Deputazione di storia patria per la Calabria
Raffaele Patitucci D'Alifera Patitario
estratto da "Rivista Storica Calabrese" N.S. X-XI (1989-1990) NN 1-4
Già. Casati albanesi in Calabria Sicilia. Facile stendere un titolo. Facile supporre che sia fedele dargli corpo degno di stare accanto a ciò che in proposito hanno scritto non solamente autori come il Rodotà, il Masci, lo Schirò, il Tajani, il Dorsa, lo Zangari, il Rohlfs ed altri, italiani e stranieri, ma, certamente, anche altri autori recenti, italiani e stranieri, meglio informati ed istruiti di come e quanto noi personalmente non siamo. Eppure – lo diciamo subito, qualcosa c'è che debba annotarsi. Ed è che non tutti i casati delle comunità arbërëshe ossia italo-albanesi sono casati albanesi. (Bella scoperta si dirà. Ne sono convinto. Ed è giusto.) Comunque, ci sia consentito di essere espliciti e sintetici nel dire ciò. E, tuttavia, vogliamo sperare che questo non sembri troppo sbrigativo ed avventato. Si tratta, anzi, di una affermazione che meriterebbe maggiore ponderazione. Meriterebbe soprattutto l'impegno filologico ed etimologico che non qui non siamo in grado di svolgere – a parte, s'intende, il fatto che la nostra scarsa preparazione per farlo compiutamente – ma che potrà sollecitare quanti studiosi vorranno farlo. Un esempio di come si possa accertare la natura autentica dei casati presenti oggigiorno nelle comunità italo-albanesi ci viene da Don Antonio Bellusci.1
Ritengo doveroso citare, nel linguaggio frascinatese, le altre maestre tessitrici, le quali hanno dato lustro all'arte tessile di Frascineto. Molte delle tessitrici nominate sono viventi. Ecco il loro nome e sopranome: cje Torja Ngjastrit, cje Ana Llogit, cje Rej Ngjanit, cje Dellina Ngjanit, cje Brakellja Bakinit, cje Armaria Cikllicani, cje Dila Kollorinit, cje Rozina Karraruqit, cje Anxhullina Bakinit, cje Makullata Nen-Katoqit, cje Toja Makanit, cje Filliceta Pllatanjonit, cje Makullata Cingarit, cje Krezja Lloqit, cje Ana Cicit, cje Ayrelja Kambresprit, cje Armaria Kandonit, cje Dila Kardinallit, cje Marjuca Kardinallit, cje Kustanza Mingonit.2
Vogliamo dire che molti casati albanesi si sono italianizzati, divenendo così casati arbërëshe. Per altrettanto molti casati italiani si sono inseriti così bene a fondo nelle comunità albanesi da diventarne parte essenziale come casati arbërëshe. E non solamente perché casati di gente imparentata con famiglie albanesi della propria comunità o di comunità limitrofe e viceversa, ma anche senza altra ragione - a parte il corso naturale delle vicende umane individuali e sociali, - che quella di sentirsi parte della comunità nella quale spesso si nasce e si vive. Quindi nella determinazione di voler partecipare oltre che di dover partecipare necessariamente alla vita socio-economica e politica della comunità medesima assumendone la lingua, la cultura, il costume, la forma mentis e divenendone membri effettivi. In verità Don Antonio Bellusci parla - e noi ne condividiamo l'assunto - di cammino delle genti, di incontro delle genti, di vicende quotidiane delle genti che divengono Storia dell'Umanità, come Storia dei popoli assurti o meno a dignità di nazioni. Ed è in questa situazione dinamica geo-antropica che da sempre, dal più lontano tempo, si è determinato e si determina nei millenni lo svolgimento generale e particolare dell'esistenza delle creature di Dio, non solamente del e nel mondo animale e vegetale ma anche del e nel mondo minerale. Secoli, anni, mesi, giorni, ore, minuti - basta un attimo a stravolgere l'esistenza umana delle creature e delle cose con la folgore, l'acqua, il fuoco, il terremoto, il maremoto ed altre calamità naturali - sono la misura del tempo che trascorre: il tempo governato dalla natura per volontà di Dio. Per cui le creature umane che nel tempo sono calate stazionano, quel tanto che è loro necessario, nello spazio che hanno nascendo e, a mano a mano, nello spazio che si guadagneranno crescendo. E non è detto che spesso, volontariamente o per necessità, non debbano diventare nomadi, con tutte le conseguenze che ne derivano, specialmente nel caso della necessità, per sopravvivere ai bisogni ed alle avversità.
E c'è pure da considerare che a determinare i fatti di una comunità in movimento e/o in espansione, al cui esistenza è precaria ed ha come spazio vitale una zona ben delimitata e organizzata quale era ed è l'Adriatico o con lo Jonio collegati al Mediterraneo ed alle terre che vi si affacciano, è inevitabile ed è provvidenziale che dalle e traversate o dagli sbarchi su terre amiche ed ospitali sorgano fatti nuovi, materiali e morali. Così che quelle grandi "osmosi" - dice Don Antonio Bellusci - e diciamo anche noi - abbiano agito sino a promuovere un compenetrazione culturale quanto mai profonda, pur restando salde le "radici": uno scambio reciproco di fonetica e di grafia delle lingue parlate e scritte. E, conseguentemente, di semplici e/o composte alterazioni e riduzioni dei nomi e dei cognomi. E non solamente al tempo di Scanderbegh, dei turchi, degli Aragonesi, di Carlo V, dei Vice e dei Re delle Due Sicilie, ma sin da tempi lontani, a partire dai Pelasgi e quindi con gli Illiri, che furono di casa nelle contrada italiane e non solamente italiane. E nel nostro tempo il quale si pone, e pone ai gruppi etnici ed a tutti, problemi di esistenza geodemografici e problemi socio-economici e culturali non solamente di valore storico ma anche di immediata necessità sebbene non assolutamente urgenti.
Ci sia permesso considerare qui una osservazione pertinente ed attenta di Gabriele Ciampi:
L'etnogenesi neoellenica costituisce un processo come pochi altri in Europa complesso e prolungato che ancora nel secolo XX ha conosciuto momenti di rinnovato dinamismo.
