Or fiero or mite egli si lagna, e al canto
Tutta del cor larga vi affligge e chiara
L'immagine, cui anima una possa,
Un carattere austero; e nel rigore
D'un grave severissimo Egli è grato
E' piacevole ancor; ammalia, vince
Come del melograno il colorito
L'amaredia contrasta del suo frutto
Acerbo ancor: Si l'anima traspare
D'un greco, a cui fu l'Itala contrada
Temperata, serena, e di salubre
Clima miglior, la Calabra regione
Pietosa albergatrice. Egli mi à scorto:
Ecco si avvanza: oh! quale ardito passo
Ei pensa dar? Dall'alto al sottoposto
Bosco precipitarsi, ei par che accenni?
Che gran periglio! Vediam: Dall'alto
Della rupe librossi a piombo, e cadde
Sul bosco sottostante, e strepitoso
Romor emise, somigliante in parte
Al tonfo, che fa l'acqua di laguna,
Quando su lei precipita di vasta
Mole gran legno, o pietra, od altro grave.
Ei sparve: e un romoreggio udiasi al bosco
Fronzuto e folto, come se col grifo
Cinghial velloso il lacerasse. E al vecchio
Delle frasche il rombazzo, e 'l crepitio
Come di forte lin, cui forte straccia
Irresistibil mano e violenta,
Più s'appressava. Al fin comparve
un forte
Garzon di brevi baffi, e largo e bruno
Di fronte, il capi avea corvino, il naso
Profilato e ricurvo alquanto, il labbro
Vermiglio, e l'occhio lucido; ma tale
Che ardito entro spiarvi non avria
Chiunque fosse, o sostenerne il guardo
Adirato, fulmineo!…Nella destra
Stringe lo schioppo, e gli pendea dal cinto
Lo stile: Nell'aspetto ei par t'imponga
Terror, e faccia preveggente il core,
Che la voce risponda al truce ammanto
E giunto: Il prigionier lo affisa, e sente
Un insolito palpito: Un istante
Si guardan ambo attoniti, sospesi,
Silenti, pensierosi. Fatto poi
Coraggio il vecchio parla: Di', che chiedi,
Che attendi, giovinetto di grand'alma,
Cui nella fronte ancor l'ardua speranza
Si affaccia e par svelasse del profondo
Cuor le tendenze, e desiderî, e voglie
Violenti e miti e di null'esser paghe?
E il giovanetto a lui. N'hai donde, o veglio,
Straniero pellegrin, sulla mia fronte,
A profondo scolpite e leggermente,
Figure d'ansie speme e di scontento
Raffigurar: non men che di spiare,
Ed attendere lungo, e di sospiri
Repressi, e di disegni indarno fatti,
Di gioja passeggera, e di vendetta
Vagheggiata, e nommai compiuta. Il punto
Però si appressa!… Ma di' pur come
E donde qui ne vieni, senza scorta,
Solo canuto, e logro qual mi appari
Dagli anni; e come sei (se pur ne lice
Indizio trarre da vestigia tristi
Dell'umano complesso, al fondo vero)
Mesto, sparuto, emaciato e scarno,
Come se da prigion profonda e tetra
Uscito fossi, a riveder la luce,
Talvolta contrariata dal costume
Che l'abito produsse; e meno accetta,
Men cara appare, di quanto la pingeva
Desio di libertà, lunga speranza?
Dimmi che cerchi, ov'hai diretto il corso
De' passi tuoi, la meta? - Se straniero
Non sono si miei: In mezzo alle mie terre
Mi sono già - Che dì, narra,
mistero
A' detti tuoi non implicar: Qual nome
Hai tu? Sia forse che tu fossi alcuno
De' prigionier di stato cui ritorna
Or la Costituzion nel proprio lare? -
Tal io mi son, qual tu mi dici: Caro
Pietoso garzon, sappi: sorreggo
Appena il pondo del mio corpo stanco
Su lasse gambe; e pur mi trasse fino
A questo punto il desiderio, il forte
Anelo di veder - Che dunque - I miei
Due figli e la consorte, il casamento,
Le patrie terre, e respirare un'ora
L'aria nativa, e poi deporre l'alma
«Al Dio Consolator d'ogni credente»
In braccio alla consorte Maddalena,
Ed a Sofia mia figlia, e al mio. - O Padre!
