ultime e preziose vestigia dell'Ellenismo", in riferimento alle comunità grecaniche del reggino, ma si erge anche a paladino del dialetto. Secondo quanto scrivono Tobia Cornacchiolo e Giuseppe Spadafora per Lombroso il folklore (che comprendeva anche il linguaggio) "altro non sarebbe che attestazione dell'inferiorità, dell'arcaicità, dell'arretratezza, del carattere superstizioso e delittuoso delle popolazioni". Un giudizio forse eccessivamente severo.

Mario Mandalari, infatti, dà una rappresentazione molto diversa della posizione di Lombroso. "I pochi conoscitori de' nostri dialetti meridionali, se pure hanno veduto qualche verso di questo poeta dialettale reggino, lo hanno letto di seconda mano", scrive Mandalari. "Credo sia questa la ragione, per la quale egli da pochissimi sia stato ricordato. Primo, fra tutti, il Dott. Cesare Lombroso, che per "mostrare l'eccellenza di quel dialetto (calabrese) e l'arte de' suoi poeti", trascrisse alcuni versi del Conia ne' quali a lui parve di riconoscere "stupenda e vera poesia, e tanto più che riassume la storia ed i pregi del calabrese vernacolo".

"L'abate Conia (non Gonia) apre una cantilena, ovvero tenzone, tra due lingue, italiana e calabrese, le quali mettono avanti i loro pregi e discutono, senza modestia e con molta disinvoltura, intorno alla loro importanza e nobiltà. La lingua calabrese (si noti, ch'è lingua, non dialetto) non pare che assuma, come pure essa promette ed afferma, l'aria d'una buona figliola, ma risponde talvolta con insolenza grande. La lingua italiana dice, tra le altre cose":

"... non s'intendono
Tra loro i Calabresi:
Li detti sono intesi
Come ciascun vorrà

Quindi una Babilonia
Risulta ne' trattati,
E restano ingannati
Per tante varietà.

Si arrivano a confondere
Con pratiche sì oscure
Li pesi e le misure
In ogni società.

E pure una sì garrula
Lingua di confusione
Avrà la presunzione
Di preferirsi a me?

Appello a chi ha buon senso,
Non soffro un tant'oltraggio;
Renda giustizia il saggio
Al mio violato onor.

"La lingua calabrese risponde con impeto":

"Mali di tia non dissi,
A mia dassami stari:
Non mi stari a ffrusciari
Cchiju accuntu.(2)

Eu sempri l'accittai,
Ca si mmegghiu di mia;
Non tanta protaria (3)

Mu mi sbrigogni.

Di tia ndi fazzu stima:
Mandu li me' cotrari (4)

D'Italia pe' mparari
Lu linguaggiu.

"Ma siffatto giusto sentimento di rispetto non inspira al poeta disprezzo e biasimo verso la propria lingua. Egli abilmente, per vincere nella disputa, confonde la lingua con lo stile; l'origine delle varie parole con l'uso forse soverchio delle figure e de' tropi; dice alla lingua italiana:"

" ... tu si lu pastizzu
Ed eu cipuja.

E giacchì ncarrognasti
Pigghiandula pe' mprisa;
Mi 'ncumbi la difisa, (5)

Senti e trema.

Sai pecchi piacciu a ttutti?
Si siccanu di tia; (6)

E ccui si vota a mmia
Pigghia rrispiru.

Tu scarsi l'eleganzia,
Ti voi mettiri l'ali;
Eu parru naturali
E dugnu gustu.

Mu dici nu pinzeru,
Ti voti a li figuri;
E ffai li cosi scuri
Pe' ppiaciri.

Chistu per la metafora,
Chiju ppe lligoria,
E mmala pasca a ttia
No lu dicisti? (7)

Lu vì, ca non si ntisa!
Lu vì, ca non si sperta?
Eu parru a vvucca aperta,
E su aggraduta.

"E segue su questo tono, affermando che tutte le parole della lingua calabrese hanno radice in tante lingue differenti. In Calabria, secondo il Poeta, lasciarono traccia profonda Greci, Saraceni, Normanni, Tedeschi, Francesi, Inglesi, Moscoviti, Polacchi e Cosacchi; ed anche (pare impossibile):"

"... Nci furu li Rromani,
chi nun ficiru pani
A chistu celu.

---

Di tutti chisti lingui
Mi ndi piagghiai na picca (8)

Vidi quantu su ricca
Di paroli.

L'importanza letteraria di questi versi e la freschezza e schiettezza singolare della forma, non poteva non richiamare l'attenzione de' dialettologhi, ed Astorre Pellegrini appunto li trascrisse, notando che "il poeta sapeva di storia e di lettere".

Cattedrale di MiletoPerò lo storiografo di Oppido Mamertina, Candido Zerbi, parla del Conia, solo in una noterella, quasi per incidente, e per lodare esclusivamente il Vescovo di quella città, Mons. Francesco Maria Coppola, nato in Nicotera nel 1772. "Costui - scrive lo Zerbi, "oratore valente e precettore in dommatica e canonica dottissimo, sarebbe stato, a pieno merito illustre, se negli anni suoi non avesse dato fuori un suo libercolo di poesie da mugnai in dialetto calabro, alquanto giocose, ma punto bernesche nè dilettevoli, per difetto di vivezze mordaci ed equivoche alla perfetta moralità del loro autore repugnanti" .