È noto che la mikroasiatika katastrofe del 1992 e il successivo trattato di Losanna sullo scambio obbligatorio delle popolazioni greche e turche (ovvero cristiane e musulmane) si produsse un'ondata migratoria dalla Ionia, dal Ponto, e dalla Tracia orientale che indusse radicali trasformazioni nei settori del costume, della musica, della cucina.3
Noi pensiamo che gli albanesi che si rifugiarono in Italia sotto la pressione del turco, a ciò consigliati e guidati dal loro stesso Re Scanderbegh Castriota despota d'Epiro, dopo gli aiuti dati a Ferrante d'Aragona contro Giovani d'Angiò e i baroni che, con a capo il Principe di Taranto Giovanni Orsini del Balzo solidarizzarono con l'angioino, non furono molto più numerosi di quelli che vi erano immigrati tra il 1416 ed il 1448 dando man forte ad Alfonso I il Magnanimo nella sua opera di unificazione del Regno di Napoli contro Roberto d'Angiò del Regno di Sicilia che gli veniva da parte aragonese. Meno ancora di quei primi albanesi che oppressi "dalla efferatezza musulmana riuniti a gruppi l'uno dopo l'altro scoccarono un bacio sulle tombe degli avi, compressi da acerbo dolore, piangenti dai monti al lido in cerca di un altro cielo si avviarono. Già dopo la terribile disfatta di Cassovia (…) eransi rivolti alla Repubblica (…) di Venezia".4
Una prima turba di dieci famiglie guidate da un Mico Dragowik, meno che sessanta individui si rifugiò nel villaggio di Peroi sui confini veneti, là in appartati casolari stabilivansi (1396)(I). Altri ripararono sui monti della Dalmazia nella Serbia. E più numerose e più frequenti dopo la morte di Scanderbegh e dopo la caduta di Croja le immigrazioni avvennero nel reame di Napoli. 5
Difficile è tuttora approssimarsi al numero delle traversate che fecero dell'Adriatico e della Jonio gli albanesi che vennero con lo Scanderbegh come truppe in aiuto degli Aragonesi padre e figlio - Alfonso I e Ferrante I - e poi come fuggiaschi in cerca di asilo per salvarsi dai turchi. Una cifra ce la dà il Tajani quando ricorda che "morto Scanderbegh" e "caduta Croja"
Questi passaggi furono esaltati in un canto, del quale un brano dice … "Trecentomila giovani fuggirono, ruppero il mare per mantenere la fede". 6
Il Tajani,però, nel riportare questo brano da quel canto che vuole "esprimere fin dove giunse il sentimento religioso, i sacrifici patiti, gli slanci praticati per conservarla., non manca di avvertirci della "solita figura esagerata orientale".7
Noi seguiamo il Tajani. Il suo libro è documentato. E davvero siamo lieti di riportare in nota, per quello che possa servici in questa breve ricerca - in buona parte ovvia e conosciuta - e per quanto possibile, i riferimenti che il nostro autore fa a documenti e bibliografie essenziali. Con il Tajani abbiamo cura di seguire il Rodotà, il Masci, lo Schirò, il Dorsa, lo Zangari, senza trascurare quanti altri ci possano servire più che altro nella ricerca e nel confronto. Ed è col Tajani che anche noi siamo convinti che:
Gli scrittori dei tempi ne registrarono con bastante precisione gli arrivi, a noi resta soltanto il coordinarli con gli avvenimenti storici.8
Ed è ciò che il Tajani ha fatto con scrupolo e serietà servendosi del documento. Ecco perché ci sentiamo rassicurati e ci serviamo della sua ricerca per avanzare qualche nostra idea che vorremmo suffragata se non da ulteriore prove, almeno da una buona deduzione logica che ci conforti e ci dia motivo d'insistere negli assunti che ci siamo prefissi, dei quali abbiamo già fatto cenno. Ad ogni buon conto riportiamo in appendice le riserve dello Zangari (cfr. documenti 2 e 3 in Appendice).
Tre poderose squadre comandate da un Demetrio Reres, e da due suoi figli Giorgio e Basilio, militarono per lungo tempo al servizio di Alfonso d'Aragona, il quale per la prospera sua fortuna contro il rivale Renato d'Angiò a capo di un mezzo secolo di guerra unì sotto lo stesso dominio i regni di Napoli e di Sicilia (1416-1446). Quelle squadre richiamarono e mantennero ubbidienti all'Aragonese anche la provincia della Calabria Inferiore dichiaratasi in favore della decaduta dinastia francese. Per i servigi fedelmente renduti Demetrio fu nominato Governatore della Provincia di Reggio.9
Da questo Demetrio Reres il Tajani inizia la storia dei fatti che si verificarono di seguito nella Calabria e nella Sicilia. E proprio perché "un buon numero di commilitoni" - di Demetrio Reres, egli scrive - "finito il bisogno delle armi fermaronsi nella provincia di Catanzaro presaghi dei tristi gironi all'Albania riserbati". Sorsero così "Andalo, Amato, Arietta, Carafa, Casalnuovo, Vena, Zangarone", ai quali seguirono "Palagorio, San Nicola dell'Alto, Carfizzi e Gizzeria"10.
Giorgio Reres da capitano nella Sicilia restò tuttavia in osservazione contro le temute invasioni, e per molto tempo i suoi militi stanziarono in Bisiri terra del Mazzarese: Alcuni stabilironsi in Contessa nel 1450; altri stiedero in Taormina, in dove il quartiere degli Albanesi viene anche oggi additato; ed altri ritiraronsi, onde prendere parte alle patrie battaglie. D'allora in poi gli Aragonesi esercitarono influenze più disinteressate in Albania che non furono quelle degli Angioini; chiare individualità portavansi nella corte a chiedere quei soccorsi che la santità della causa faceva meritare, e se non adeguati ai loro bisogni li ottennero sempre.11
Ben si capisce che tutte le vicende non erano liete. Molte ebbero svolgimento in quel tempo di smobilitazione dei militari che avevano servito nelle guerre e di quanti profughi dall'Albania cercavano salvezza e rifugio nel regno di Napoli e in Sicilia, dopo che il Turco, lungi dal lasciarli in pace, li minacciava nella vita e nei beni, massimamente dopo la morte di Scandergerg, non dovettero essere piane e sufficientemente soccorritrici. Sebbene sicure, dovettero essere e furono piene di difficoltà materiali e morali. Furono vicende che impegnarono fisicamente e spiritualmente tutte le creature coinvolte.