Padre! mio Padre! caro Padre! dolce
Conforto de' miei giorni cui la speme
Sola nudri di rivederti, e nulla
Desiar di più. Cor mio vederti, e
avvinto
Tenerti al petto, e palpitante; e come,
Nol so, nol penso, o finger posso. Oh! Quale
M'innaugurava la rosata aurora
Da insolito color raffigurata
Rivestita stamane, e che dicea
Pareami al cor presago: Al fine un giorno
Più lieto, più tranquillo al
mondo arreco;
Un giorno porto più sereno, e al core
Di contento nommai sperato, o inteso
Da te, cui fatto era natura il canto
Vindice, o diro, o di lugubre lagno,
O di gioja fuggevole qual bianca
Nube da vento perseguita, e spersa!…
Un regno val men di una speranza
Nel momento che compiesi. O mio Padre!
Nome che viene dolce nell'orecchio
Solletico a destar di inesprimibile
Idea. Ahi! lungamente un suono vano
Era per me tal nome; e un giorno, o un altro
Si affievolia dippiù, me disperando
Del sentirlo reale e corrisposto
Da soggetto vivente, il cui ritratto
Parte foss'io. Padre tu svieni pure
Per lo contento, e muto stai, si tutto
Coperto di sudori? Andiamo, e posa
Sulle pie braccia: trasportarti un'ora
Fin alle patrie mura fia tripudio
Di vispa fanciullina che fra mano,
O sulla testa d'odorosi fiori,
Gigli, viole, e rose un grave serto
Porti talor: per me così: Deh! vieni…
Oh! ... come freddo sei, quasiché
moto
Più non ti avesse il core, e pur ti
batte
Con palpito frequente, accelerato,
A moltiplice colpo: Sorbi, sorbi
Un po' di questo spirto, e ti rinfranca…
Oimé! gli é muto, e scolorato,
e via
Vieppiù scolora, e pallido diventa!…»
Poiché Marino disperato vide
Ogni altro mezzo di ristoro, o nullo
Il valor delle lagrime, e i sospiri
Risolse, semimorto tal qual era
Indossarlo sugli omeri. E portollo
Leggero leggero al proprio lare. Quivi
Adagiatol su molle, ed odoroso
Letto di lin coperto frescamente,
Il giorno scorso dal bucato uscito:
Ch'all'Esare nell'onda cristillina
L'eburnea man della vezzosa e dolce
Lavinia via più bianco della neve
Su di marmorea pietra strofinando
A volta a volta, stretto, e sciorinato
Al sol poscia, così fatto l'avea.
Ogni mezzo adoprò di riconforto:
Eccitanti odorini, aceto, bagni
Il ridestaro al fin. Aperti gli occhi
E' vide appié del letto due venuste
Fanciulle risplendenti come due
Unanimi facelle, colle luci
Di lagrimoso umor, carche, ed incerte
Se pur parlar, se pur tacer; e mostra
Era della contesa che in contrasto
Tenca lor cor, lo avvicendarsi vario
Or porporino or pallido or bianchissimo
Color che le animava le pozzette
Delle facce tersissime e pulite
Da man cui nulla uguaglia in fatto d'arte.
Eran gemelle nepotine al vecchio
Ingenuette, amabili, vezzose -
Sedeagli al fianco attenta silenziosa
Di mezza età una donna, il cui sembiante,
Bruno, affilato in lineamento tale,
Che un alma ti offeria nel grato aspetto
Sentimentale, penetrante, alquanto
Offuscata dal tempo, che gli avea
Di mille affanni scaricato il pondo
Sul dosso, ed Ella ancor fidente ardita
Speranzosa avanzava, in seno al tempo,
Rimettendosi a piombo, come arbusto
Flessibil di cipresso, allor che il vento
Lo squassa, lo contorce, e attorno il gira
Investendol gagliardo da ogni parte.