"Il giudizio, come si vede, non è punto benevolo ed anche ingiusto. Il Conia nulla scrisse che potesse offendere anche lontanemante la morale. Ne' suoi versi spira tale freschezza poetica e tale ingenuità, che la lettura d'essi, anche fuggevole, rende, in ogni lettore, pure l'immagine del poeta popolare. Ma se cosa contro la morale ci fosse, potrebbero veramente questi versi apprtenere agli ultimi anni della vita del loro Autore, come pare che affermi lo Zerbi? Lo stesso Conia dice di sè stesso":

Ma (diantani) eu nci curpu;
Eu chi nno maparu mai;
Su vecchiu, e nno mapari
Di mbrogghi e mundu.

Ah ca vorria mparari:
Ma mo' chi mparu cchiù?

Cu cu, cu cu, cu cu,
Dissi lu cuccu.

Addunca è llibaratu;
Non aiu cchiu chi ffari;
E aiu voli mbrugghiari,
Gabba a mmia.

"I primi monumenti d'ogni letteratura ebbero, pur troppo, sempre l'indifferenza, se non il disprezzo, de' contemporanei. Chi è abituato per lunga consuetudine a vedere il pensiero degli altri solo ne' grandi e grossi libri, non bada punto alla parte, che prende il popolo, nello svolgimento delle forme d'arte, e non riconosce altre bellezze poetiche se non quelle, che si notano facilmente nelle forme d'arte riconosciute ed applaudite; non può badare, nè punto nè poco, costui, alle bellezze delle parlate popolari. Ed è in conseguenza giudice sospetto. Lo Zerbi, poi, era contemporaneo. E bisogna, inoltre, badare che gli stessi antichi più grandi scrittori dubitano del volgare; non si affidano al volgare, se non dopo lungo e tormentoso combattimento interiore. Pare vogliano farsi perdonare dai contemporanei la nuova forma d'arte. E fu per questo, forse, che Dante attribuì la nuova forma all'amore; ed il Petrarca, mentre crede d'essere veramente grande poeta, perché autore dell'Affrica, chiama i versi scritti in lode di Madonna Laura, "nugae", i quali poi, com'è noto, gli hanno dato l'immortalità".

Cesare LombrosoUn altro autore di storica calabra municipale, Mons. Domenico Taccone-Gallucci, non pare anche lui inspirato da grande simpatia per il nostro Poeta. Di lui dà poche informazioni, quando avrebbe potuto darne molte. Del Conia dice solamente che fu "un oratore ben conosciuto". E poco appresso aggiunge: "l'Arciprete Giovanni Conia fu uno degli elettori del Vicario Capitolare della Diocesi di Mileto (11 maggio 1824". Ricorda, è vero, opportunamente gli uomini illustri d'ogni parrochia della vasta diocesi. E parla, a proposito, di Galatro, vicariato di Laureana di Borrello, posta sul fiume Metramo "lodata, come patria di uomini illustri, da Barrio, Marafioti, Fiore, Aceti"; ma del Conia, che quivi nacque, nessuna parola, che valga a richiamare l'attenzione de' lettori sopra il più schietto e affascinante poeta volgare della Calabria reggina.

"Oggi, com'è noto, la letteratura nazionale dove molto allo studio dei vari dialetti, che arricchiscono quotidianamente la lingua, e rendono disinvolto, più acconcio alla viva espressione del pensiero moderno, lo stile. Mentre la lingua aulica e nobile si diffonde e s'impone anche tra i popoli grecanici, albanesi, slavi etc. delle nostre regioni italiche, e la lingua plebea si spegne, o si trasforma, lasciando traccia notevole di sé stessa nelle forme e nelle locuzioni superstiti, lo studio delle forme popolrari, veramente popolari, è importante; ed è anche più importante lo studio delle tradizioni popolari, degli usi, de' costumi, di tutte le forme che hanno manifestato la vita e il pensiero d'un popolo che si trasforma: vengono fuori notizie storiche, antropologiche, etnografiche non vedute prima, punto osservate, o notate dagli scrittori. La lotta tra il volgare e il nazionale è assai viva e forte, in Calabria. Prima che la lingua nazionale vinca e s'imponga definitivamente, importante riesce lo studio delle forme e delle tradizioni popolari calabresi".

Il dialetto è stato, però, cacciato violentemente dalle scuole, dalle accademie e confinato negli strati più bassi della popolazione come espressione linguistica volgare. La grande fioritura di cultori, studiosi, scrittori e poeti dialettali numerosi fino alla fine dell'Ottocento è andata appassendo e il dialetto ha perso molto della sua freschezza e ricchezza lessicale che non si arresta neanche di fronte al ritrovato entusiamo degli studiosi che non riescono tuttavia a contrastarne il declino.

Documento

Luigi Accattatis, Ai primordi e delle vicende del dialetto calabrese (estratto dall'Appendice I del Vocabolario del dialetto calabrese, Cosenza 15 genn. 1895 reprint Pellegrini Editore, Cosenza 1977)


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