Le necessità erano molte e gravissime. Premevano. Non era facile affrontarle e vincerle. NOn era sempre possibile rimediare in qualche modo ai bisogni più essenziali. Tanto nel quotidiano succedersi dei fatti, che venivano a determinarsi, fatalmente, sul piano esistenziale degli individui singolarmente presi e/o dei gruppi di individui più o meno aggregati, non sempre le cose andavano lisce. E tutti erano pronti a difendere la propria sopravvivenza individuale per provvedere alla difesa della sopravvivenza stessa del gruppo di appartenenza, considerato nella sua interezza e consistenza. E come espressione familiare ovvero sociale che tutti accomunò nello stesso destino.
E il bisogno di allontanarsi dalla propria terra, lasciando le molte persone care, i vivi e i morti, in preda ai musulmani senza nulla poter più fare per difenderli, divenne desiderio di raggiungere i primi fuggiaschi le cui notizie incoraggiavano ad imbarcarsi verso lidi accoglienti e sicuri.
Alcuni pochi seguendo la traversata più stretta dell'Adriatico sbarcarono sulle terre del Molise, e pur là dei villaggi cominciavano a sorgere dai nomi di Santa Elena, Santa Croce di Migliano, Colle di Lauro.
E - aggiungiamo noi - Campomarino, Portocannone, Rotello.
Molti approdarono sulle rive di Corigliano nella Calabria Citra, in dove il governo di allora per la scarsezza delle popolazioni non sgradiva la gente straniera. Stanziati sulle pendici della Sila fondarono i Paesi di San Demetrio, Macchia, San Cosmo, Vaccarizo, San Giorgio, e Spezzano collocato sull'altra sponda del fiume Crati (1467-1471).
Era compiangente lo stato in cui tanti profughi si trovavano; meglio di chiunque altri la descrive il Papa Paolo II che siede sul soglio pontificio dal 1464 al 1471. Egli scriveva così al Duca di Borgogna: Le città che finora avevano resistito al furore dei Turchi sono oramai tutte cadute in loro potere. Tutti i popoli che abitano lungo le coste dell'Adriatico tremano all'aspetto di questo imminente pericolo. Non vedesi ovunque che spavento, dolore, captività e morte; non si può senza versare lagrime contemplare queste navi che partite dalla riva albanese si ripararono nei porti d'Italia, e queste famiglie ignude, meschine, che scacciate dalle loro abitazioni stanno sedute sulla riva del mare stendendo le mani al cielo, e facendo risuonare l'aria di lamenti di ignorata favella.12
Enea Silvio Piccolomini, grande umanista, eletto Papa Pio II, parente degli Aragonesi - il Papa che fece incoronare dal Cardinale Latino Orsini, nella Cattedrale di Trani, il Duca di Calabria Ferrante d'Aragona chiamato "bastardo" da Callisto III che mai volle riconoscerlo come successore del padre Alfonso I "Il Magnanimo" sul trono del Regno di Napoli - ben sapeva con quanta fede e valore avevano combattuto e combattevano ancora contro il Turco, ossia contro i musulmani che volevano annientare il Cristianesimo uccidendo i cristiani, gli albanesi di Giorgio Castriota. E conosceva anche gli aiuti che gli Albanesi e lo stesso Castriota, personalmente, avevano dato al "Magnanimo" prima ed al figlio Ferrante, dopo, sostenendoli come abbiamo già notato, nelle guerre contro Roberto d'Angiò e contro Giovanni d'Angiò, figlio di Roberto e Duca di Calabria, che , appoggiato dai più forti baroni del Regno capitanati da Giovanni Orsini del Balzo principe di Taranto, rivendicavano a sé il trono di Napoli. Anche per questo
lo invitto Scanderberg aveva già ottenuto dal Papa Pio II il permesso di rifugiarsi con i suoi ad ogni evento nei feudi della Chiesa, perciò tramontato con lui il Dragone posto a guardia dell'Albania, a misura che quel paese diveniva preda dell'ingordo Ottomano le immigrazioni a frotte si successero nel Mezzogiorno d'Italia in dove i primi già stabiliti da richiamo agli altri facevano.13
Il regno di Napoli diviene meta agognata da raggiungere al più presto con tutti i mezzi, per migliaia di creature umane fuggiasche. Non sappiamo quanto. Chi ce ne ha tramandato le notizie, elencando alcuni casati di famiglie che "contano" e un certo numero di singoli personaggi per i fatti salienti che li riguardano, è stato avaro. Eppure chissà quanti nomi avrebbero potuti essere segnati! I ruolini dei soldati - gli stratioti di Venezia e di Napoli - avranno pure avuto una loro ragione di esistere se c'era un "soldo" da corrispondere a chi faceva parte di un corpo armato, impiegato come tale in tempo di pace e in tempo di guerra, con appartenenza a reparti militari organizzati. Noi, in verità, non li abbiamo cercati. Ma, se non sono andati distrutti - a Napoli, ad esempio, per il danno patito dall'Archivio di Stato durante la guerra - potrebbero venire fuori a Venezia, dai fondi che si sono salvati dalle avversità, e ancora da Napoli come frammenti preziosi che aspettano di essere esaminati, riordinati e pubblicati. Tuttavia quello che ci è pervenuto dagli Albanesi, come notizia storica vera ed accertata, è riuscito preziosissimo se è servito come è servito, di base alla ricerca condotta con ammirevole impegno da parte di studiosi qualificati, che hanno portato alla luce il frutto del proprio lavoro di indagine e di compilazione, dando vita ad una preziosa saggistica entrata a far parte del patrimonio bibliografico italiano.