A moto vorticoso: Ella mirava
Il vecchio prigionier del tutto ancora
Non assennato, non rimesso, e tale
Da sofferir la narrazion funesta
Della dolente storia: E ritraea
Il guardo a sé, e immobile il fissava
Nel suol, come dall'allora affaturata,
Presaga di disastri: E una, e un'altra
Lagrima si affacciava, le ingombrando
Dell'occhio il voto concavo, e repressa
Da forza contrariante, si reddia
Indietro a far del cor più triste
e dura
La condizion. Finché come più
puote
Con voce fioca e tremula richiese,
Il prigionier, del suo Marino: Ei venne
Allor allora, e seco dietro entrava
Altra donzella, e sulla testa avea
Da bianchissimo lin coperto alquanto
Un nitido canestro. Ei volto, quella
Fanciulla disgravò dal lieve pondo;
Sur una panca il deponeva, e poscia
Frettoloso del padre ribaciava
La destra, e gli offeria bevanda e cibo.
Ma Quei girando le pupille intorno
Deboli, incerte, in se tornava e quindi
In questi accenti il suo pensier spiegava.
- Di questo sangue vivo germe, in tutto
Ancor non é compiuto il mio contento!…
Anzi da miglior parte io lo discerno
E sgominato, e scemo: Ov'é la cara
Tua genitrice, a me sposa diletta
Sospiro di lungh'anni? E la sorella
A te, a me figlia, ov'é la tenerissima
Alle fasce lasciata, alma Sofia?
Chinò nel suolo a questo dir le ciglia
Mutolo, e quasi colto d'improviso
Segreto abbrividir; movea convulse
Le labbra, e fuori senno, ambe stringea
Le mani insieme, il misero Marino:
Fremea, ma nullo al fremito seguia
Di sdegno, o di pietà chiara parola:
E lui mirava il padre ansante, e nulla
Risposta ne cavò. Finché commossa
Leuteria, la miserrima sorella,
Irrorata da lagrime sforzossi,
Coll'accento dell'uom ch'é infelice,
Dal fondo cor queste parole trarre:
Un giorno, e un altro affievolir l'affanno
Perché non pote, e trionfar nel core
Il tempo che le piaghe indura e sana,
L'assenza tua però di nuova vita
Non rivestia come il novello giorno
L'aurora veste; anzi più triste e
mesto
Al successivo un altro sorvenia
Avvolto in bruno velo, scuro, e cupo,
E squallido, e funesto a triplicare
Le nostre pene, i nostri lutti, e il nostro
Malaugurato sovvenir: Ah lassa!
Qua' scene tristi affaciansi alla mente
Somigliante al sifon, che pur da lunge
Il nocchiero spaventa - Oh! come al core
Freddo discende un gelo, che mi stringe
L'anima, dissipando ogni possanza,
Ogni virtù consolatrice. Pare
(Diceva il prigionier tutto commosso)
Da' rotti vostri cenni, da' singulti
Rattenuti, da' guardi, e dagli acenti
Timidi, poco chiari, e da' sembianti
Sconcertati paurosi, ch'io non vegga
La mia consorte più, la metà
mia
L'individua compagna di mie pene,
Delle mie gioje, e tutto. O Maddalena,
Maddalena diletto senza pari
Ove principio, ove confine avea
Ogni novel, ogni vestusto e fosco
Desiderio dell'alma: Oh! più non posso
Fruir degl'occhi tuoi, cui d'uopo mai
Non era di parola. Un folgorante
Tuo sguardo, o diro, o lieto, erami al core
Ruggiada a terra arsiccia. A gran ferita
Da sdegno cagionata, il qual sovvente
Fuori ragion mena gli umani, sola
Era tenace, irresistibil, forte
Farmaco di salute, confortante
Ristoro!… Io la perdei - Sì é
vero: molte
Orbite compiranno brillanti soli,
E lune piene intorno al globo, od altre
Potran reddir sotto pupille liete,
Mitissime, fronzute, colorate
Di fior, magiche forme; e non vedrai
Ma quella tua si amica. Ella disparve
Da' vivi, or son due lustri, e un anno ancora.
Neppure aperta al bello di stagione
«Che lussureggia senza colpa alcuna»
Novella, a colorar le foglie al fresco
Di mattutina brezza, o di ruggiada,
O all'umido alitar d'un zeffiretto,
Vergine rosa, apparve, e si morìo
Sofia la meschinetta in sullo stelo,
Semichiusa, appassita, inviolata,
Seguitando la madre oltre la tomba.
Come striscia di mar che dietro lassa
Rapida nave, da gagliardo spinta
Velocissimo vento, e che perduta
Vassi fra breve, e 'l piano immenso adegua
Del mar, e spare sì, che vista alcuna
Nommai la scerne, o sa tracciarne il loco,
Così la rimembranza di Sofia».
Marin tuttora al punto ov'era pria
Sostava immoto: Ei doloroso vide
Il padre a mezza vita in su dal letto
Levato, e colle mani a grasse ciocche
Stracciantesi la bianca augusta chioma,
Pallido fatto e smunto, colle ciglia
Innarcate, dogliose, e che grondanti
Davan copiose lagrime le sue
Pupille ancora lucide - e Deserta
Mia casa! mio destin, dicea, crudele,
Scomposto hai tutto già. Saziato sei
O pur mi segui ingordo come lupo,
Che lurido di sangue, sangue brama.
Finché del sangue il caldo fumo il
faccia
Cader di forza, e di ferocia scemo,
Sconvolgendogli il sen? Ecco orbo fatto
Son io!… Felice pur sognava un tempo,
Il qual valesse a rinnovarmi i giorni
Da quattro lustri in agonia sepolti,
E questo giorno ad intristirmi venne
Malauguroso, negro, aspro, crudele».
Padre, dicea Marin, perché di tosco
Amarulento, e micidial vuoi cibo
Apprestar a tua vita? D'una nube
Fosca, fatale, infausta, questo giorno
Di lietezza, coprir non é secondo
Prudenza e senno. Il tempo scarso e nullo:
Né fuvvi mai chi a lagrimar perenne,
O per singulti, o per sospir traesse
Indietro un atomello e secolui
Gli oggetti, che spariro. Deh! rinfranca
Col cibo i membri affranti; udrai tu poscia
Come avanzo sol'io della tua schiatta,
E questa zia tua suora. - Ancorché
voglia
Sforzar la gola, ed inghiottir del cibo,
Più dannevol per me tal opra fora:
Narra sorella, or vuò saper di quale
Morte morì mia figlia, e mia consorte
-
Tu sai qual foste, e come, e donde venne
La piena rigogliosa che travolse
l'innocua tua fortuna. Or quegli stessi
I quali per intrighi e cabbalisti,
Infami modi, tradimenti aperti
Ti trasser su sgabello, e ria condanna
Ti conciliar sul capo e compra fede
Giustizia giuri e testimonî, ancora
Sazia pur non avean l'ingorda voglia
(Che del delitto inoltra ed empio rende
L'umano cor che alla perfidia indura)
Quando scoppiò micidial furente
Mietitor delle vite più di falce,
Che segasse la messe alla rinfusa,
Senza raccor covoni e le conteste
Comporne stive, il misterioso e cupo
Orribil Cholera… Il punto arrise
All'empietà maligna, e l'innocenza,
Il colpo ne parò col proprio corpo,
Disgraziato, e giacque… Ahi! come allora
Cambiò fisonomia la terra, e tutta
Squallida apparve all'uom. Duro talora
Nell'aspetto annegrito, e rabbuffato,
Un alma dispettosa commendasse
Pareva nell'aere e si moriva un tristo,
Con irta chioma e truculento viso.