Ai paesi che abbiamo sin qui elencato
tennero dietro quelli eretti nelle Puglie, in prima San Pietro in Galatina, unico tra i diversi feudi voluti e concessi a Scanderberg, allorquando accorse in aiuto di Ferdinando d'Aragona; poi si videro sorgere in terra d'Otranto i paesi Faggiano, Martignano, Monteparano, Roccaforzata, San Giorgio, San Martino, San Marzano, Sternanzia, Zollino. Nella Capitanata Casalvecchio, Casalnuovo, Panni, Greci, San Paolo. In oltre vi sono documenti comprovanti che il re Ferdinando concedesse ad un Giovanni da Gazuli il deserto paese detto Castelluccio dei Sauri, e questi vi collocò sessanta schiavoni, ma forse probabilmente erano albanesi, dal perché distinguevansi per greci (1473-1474).14
Vorremmo precisare che sarebbe stata nostra intenzione seguire quelli e quanti vennero in Calabria e Sicilia. Tuttavia ci è parso bene - senza per questo allargare il nostro discorso - non tralasciare quelli e quanti approdarono altrove e cioè nel Molise e in Puglia "seguendo la traversata più stretta dell'Adriatico.15 Sono da considerare tra le prime immigrazioni. E ne abbiamo preso già nota. Da costoro quando Irene Castriota andò sposa al Principe di Bisignano, grande feudatario della Calabria, molti albanesi che si erano stanziati in Puglia preferirono staccarsi e seguire in Calabria la loro connazionale(1470), prendendo dimora nei paesi di S. Demetrio, Macchia, San Cosmo, Vaccarizzo, San Giorgio, Spezzano.16
Siamo negli anni dal 1476 al 1478. Caduto l'eroico presidio di Croya, dopo essere rimasto sol e senza speranza di soccorso, ha inizio un altro passaggio di albanesi in Italia. È urgente e necessario sottrarsi all'oppressione dei maomettani. Bisogna porre fine all'agonia di quell'ultimo e valoroso baluardo dei cristiani, ai quali non bastavano e non bastarono gli scarsi aiuti dei pochi amici.
L'agonia di quello ultimo baluardo dei cristiani si protrasse, affinché l'Europa almeno nell'ultima ora avesse distesa una mano soccorritrice ad un popolo ridotto agli estremi per difendere una causa di generale interesse, da tutti per tale riconosciuta. Dopo gl'inutili soccorsi dei pochi veneziani loro non rimasero che le sterili benedizioni dei Papi, mentre da Roma erano partite le più frequenti eccitazioni onde protrarre tanto oltre una guerra diseguale colla vaga speranza delle crociate. Estinguendosi nello inopia, e colla effusione del sangue degli ultimi difensori delle albanesi libertà, il momento estremo di un coraggio sventurato arrivò per tutti, ciascuno dovette scegliere tra la incertezza del destino e l'apostasia. Laonde molte altre sconfortate famiglie si mossero per raggiungere i loro connazionali sulle spiagge della Calabria Citra. Allora si videro ampliate le case intorno alle antiche abbadie, altri piccoli aggregati sorgere in siti alpestri e boscosi, e da questi venir fuori paesi ora conosciuti dai noi di Lungro, Firmo, Acquaformosa, Castroregio, Cavallerizza, Cerzeto, Civita, Falconara, Frassineto, Percile, San Basilio, San Benedetto, Santa Caterina, San Giacomo, San Lorenzo, San Martino, Santa Sofia, Serra di Leo, Marri, Cervicato, Farneto, Mongrassano, Plataci, Rota: nomi quasi tutti già portati da quei spopolati villaggi e qualcuno allora imposto.17
A questo punto verrebbe voglia di riportare una pagina amara specialmente per quel tempo e per quegli albanesi che pur di non sottostare alle prepotenze morali e materiali dei turchi e sottrarsi al destino triste e mortificante di dover scegliere tra la vita e l'apostasia e la morte nella riaffermazione della propria fede religiosa. Anno 1480. Otranto. I martiri della Spianata di Morte della Minerva. Ottocento otrantini sgozzati. Ottocento Martiri. La Cattedrale di Otranto ne custodisce le reliquie in gradi armadi. Solo un breve accenno e ce ne scusiamo con tutti.
(1480-1481) Gli acerrimi loro nemici non contenti di averli snidati dai monti di Epiro con una rimarchevole coincidenza dietro ai loro passi anche in Italia correvano, ed un'altra volta nell'orrendo abisso dal quale uscivano pareva che ingoiare li volessero. Gli stessi Baroni perché insofferenti del governo fatto dal re Ferdinando, quel desso pel quale gli Albanesi vennero a combattere nelle Puglie, nel momento in cui egli contro ai fiorentini lottava crederono giunto il momento di fargli perdere il trono, e a tanto giunsero da incitare il terribile Maometto II a invadere il regno. Rincresce il leggere che i Veneziani medesimi mal dissimulando con la loro flotta accompagnavano quella del Turco, pur fingendo di volerle contrastare l'entrata nell'Adriatico; maggiore è il rammarico in sapersi che una divisione dell'armata ottomana diretta a togliere l'isola di Rodi ai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme era Capitanata dal Pascià Mesithes oriundo greco della stirpe dei Paleologo;18 e quella diretta in Italia comandavala un Achmet Giedik agnominato lo Sdentato nato in Albania.19 Ma oramai abbiamo deplorato abbastanza la obbrobriosa condizione, in cui e Greci e Albanesi erano caduti, facciamoci ad osservarne le conseguenze.20
[omissis]
Da Valona si approntavano a partire altri venticinquemila Turchi, quando tra le voci dell'allarme, ed i palpiti del cuore s'intese la morte di Maometto II (3 maggio 1481). Da Rodi a Roma, da Roma a tutto il mondo cattolico corse rapida la nuova come un raggio di luce spiccato nelle tenebre. Inni di grazie si elevarono in tutte le chiese, la cristianità sperava di affrancarsi, reciproche congratulazioni dei principi facevano precorrere auguri di più prosperi successi nelle poche armi dei fedeli. Estinto quanto meno lo si attendeva il colosso dei Sultani, i Turchi si aggiacciarono; in quella momentanea paralisi il Duca di Calabria Alfonso sussidiato da soldatesche papaline ed ungheresi strinse in assedio la città; il corpo di occupazione si ritirò da Otranto nel 10 agosto 1481, dopo tredici mesi di saccheggio, ed un quasi generale massacro; dugento quaranta scheletri di quei corpi mutilati ancora insepolti sul suolo giacenti furono con solenne pompa raccolti e trasportati in Napoli.21
Ed anche se si era sperato che la morte di Maometto II potesse portare con sé un po' di sollievo a quanti avevano sofferto e soffrivano, assai lontano erano, tutti, dal pensare agli avvenimenti attesi ed inattesi che pesarono ulteriormente e molo su di essi. Avvenne così che moltitudini di doloranti creature di Dio erravano sperdute ed affamate; solo conforto e speranza la Fede. È sempre il Tajani che nota con amarezza e delusione i fatti che capitarono in quel particolare momento ai fuggiaschi dell'Albania e ai greci arvaniti.