Altri per violenta, irreparabile,
Diarrea periva; e sulla guancia traccia
Non dubbia rimanea di esinanito
Vitale umor. Altri imbiancato a guisa
Di lino a fresco uscito dal bucato,
Verdastre-negre avea le labbra. Un altro
Moria, da bocca a sforzo immenso fuori
Tirando le intestina, a concitato
Vomito violento. Altri spirava
Lograto dal malor, che lentamente
Le forze consumonne, e lo ridusse,
Scheletro fatto, avvanzo nella tomba.
Chi colta all'imrovviso da tensione
Di nervi furiosa, o nelle sacre
Divine case, o nelle strade, o nelle
Campagne, o case, contorcendo i labbri,
E le pupille, muto si restava
Imbrattata di schiuma; un infelice,
Scemo di moto e vita, polveroso
Straccio di morte, e del Colera effetto
Aborrito, odiosissimo, fatale!
E chi per lacerante smanioso
Dolor di ventre, si moria mordendo
Rabbioso le mani. Altri deliro
Fatto del mal, moria ridendo; ed altri
Prono nel suol contorto da dolori
Inesprimibil, cupi qual cinghiale
Ferito a morte su la sabbia a lungo
Dimenandosi spira: Era da pria
Per cari oggetti che sparian da' vivi
«E poca terra, e calce ne involava
Ne' campi detti santi il freddo avvanzo
Per mai reddirvi più, inaffiata
La terra dalle lagrime, e scaldato
L'etere da' sospir largo vampanti:
Un singhiozzar, un piangere, un a bruno
Vestirsi e corpi e sale e case e bassi
Tugurî e gran pelaggi, era solene
Per mostra di dolor vestigio usato
A luttuosa voluttà. Ma quando
Corse una voce, di tremendo arcano
Ammantata, terribile; una voce
Che ripeteasi nell'orecchio appena
Sommessamente, e sospettosa in atto
Tremante paurosa de' più fidi
Più stretti amici, e de' congiunti,
allora
Ristagnato l'affetto per lamenti
Espresso; e da profondo non loquace
Dolor compresi, fur silenti. Un era
Fatal comparve che nommai fu scritta
Alla storia degli uomini trascorsi
Per mille età perdute. Onde più
dura
Più distruttrice far la morte, surse
Desolante, venefica, terribile
Diffidenza che mosse suscitando
L'uomo dell'uom nemico: L'impostura
Alla crudel fisonomia del vero,
Vi aggiunse un che di maggior peso, e perse
Fomite tanto ad alterata e tesa,
Elastica, creatrice fantasia
Da coglier tutto, e da prestar credenza
Alle cose incredibil. Sempre arcana
La mano fu, che tal discorde possa
Lanciò nel mondo: e lo prestigio infame
Gittò l'infamia e l'anatema orrendo
Su teste forse che votavan liete
Il nappo all'innocenza, e di sereni
Trapassavan fidenti, alla tranquilla
Freschissima ombra di coscienza pura.
E concitarsi sdegni, ed insolenti
Vieppiù de' tristi farsi le pretese,
E brulicar nemici in ogni canto.
Il figlio che attentasse si credea
Alla vita del padre, e a quello questi.
Al marito la moglie men fidanza
Nutria d'amor reciproco; alla suora
Il germano fratello e la figliuola
Non usasse riguardo alla materna
Vita. E l'amico stesso dell'amico
Dubbiava, che tradito anch'ei non fosse,
Intanto morte non cessava trarre
Come mitraglia in brulichio di gente
Che più vassi nel punto agglomerando
Preso di mira, anzi che diradarsi
E andar dispersa, e tôrre al globo ingordo
L'oggetto del bersaglio. Eran frequenti
Spesse le morti, e più colui moria,
Che più temea, benché indistinto
fosse
Il numer delle vittime, che poi
Mortal vendetta le segnava. Mute
Eran le strade, squallide e deserte
Omai fatte le case, e coi villaggi
Le cittadi i paesi. Le campagne
Più che i ridotti, avean gli umani
accolti
Solitarî, paurosi, diffidenti
Fatti per mille orribili novelle
Strane, e di credenze non si degne
Talune, ed altre si. Ma chi vantarsi
Può di guarir la fantasia percossa
Da panico terror, se incontri il vero?
Or di quest'era orribile, fatale,
Fur preda i tuoi; il mio marito, il caro
Mio figliuolino, unico germe, solo
Sostegno, in cui riprometteami molto
Felice un avvenir (che poi si volse
la corrente di affanni) ove io indarno
Argine opposi di prudenza, e forte
Con coraggio soffersi. La diletta
Cognata Maddalena, e l'innocente
Nipote ingenuissima Sofia,
Saziar le fauci di maligna fame.
Che vuo' dir altro e che narrarti come
E quali, e quante la malvaggia voglia
Del sangue altrui, la fraudolenta iniqua
Ambizion, l'invidia covacciata
In cor senza pietà (che a strano innesto
Il più reo al più giusto unisce
e lega)
L'amor talvolta, e l'empia gelosia,
Il voler perverso, e la sfrontata
Brama dell'oro, quante ne spegnesse
Col morbo congiurando, e preziose
E care vite, ed utili agli umani
Venturi ed a' presenti?… Abbia l'oblio
L'elenco e i nomi, a contristar degl'empi
Nel giorno estremo la coscenza iniqua.
Noi pur fuggendo in tal solinga valle
Ci rifugiammo; e nosco venner pure
Molte famiglie e molte. Io quì portai
Marino semispento ed assopito
Da letargico sonno, a cui sul fronte
Un lividor segnava a negri solchi
Di morte il rio carattere; incavate
Ei le palpebre avea, basse le ciglia;
E le pupille approfondite al cavo
Orbiculare. Delle tempie avea
Ingrossate le vene, lucicante
Il naso, ed appassite la narici
Esilmente fiatanti, ed afflosciate
Le labbra, e 'l viso tutto avea squallente.
Moribondo; ma tal che al cor più saldo
Facea dolore, alla pietà spavento.
Lo trassi meco, allor che il patrio lare
Lasciammo, un'alma Immago della diva
Che col suo nome a noi decora e affida
La patria in mezzo a stranie genti. Allora
Ch'io scersi di Marin l'alto periglio
La lampada addoppiai. Prostrata poscia
Sulla terra, discinta mi percossi
Il petto a cupi colpi, e reiterando
Contuso il feci, e lo bagnava intanto
Di lagrime il profluvio che abbondante
Giù per le gote caldo discendea
Come sudor estivo, e singhiozzava
Né motto pur facea. Pur quanto intesi
Diffondersi all'interno una fidente
Preghiera, a cui forzava una speranza
Ignota fino allor, sclamai io: Santa
D'ugual poter, che di sapienza, ah! tale
Tu non soffrir catastrofe tremenda.
Veder divelta da radice un alma
Famiglia d'innocenti; almen costui,
(Marin cennava) al padre il serba, caro
Consuol di senetù, conforto estremo
Cui fidano gli umani, a' quali amara
Non é la morte sì, purché
si faccia
Fra figli e cari; a lor la cura resta
Dell'adornar gli avvanzi, e della pompa
Funebre e del conforto disiato
Di sacra prece, e del riporre in pace
Nel sepolcro le ossa, e sulla pietra
Che ricuopre l'avel, una pietosa
Versarvi estrema lacrima più dolce
D'ogni terrena cosa. Tu lo salva,
Tu lo mi riedi… In te spero, confido…
Io m'abbandono in te!» Tre fiate all'anno
Nuda col pié, di semplice vestito
Adorna, visitarne il tempio, al santo
Altar di Lei, di bianco lino un sacro
Paramento recar, votai. Né avea
Compiuto ancor la prece, espresso intero
Il voto, che Lavinia tutta gioja
M'afferrando per gli omeri, co' cenni,
Adempiva agli accenti e lagrimava
Accorsi, e vidi: Oh! la potenza arcana
Innarrivabil, incompressa, immensa
Del Dio delle Nazioni, che si spiega
Miranda or più che mai ne' santi suoi.
Vidi Marin che sorridea, siccome
Chi d'effimera storia per lo sogno
Escia. Frugava, egli l'intorno tutto
Fuori di se, curioso, come e dove
Si fosse omai; e a lui parea che falso
Non era il sogno, o che alla veglia ancora
Durava l'azion della visione.