Però la morte di Maometto II fece solo barcollare per poco la Turchia, non la condizione dei popoli fu migliorata, né la cristianità divisa profittò del momento per distruggere quelle orde sterminatrici. Le due armate turche dell'Asia e dell'Europa divennero antagoniste, il successore Zizim affidossi alla prima, battuto dalla seconda passò tristi gironi in Castel Sant'Angelo, poi venne a morire in Terracina, il Re di Napoli Federico II ne spedì il corpo ad un altro Bajazzet portato sul trono. Non pertanto la subblime Porta ammansita sotto il pondo delle discordie intestine faceva supire i timori e concitare le speranze. Parecchi Principi della penisola, ed il Papa Sisto IV costretti dalla propria debolezza a quella politica innanzi alla quale Scanderbergh non aveva voluto mai piegarsi, ingelositi e dubbiosi della Repubblica Veneta, sollecitarono l'alleanza del nuovo Sultano. Ma quella politica di conciliazione poco valse a tranquillizzare l'Italia, in nulla giovò agli Albanesi.22
Il nuovo sultano appesantì la sua repressione sull'Albania, così che la disperazione degli albanesi aumentò e "moltissime famiglie o divennero musulmane o precipitosamente emigrarono".
(1481-1492) Perciocché rotta la guerra tra la Repubblica e la Turchia, il Sultano Bajazzet II fece appesantire la sferza sulla bassa Albania, ed allora moltissime famiglie o divennero musulmane o emigrarono. Tredici delle più agiate si radunarono a Scutari, solcano il Drino scesero in Alessio e là imbarcati si rivolsero nella Sicilia. Non passò e la famiglia Adriano edificò nella Provincia di Palermo un palazzo, mano mano intorno ad esso uno aggregato, e quindi un paese col nome di Palazzo Adriano (1481). Alcune si fermarono nel monte detto La Pizzuta, ottennero da Ferdinando il Cattolico i campi di Marco e Apudingli appartenenti al Cardinale Borgia posti alle falde del monte stesso (1488) e quivi un altro paese vi sorse denominato Piana dei Greci per distinguerlo da quelli di rito latino; e così poi vennero fuori gli altri Bronto, Mozzoiuso, Sant'Angelo, San Michele. In questi paesi posero stanza i Primati Janni Barbati, un Giorgio Gulema, un Janni Skirò, un Janni Mancalusi, un Tommaso Thani, un Gjon Boxia, un Matteo Masza, un Teodoro Drogoli, un Giorgio Barlezio, un Janni Thaminiti, un Mesacchio, che ricorda la Masaka del Caucaso, nonchè un Gino di tal cognome, noto per uno dei più arditi capitani di Scanderbegh, il quale caduto prigioniero nelle mani dello inesorabile Maometto II fu scorticato vivo, infine un Masì della tribù dei Mas Mat, i misuratori del tempo.
A suo proprio luogo osservammo gli Albanesi a due riprese rivolgersi nella Valacchia, e come fin là Bajazzet raggiunti li avesse, ora aggiungiamo colle parole del sommo storico Giannoni la fuga da quei siti di molte famiglie, le quali per evitare il servaggio e lo islamismo anche in Italia se ne vennero. "Nel 1484, ei dice, Bajazzet prese la Valacchia, nel 1493 occupò i Monti Cerauni, e tutt oil tratto dell'Albania, e si sottomise tutte quelle genti che vivevano libere. Quindi, molte nobili famiglie per non vivere in ischiavitù fuggirono da quei luoghi e si ricoverarono nelle più vicine parti, ed alcune nel nostro regno". (Storia civile del regno di Napoli, I 28, pag. 10).23
Abbiamo riportato quanto ha scritto il Tajani. Anche perché dà un primo preziosissimo elenco di Casati albanesi delle famiglie giunte n Sicilia, precisando che si tratta di "Primati" e dandoci notizie particolari.
Questi profughi che in tempi diversi ed a pochi alla volta in Italia stabilironsi non potrebbe dirsi con certezza a quali delle razze appartennero. Essendo stati quasi tutti seguaci e commilitoni di Scanderbegh la maggioranza pare fosse appartenuta alle razze degli Skumbi e dei Mirditi, nellaprima delle quali faceva parte la famiglia Castriota. Notevole si è la rassomiglianza di taluni cognomi di famiglie con quelli delle poche individualità menzionate nell'Albania del Caucaso. Quel Rereg entrato nel Consiglio legislativo del buon Re Vatchangan secondo, si avvicina al Reres capitano degli Albanesi militanti nella Sicilia; Radhan sta in Rada e poi de Rada; Stragos in Bracos e poi Bracco; Archis da Ark, cittadella in persiano divenuto comandante del castello di Atene fu detto in greco Archiopoli; da Mànasse vennero i Manesse nelle guerre di Scanderbergh, poi ne Veneto, i Manasse, i Manasse nelle Calabrie oggi Manes, e questo nome Manesse venne imposto anche ad un villaggio del Peloponneso; da Marusso Marusio; da Phiroz Piroz; e così molti altri cognomi dalla desinenza in sci dimostrano di essre derivati da quelli di famiglie antiche ora scomparse. Cuk-sci, Dam-sci, Gram-sci, Gio-sci, Man-sci ecc. come i Straticò, i Demarco sembra di essersi cognominati tra i capi greci.24
Abbiamo già detto- e ne abbiamo scritto i motivi - che seguiamo, non esclusivamente ma in particolare il Tajani. Ne apprezziamo tre l'altro la misura e l'afflato umano e patriottico. E ciò si detto con ammirazione e rispetto per quanti altri hanno scritto la Storia degli Arbërëshe e per quanti altri ne scrivono ancora oggi. È una storia esemplare, degna degli italo-albanesi di ogni tempo. Essa esalta giustamente le virtù nobili ed antiche di un popolo valoroso ed eroico. Ed è col Dorsa che no amiamo ricordarlo:
Ecco il principio che mi strinse riandare la famosa antichità, notomizzata nelle sue parti distinte, sceverando dalla storia dei Greci, la storia dei popoli vicini. È questa che io veggo tra le prime generazioni abitatrici di Europa, e sfolgorare per le armi di Filippo, di Alessandro, di Pirro, di Scanderbegh, ecc. (). Ricorderò le parole di Sallustio: fortuna signoreggia ogni popolo, ed a capriccio suo, non a ragione, la illustra o l'oscura. Ma anche nella sua caduta e nelle sue colonie la nazione Albanese ha di che menare considerevole vanto. Il carattere franco e risoluto e i forti costumi onde si fregia, sono doti bastevoli a farle vestire nella sfera delle genti una figura luminosa.25
Ed eccoci al punto nevralgico del nostro discorso. (Certo. Certo. Certo. Non è - ci affrettiamo a dirlo - il "Discorso del Consigliere di Stato Angelo Masci". Dio lo volesse!) E vorremmo soffermarci alquanto. Ce ne scusiamo. Ma dobbiamo pure orientarci nell'intento di sciluppare e rendere plausibile quella che, intanto, potrebbe essere od almeno sembrare una pura e semplice deduzione logica. Anche perchè a noi riesce gradito e significativo l'appena citato parlare di nazione che fa il Dorsa. Ed ecco la domanda che facciamo prima di tutto a noi stessi.