Saltò dippoi dal letto, e come mai
Percosso fosse stato da malore,
Della fenestra il capo fuori sporse
Per diritto sull'Essare, rientrato,
Mirava sbalordito, e si zittia.
Noi fuori senno ancor, non sapevamo
Volgergli fiato; e miravam che mai
Facesse. Ei si cavò sulla perfine
Di meraviglia dal curioso influsso,
E a noi rivolto, il suo parlar diresse
Così: Qual io mi sia potria mal dire
Con qualunque linguaggio. Il grave, forte
Poter, che l'alma attonita mi stringe
Come narrarvi, e quel che sento al core?
Ebben non eravam jer sera al proprio
Lare là in casa patria, ed io mi posi
Primiero a letto, stanco dal soffrire
L'acuto rumorante a fier dolore
Che il capo mi rodeva? Or come avvenne
Che qui siam noi? - O misero, risposi:
Che di', che narri? Al mondo tenebroso
Lontano eterno della eterna speme
Hai tu picchiato all'uscio: e per clemenza
Eccelsa della Diva Alessandrina
Nostro decoro e vita, in vita riedi
Dopo che diece e diece, e cinque aurore
Perdute in l'ocean vederti muto
Presso a morir! dici: Iersera lasso
Io mi corcava già? Vedi la messe;
Che non matura allor, ora mietuta
Nella bica é raccolta? Semimorto
Fosti qui tratto, e sol per grazia vivi
Per grazia inenarrabile - Suoi detti
Riconfermava ancor l'austero figlio
Ma, padre, a volta sua dicea, che pense
Che brami assorto sì, come di senno
Manchevol fossi? - O figlio mio tu senti
La combattuta mia ragion? Mi vale
Strazio cotanto ancor di patria immensa
Di libertade amor. Valsemi lustri
Di prigionia, di affanno, e di penosa
Vita protratta, ed a miseria tale
Su duro scoglio, che miglior saria
Chiamarla morte prolungata, novo
Special martirio!… Oimé! Più
fiate, il dico,
Empio n'era il pensier, ma pur la mente
Il vagheggiava fosco, e il cor quantunque
Allor più forte palpitasse e vivo
L'orror mi dipingesse del sepolcro,
l'eternale passaggio; ei mi parea
Che a darmi a' pesci cibo, era men forte
Amaro passo, e 'l rifuggiva io meno
Del viver mio. Ma sorgiungeami allora
Incognito un affetto a ridestarmi
Memorie tali, che alla fin rompea
In lagrimar dirotto, e quelle stillo
Come di cerva il sitibondo labbro
Sazia fresc'onda, il mio desio saziavano
Il mio sperar penoso: indi rivolto
Era alla madre de' fedeli, al mite
Conforto de' credenti; era a Maria
Madre del Buon Consiglio, a Lei che nosco
Dall'oriente all'occaso in su dell'onde,
Con peregrini, pellegrina venne
A prodigio del qual già romba il mondo.
Penetravan colà strane novelle
Capricciose, terribili, vestite
«Perché figliuole d'un concerto insieme»
Sempre di misteriosa e fosca gonna,
Che fea nel cor gelato il sangue, e ognuno
Temea di se, de' suoi, di cui nommai
Giunse notizia fausta. Al fin mutaro
I tempi. E le stagion con aspri giorni,
Vincendo il mio mortale un altro corso
Diero alla mente, al mio pensiero; e il forte
Tenace mio disegno, i lineamenti
Lento lento perdea, sempre chinando
O a dileguarsi, od a cambiarsi intero.