Le famiglie che si sottrassero al turco con la fuga in Italia - non vorremmo ripetere, per questa nostra povera nota; in Calabria e in Sicilia - erano tutte nobili? Ovvero come "impiegati", "dipendenti", per vari motivi, dalle stesse famiglie? Ovvero ancora come "contadini", "pastori", "bovari", "stallieri", gente, in qualche modo, legata alla famiglia nobile, che, pensiamo, si spostava con essa, sebbene impoverita, alla quale, quanto meno, era affezionata e della quale conosceva più di ogni altro e come non altri, le necessità, i bisogni, le abitudini. E, quindi, per essa, quasi l'assolvimento di un obbligo di amore. Per "servire" la "buona affezionata padrona". Ed anche verso il "buon padrone", amico, nella vita di ogni giorno, in casa e fuori al quale essere utile nel lavoro domestico, come cameriere e/o persona di fiducia. E nelle cavalcate, nelle battute di caccia, durante il servizio delle armi facendogli da attendente, servendo nel governo dei cavalli come addetto ad essi e in mille altri servizi particolari. E quindi di gente pronta a seguirli nella cattiva fortuna come nella buona. Per alleviare loro disagi, tribolazioni, sofferenze. Per essere presenti e dare loro aiuto nell'assistenza ai vecchi e ai bambini. Oppure - diciamo anche questa, ché non è un'assurdità quando riferita, come noi la riferiamo, a "padroni" di antichissima stirpe e tradizione - perchè si siano voluti salvare, portandoli seco nella fuga, anche persone care ed affezionate sebbene non consanguinee ma facenti parte della casa per un motivo o per l'altro. gente cara, come si diceva e si dice, fedele e devota.
A noi pare che un possibile chiarimento in proposito farebbe piacere a tutti considerando la curiosità e l'interesse che "il problema", diciamo così, non manca di suscitare negli studiosi di storia, di antropologia culturale, di sociologia politica. Anche perché non dobbiamo dimenticare che il processo educativo delle creature umane e cioè dell'educazione come fatto culturale e di costume individuale, familiare, di gruppo sociale comunque costituito e vivente ed operante dei greci - tralasciamo per il momento il riferimento lontano ai Pelasgi od anche soltanto agli Illiri - diciamo dei greci di appena ieri e di oggi, era, come fu sempre ed è ancora, grazie a Dio, anche nelle comunità grecaniche della "Grande Grecia", espressione di affetti e di amicizia, la più grande e cioè la più alta conquista dell'uomo. Vogliamo dire dell'uomo nel suo "farsi", nel suo "crescere" dove nasce e/o altrove. E precisamente in quell'"attualismo" - tanto per ricordare Giovanni Gentile - che per noi partecipa della "Grazia attuale" e che si appropria al processo educativo e cioè all'Educazione umana in sé e per sé, promossa e regolata dalla forza spirituale e fisica delle creature umane, figli prediletti di Dio, come fatto individuale e sociale dell'esistenza umana. Ragione per cui la solidarietà è viva ed è vera tra le creature di Dio. Ed è - vogliamo ripeterlo - un atto di amore che si concretizza e si fa sangue come nel Mistero della Fede il Pane e il Vino.
Davanti a questo mistero naturale e soprannaturale dell'anima umana cade ogni cosiddetta differenza di classe. Si ha la partecipazione umana reciproca, fraterna, tra creature coinvolte dallo stesso destino, sia esso lieto, sia esso triste e doloroso.
La naturale disposizione ad aiutare il più debole, il più afflitto, il malato diviene urgente. E forse - e certamente - una cosiffatta partecipazione reciproca viene a manifestarsi, più e prima ancora che nella gioia, proprio nel dolore. E proprio ed appunto perchè determinate culture nobli ed antiche, come e quanto quella albanese, permeate di etica umana in generale e di morale cristiana in particolare (carità cristiana, fede cristiana, cattolica e non cattolica semplicemente cristiana) come risultato dell'atto educativo familiare e/o anche di gruppo sociale umano di appartenenza organizzato, che riesca ad attuare una determinata situazione storica libera e vitale, assurge a bisogno spirituale come esigenza dell'anima. Non è quindi possibile, in determinate situazioni di sofferenza e di bisogni collettivi sottrarsi alla vocazione di esser di aiuto al proprio simile, anche quando estraneo, del quale si diventa consoci al punto che la potenza effettiva impegna la mente e il cuore. E la carità, l'amore cioè, in e con tutta la sua forza, in e con tutta la sua luce, travolge ogni egoismo ed ogni ostacolo; dà coraggio ed ardire. L'uomo diventa per questo solidale con l'uomo cioè con sé stesso. Le creature umane colpite dalla sventura non hanno più tempo per calcoli materiali che non siano quelli necessaria a superare le occorrenze più prossime ed elementari ma vitali. Non misurano le difficoltà se non per superarle. E tutti diventano buoni. Pronti a a sacrificarsi gli uni per gli altri. Eco perché avremmo voluto incontrarli tutti nei libri che abbiamo per la mani.
In verità noi ameremmo pervenire alla individuazione di quanti altri casati albanesi non figurano nella storiografia di quel tempo. Ma è un lavoro che dobbiamo lasciare ai giovani. Lo facciamo volentieri con tanti auguri di felice impegno e di ottimi risultati.
Considerata definitiva la qualifica di nobili data dai nostri autori a determinate famiglie, delle quali abbiamo gli elenchi nominativi che si ripetono in utti i libri di storia che ne trattano, noi vorremmo davvero poter dedurre che tutte le altre famiglie albanesi, prive di una qualsiasi qualifica sociale, delle quali ignoriamo tutto, riparate in Italia, nei secoli XV e XVI, abbiano avuto anch'esse il loro "bel casato", anche quando gente umile quale era in realtà.
E vorremmo poter dire che tutti quei casati appartennero a gente che, nel Regno di Napoli e in Sicilia con gli aragonesi, con Carlo V un po' dovunque, senza dire di Venezia che ne ebbe in ogni tempo dappertutto, seppe servire con onore sotto le armi in cento battaglie e non solamente quando ebbe a capo lo Scanderbergh. Ed anche in tempo di pace bonificando e coltivando terre divenute orti e/o giardini oltre che vigneti, oliveti, castagneti, agrumeti rinomati, fertili campi di cereali e di legumi e vaste "difese" di pascolo per una pastorizia ricca e un allevamento vaccino, equino, suino anch'esso ricco sia stanziale sia brado. Ed inoltre che era come fu gente di estrazione popolare autentica, nobile ed antica anch'essa, radicata nel contesto sociale di chi in quel tempo specialmente, "tirava il campo della civiltà" lavorando la terra non sua e pascolando animali non suoi. E servendo nelle famiglie dei nobili quasi sempre ricche e/o in quelle dei ricchi che non sempre erano nobili.
Popolo autentico, dunque, quegli albanesi non passati alla storia con il loro casato rimasto nella penna di che ne ha scritto. Non per tanto, però, meno degni di essere amati. Alla pari, sicuramente alla pari, di qui "Primati" - come li chiama il Tajani - membri illustri di quelle nobili famiglie alle quali appartenevano. Degni, dunque, tutti, tutti insieme, questi albanesi dei quali abbiamo l'onore di parlare qui - e di tanto siamo grati a chi e a quanti hanno avuto l'amabilità di offrircene l'occasione - di essere ricordati per il loro valore di soldati, la loro onestà di lavoratori e di cittadini.
Noi, personalmente, amiamo il "popolo autentico", al quale abbiamo la fortuna e l'onore di appartenere per educazione e per sangue. Ed è al "Popolo autentico", quando affrancato, libero di lavorare e di vivere onestamente dove meglio crede e vuole, singolo individuo che esso sia e pietra angolare e/o fondamentale della famiglia e/o del gruppo sociale di appartenenza organizzato ed operante, che noi, oggi, da qui, vogliamo augurare di essere guidato da "gente" proba, capace, responsabile della vita sociale ed economica, civile, militare, religiosa di un popolo - del "Popolo autentito" appunto - già assurto a dignità di Nazione o che lo sia in fieri.
Accenno ora brevemente alla ricerca da me compiuta. Spero essa rappresenti davvero un contributo, sia pure modesto e affatto comune, alla conoscenza dei casati albanesi ovvero Italo-albanesi in Calabria nel XVIII secolo e precisamente in San Benedetto Ullano, Falconara Albanese, San Giacomo, Cavallerizzo.
Quelli di San Benedetto, e solo per il decennio 1760-1769, sono stati ricavati dai Registri Parrocchiali dei matrimoni e per il 1750-1759 dei defunti. Debbo alla cortesia di don Giuseppe Alessandrini, parroco di San Benedetto, la copia manoscritta di essi redatta dalla dott.ssa Ivana Capparelli che se ne è servita per la tesi di laurea. Li ringrazio sentitamente.
Quelli di Falconara Albanese, San Giacomo e Cavallerizzo, che sevono a fornire un elemento preciso sui casati degli stessi paesi al tempo del catasto onciario del Regno di Napoli, sono stati riportati dallo stato delle anime redatto dai parroci ed allegato allo stesso catasto.
E debbo alla cortesia di Giovanni Laviola, studioso attento e autorevole delle Comunità Italo-Albanesi, della loro storia e della loro cultura, gli elenchi dei casati albanesi, in Calabria, Sicilia, Puglia e Molise che riporto per intero in appendice. Gliene sono particolarmente grato, non soltanto per il favore fatto a me personalmente, quanto per il prezioso contributo che Egli dà così a questo nostro interessante e significativo incontro.
I "Cognomi di alcune Famiglie Italo-Albanesi" mi sono stati notificati dal Comm. Angelo Bugliari al quale sono gratissimo di questo suo cortese, prezioso apporto e della cara amicizia di cui mi onora. Li riporto per intero in appendice dove - per chiudere con l'autorità del Rohfls - dò uno specimen di come Egli, del Dizionario dei Cognomi e sopranomi in Calabria (Longo Editore, Ravenna 1979) tratta i cognomi albanesi.
Infine ancora una nota doverosa che serva anche a giustificazione per il nostro modestissimo apporto, riportiamo in appendice la pagina che Domenico Zangari premette al suo studio Le colonie albanesi in Calabria - Storia e demografia secoli XV-XIX (Editori Caselli, Napoli 1941 - XIX). E, come già avvertito, dello stesso Zangari, senza peraltro entrare nel merito, quanto Egli scrive sul Reres e il governatorato stesso nella Calabria Ulteriore: cfr. Appendice, documenti 2 e 3.
*Alla memoria di Gerald Rohlfs, sebbene indegnamente da parte mia anche per queste mie povere pagine sugli Italo-Albanesi, gratoper avere egli amato la Calabria con tutta la forza della sua anima e del suo ingegno, sono a celebrarla - ecco il Suo grande merito di scienziato - nella grecanicità della "Grande Grecia".
Alla cara memoria di Nicolino Lattari, di Gino Oliverio, don Ciccio Lattari, don Alfonso Vacari, don Gennaro Valenza, don Domenico Mazzei, tutti illustri avvocati e giuristi di Fuscaldo, mio paese natale, tutti imparentati, nel corso dei secoli, con gli Albanesi, a partire dal tempo di Giorgio Castriota Scanderbegh. Alla Cara memoria dell'avvocato don Gioacchino Mayerà di antica e nobile famiglia albanese, greca arvanita del Peloponneso.