Ma quando i ceppi, e le catene io vidi
Cadute dal mio corpo, e intes l'alma
Farsi perfetta al respirar di puro
Libero clima, soffermossi alquanto
Come del firmamento si sofferma
La volta immensa, tersa, alta, cosparta
D'una ed un'altra nube contornanti
Immagini stupende al fondo azzurro;
Immota eterna si sofferma, e pare
L'immagine reflessa sotto il chiaro
Dell'acque, cui dinnanzi un rigoglioso
Vento scommosse: soffermossi il mio
Disegno antico, ed eran deste quasi
Energiche, possenti, le vetuste,
Libertà. Quinci, meco ripensando
Trascorsi lochi e gente: E qual trovai
Pensier discorde, che animava il mondo
Di privati voleri? e di vendette
Covate e d'invid'odio e di segrete
Nocive sette, che diviso e sparto
Mandan perduto il misero voler
A un mar confuso, ove apparia sparendo
Della Costituzion l'alto colosso.
Anarchici desiri, io vidi espressi
In carte sanguinose, ove migliore
Dopo trambusti orribili, e fiumane
Di sangue sparso, dell'ardito e saldo
Rimanesse il destino; e sotto il reo
Il men reo ricovrandosi, del forte
Adorasser la mente un giorno, e l'altro
Il rendesser bersaglio di congiura
Sanguinolenta, insaziata, e sempre
Dell'oro dell'aver del bene altrui
Invidiosa, truce ed affamata
Del decoro innocente. Iutesi alcuni
Che fama avean di senno, e di perfetto
Parlar e franco cor, con forti accenti
Degli uomini trattar l'ugual destino,
Come comune é la ragione e a tutti
Unica patria, il mondo. Avean costoro
Di pubblico desio l'impronta onesta
Nel fatto ineseguibile. Per quanto
Di ben gravida sembra questa idea,
Altrettanto nociva invero é poi,
Atene antica, e Sparta più non hanno
Comune con l'animo umano, che respira
Venti secoli dopo, alcuna cosa.
I tempi danno al cor nuovi bisogni,
Nove cure al pensiero, e nuove forme
Ad esercizio util la vita brama.
Quindi il variar di lingua, il vicendarsi
Di nazioni che vanno, e larga e lunga
Una striscia poi lascian di costumi
Adulterati, e come tipo, a noi
Pervenuti di tempo elasso e fatto
Nulla nel tempo immenso, e pur non grati.
Altri pur vidi, e seco lor parlai
Di repubblica, e breve insidioso
Linguaggio usato ne squarciò dell'alma
Il vel men fitto, e demagoghi molti
Scoperser gli occhi miei, molti oligarchi
Aristocrati molti. Errante poi
Come di varia specie, e di famiglie
Diverse le formiche in un congiunte,
Forman confuso, mobile, discorde
Quadro d moto e vita, il popol vidi.
Chi può ridir quanti pensier, e quanti
Figli di riso, di furor di corto
Men saggio pensamento, van tuttora
Dominando le genti. Altri da brame
Animate dal far sorte migliore
Entro tumulti e morti, van creando
Guerre, invasioni, arrivo di una gente;
Che mai non giunge. Panici terrori
Altri va seminando: e chi da spirto
Calunnioso stimolato pinge
Il falso vero, e il vero falso: In tale
Stato di sgominio social, le genti
Discordi son, travolte le misure,
Dubbie le brame, sconce le dimande,
Angosciosa la pace, vacillante
La giustizia e la legge e senza pondo
La verità, la Religion convulsa,
Tra i suoi misteri: E se non era Diva
Sostenuta dal Ciel, scrollata fora:
E udria sul cader suo, l'uomo simile
A infausto gufo, che cantando insulta
Le ruine, e compiacesi. Tai cose
Io vidi, intesi, ed ho scoperto, o figlio,
Ancor molte altre, a cui le ho qui trovate
Variazioni fatali, hanno del tutto
Cangiato il mio pensiero, il core e l'alma.
-
«Padre se duro fiami udirti tale
Sermone, opposto al mio pensiero, l'altro
Novello sol lo ridirà. Quì
siedi,
Gusta del cibo, e delle patrie vigne
L'umor di pingui grappoli, serbato
Più forte a divenir dentro i concavi
Legni natii, o padre, e ti rinfranca
Delle perdute posse, e poi nel sonno
T'abbandona, sopito ogni pensiero.»
Fine del Libro primo