A ricordo delle mie antenate Raffaela Smiriglio di Antonio e di Anna Felice d'Andrea, quondam Tommaso Smiriglio e Teresia Lattaro, uxor Joannes Patitucci ex Antoni quondam Francisci e Maria Rosaria Trotta quandam Giambattista, uxor Nicola Patitucci quondam Francisci, quondam Salvatoris a Tarsia e della quondam Isabella Casolino, entrambi di casato Arbëreshë di San Giacomo. E di Anna Isabella Amerise del quondam Tommaso e della quondam Elena Corrado, nata a Spezzano Albanese il 16.09.1691 e ivi morta il 27.9.1737, uxor Hieronymo Patitutti a Tarsia del quondam Salvatore e della quondam Elisabetta Grasso.
Si tratta di casati greci arvaniti divenuti, tutti, casati italo-albanesi-Arbëreshë, casati, cioè di gente antichissima, illirica, per dirla col Dorsa.
1 Don Antonio Bellusci è lo studioso più attento d'oggi. Ricercatore di Materiali e docuemntei di culture analfabete, rivolge, in particolare, la sua ricerca al paese natale, Frascineto, rifugio (1476-1478) di famiglie albanesi. Si veda nota bibliografica in Appendice, documento 1.
2 A. Bellusci, Il telaio nel testo originale Arbëreshë, Cosenza 1977, pp. 21-22.
3 C. Ciampi, Le sedi dei greci arvaniti, in "Rivista Geografica Italiana", XCII, fasc. 2. Giugno 1985.
4 F. Tajani, Albanesi in Italia, Cosenza, Casa del Libro, 1969, p. 5.
5 Ibidem, Tajani cita Rodotà, Del rito greco in Italia, Martinier, Diction. Geograph.
6 Ibidem pag. 6.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 Ibidem. Tajani ci dà il documento:
Alfonsus Dei gratia rex Aragonum ec. Considerantes nos enim, quod tuius militaribus servitiis et laboribus uti trium Coloniarum Epirotarum Dux, sub nostro militari servitio cum sanguinis effusione in adeptime totius provinciae Calabriae inferioris magna opere ad tribuisti aliisqui occasionibus, et servitiis paratus, et promptus semper fuisti, insimul cum Georgio et Basilios filiis tuis, qui Georgius ad presens manet in nostro regno Siciliae ultra Pharum in servitio nostro tamquam Dux Epirotarum nostrum subditorum pro desentione predicti Regni ex gallicis, invasionibus pro quorum remuneratione, ac tua antiqua nobilitate qua ex clarissima familia Castriota Epirotarum principe originem traxit, visum est pro modo. Te militem Demetrium Reres eligere et nominare in nostrum regium Gubernatorum praedicta nostrae provinciae inferioris Calabriae pro ut virtute praesentis nostrae regiae vedutae eligimus creamus et nominamus te in predictum gubernatorum in praenotate provinciae inferioris Calabriae. (Vedi atti del Notar Diego Baretta di Palermo riportato dal Masci, pag. 72. Domenico Zangari, in Appendice, documenti 2 e 3).
10 Ibidem.
11 Ibidem, pp 6-7. Il nostro autore cita Fazelli, Hist. sic., dec. I, Lib. X; R. Pirri, De Eccles. Agrigent, pp. 36; Rotodà, op. cit. Tomo III, p. 103.
12 Ibidem. Tajani è scrupoloso. Non manca di citare le fonti. Cro. Thure. Append. alla Stor. di Scander. pag. 233. Thor. ad Salernitam. dec. 4, num. 2. Epistula Pauli II ad Philippum Burgundiae Ducem. Apud Cardinalis Papiensis. Epistolas.
13 Ibidem.
Optare Georgium in terris Ecclesie rifugium, si regno pelleratur a Turchis. Rifugium pulso in agris ecclesie non defaturum si pro religione pugnans ad hoste fidei ejicitur. (Comment.)
14 Ibidem, pp. 7-8. Comment. 17 s.n. 1473-1474. Cam. I, lett. F, fol. 4 n. 37. Giustiniani, Division. Stor. Geograf.
15 Enciclopedia Italiana, alla voce Albanesi d'Italia, col. II, AGRO-AMM, pag. 92..
16 Ibidem.
17 F. Tajani, op. cit., pag. 8.
18 Ibidem, pp. 8-9.
19 Veggasi Siam. Op. cit. Tomo II, pag. 790 e suc. citaz..
20 Marin Sannuto, Vite dei Duchi di Venezia, Too XXII pag. 1213.
21 Giovanni Albino, De bello Hidri. Antonio de Ferrario, De situ Japyac ecc..
22 Ibidem, pag. 9.
23 Ibidem. Lo istrumento di cessione fu rogato dal Notar Altavilla da Palermo nell'ultimo giorno di agosto 1488. Il Mugnos nel suo Teatro genealogico al libro VI scrive così:
Dopo la morte dello invitto Duce ed eccellente capitano Giorgio Castriota i nobili Albanesi non potendo soffrire la tirannica servitù dei barbari, come sopra ho detto, se ne vennero in Sicilia con quelle comodità pecuniarie che poterono loro portare; si fermarono con licenza regia parte della Piana parte nel Palagio Adriano così chiamato da una più potente delle tredici famiglie che ivi fermarono chiamata Adriano, a parte in altri luoghi della Sicilia, e per sostento della loro vita s'impiegarono chi all'agricoltura e chi alla milizia in servizio del re cattolico.
Il re cattolico fu quel Ferdinando figlio di Giovanni II di Aragona celebre per avere cinte ad un tempo le corone di Aragona, di Castiglia e di Sicilia. Secondo re dell'isola vi regnò dalla morte del padre avvenuta nel 1479.
24 Ibidem, pp. 10-11.
25 Vincenzo Dorsa, Sugli albanesi. Ricerche e pensieri, Edizioni Brenner, ristampa della prima edizione, San Giovanni in Persiceto 1985, pp. 6-7..
Raffaele Patitucci D'Alifera Patitari, Casati albanesi in Calabria e Sicilia, estratto da "Rivista Storica Calabrese" N.S. X-XI (1989-1990) NN 1-4
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